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Automotive: l’unica certezza è l’incertezza – di Antonio Maria Rinaldi*
L’automotive europeo è al collasso tra dogmi green e cambi di rotta improvvisi. Antonio Maria Rinaldi analizza come l’ideologia del “tutto elettrico” stia consegnando la nostra industria alla Cina, distruggendo la pianificazione aziendale. Serve subito neutralità tecnologica.

Da anni l’industria automobilistica europea vive in una condizione di commissariamento ideologico. Le regole “green” imposte da Bruxelles – concepite più per soddisfare un orizzonte politico che un disegno industriale coerente – hanno prodotto un sistema di vincoli che non governano la transizione, ma la subiscono. L’automotive, settore che ha rappresentato per decenni l’asse portante della manifattura continentale, si ritrova oggi ostaggio di una normativa che cambia direzione senza mai costruire una rotta stabile. L’unica certezza, paradossalmente, è divenuta l’incertezza.
Il difetto originario di questa impostazione risiede nella convinzione che il mercato possa essere indirizzato esclusivamente attraverso la leva regolatoria, senza un’analisi approfondita delle conseguenze industriali, finanziarie e sociali. La transizione ecologica è stata ridotta a un esercizio di ingegneria normativa, con un’imposizione univoca: l’elettrico come unico orizzonte tecnologico. Un’idea che ignora volutamente l’esistenza di alternative pienamente neutrali – biocarburanti avanzati, idrogeno, ibridi evoluti, soluzioni sintetiche – scartate non sulla base di valutazioni tecniche, ma perché considerate “non allineate” alla narrativa dominante.
Il risultato è un’Europa che predica autonomia strategica ma costruisce dipendenza materiale. Perché la mobilità elettrica, così come è stata progettata, affida pezzi decisivi della filiera al controllo di economie extraeuropee, spesso concorrenti geopolitiche. Chi detiene il litio, il cobalto, le terre rare, le tecnologie delle batterie? Non certo l’Europa, che ne è quasi totalmente priva. La scelta di vincolare un intero settore a una tecnologia fortemente import-dipendente, senza aver prima costruito un ecosistema industriale credibile, rappresenta un errore sistemico che un analista di politica economica non può ignorare.
L’automotive non può essere ridotto a un laboratorio ideologico: occupazione, ricerca, subfornitura, meccanica di precisione e servizi avanzati costituiscono una rete produttiva che attraversa l’intero continente. Eppure Bruxelles ha continuato a procedere per atti amministrativi, modificando obiettivi, soglie e scadenze con la stessa disinvoltura con cui si revisiona una delibera interna. Una transizione, per essere efficace, deve assicurare prevedibilità e gradualità. Qui si è avuta l’esatta inversione: imprese costrette a investimenti miliardari su scenari che cambiano prima ancora che tali investimenti vadano a regime.
Oggi, non a caso, l’Unione europea si scopre costretta a rivedere le proprie direttive. Non per una spontanea presa di coscienza, ma perché la realtà – quella industriale, quella dei consumatori, quella geopolitica – ha presentato il conto. Le immatricolazioni elettriche non crescono come previsto, i costi rimangono elevati, la filiera resta incompleta e la concorrenza asiatica avanza. La Commissione avvia consultazioni, apre dossier, annuncia “ripensamenti”. Ma il problema non è aggiustare la rotta: è ammettere che la rotta non è mai stata tracciata.
In questo scenario, gli Stati membri assistono divisi, oscillando tra il tentativo di difendere la propria industria e la volontà di apparire rigorosamente allineati alla trasformazione verde. Un’Europa industriale senza una politica industriale: è questa la contraddizione strutturale che pesa sul continente. Non si può proteggere l’autonomia strategica senza una strategia, così come non si può guidare la transizione senza una conoscenza realistica delle proprie capacità produttive.
L’automotive mostra oggi, con brutale chiarezza, i limiti di una governance che per anni ha confuso obiettivi ambientali – legittimi e necessari – con strumenti politici inefficaci. La sostenibilità non nasce da decreti, ma da innovazione tecnologica, investimenti, infrastrutture, ricerca e cooperazione internazionale. Imporre dall’alto una tecnologia unica equivale a riprodurre il modello dei monopoli: si crea dipendenza, si riduce la concorrenza, si rallenta la stessa innovazione che si intende promuovere.
Ecco perché, nel momento in cui Bruxelles annuncia l’ennesima revisione delle sue regole, l’Europa dovrebbe compiere un atto di maturità: riconoscere che la sostenibilità non è un dogma ma un processo; che il pluralismo tecnologico è una ricchezza, non una minaccia; che la sovranità industriale si difende con la capacità produttiva, non con i regolamenti.
Fino a quando queste verità continueranno a essere ignorate, l’automotive europeo resterà imprigionato in un sistema in cui i produttori non possono programmare, i lavoratori non possono prevedere e i consumatori non possono scegliere. Un sistema nel quale la politica pretende di guidare l’economia, ma finisce per smarrire entrambe.
Ed è per questo che, oggi più che mai, l’unica certezza è l’incertezza.
Domande e risposte
Perché l’autore definisce la strategia UE un “commissariamento ideologico”? L’autore sostiene che le regole imposte da Bruxelles non nascano da un’analisi industriale o economica pragmatica, ma da una visione politica prestabilita. L’Unione Europea avrebbe utilizzato la leva normativa per forzare il mercato verso una direzione unica (l’elettrico), ignorando le ripercussioni sulla filiera produttiva, sui costi sociali e sulla realtà tecnica, trattando l’industria dell’auto più come un laboratorio per esperimenti politici che come un asset economico strategico da tutelare.
Quali sono i rischi geopolitici evidenziati nel testo? Il rischio principale è il passaggio da una dipendenza energetica (i combustibili fossili) a una dipendenza tecnologica e di materiali verso paesi extra-UE, in particolare la Cina. L’Europa, forzando la mano sull’elettrico senza possedere le materie prime (litio, cobalto, terre rare) né la supremazia nella produzione di batterie, sta di fatto consegnando “pezzi decisivi” della propria sovranità industriale a concorrenti geopolitici, contraddicendo il principio di autonomia strategica che essa stessa professa.
Quale soluzione viene proposta per correggere la rotta? La soluzione non è l’abbandono della sostenibilità, ma l’adozione del principio di “neutralità tecnologica”. Invece di imporre per legge una singola tecnologia (l’elettrico a batteria), l’Europa dovrebbe permettere lo sviluppo di diverse soluzioni (biocarburanti, idrogeno, e-fuels, ibridi) che possano competere per raggiungere gli obiettivi ambientali. Questo approccio garantirebbe pluralismo, favorirebbe l’innovazione reale e permetterebbe all’industria di pianificare gli investimenti con maggiore sicurezza e stabilità.









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