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ANALISI DI UN SUICIDIO ANNUNCIATO

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Nella vita politica esiste una legge che recita più o meno così: “nel medio periodo, se distruggi il mondo del lavoro, il mondo del lavoro distruggerà te”. Questa è la sorte che è toccata qualche anno fa a Scelta Civica del senatore a vita Mario Monti, più recentemente al PD e Forza Italia e che inesorabilmente toccherà al Movimento 5 Stelle. Questo non tanto, o non solo, per incapacità dei rappresentanti del Governo e del Parlamento, ma come inevitabile conseguenza del sistema ordoliberista nel quale siamo imprigionati. Non è un caso che in tale contesto, vocato alla compressione dei consumi interni al fine di favorire le esportazioni, l’unica risorsa possibile per diminuire i gap di competitività, non potendo intervenire sul cambio, è riservata alla riduzione dei salari (a tutto vantaggio della quota profitti). Questa assunzione è confermata da quanto recentemente accaduto nei vari paesi europei a seguito della crisi del 2008. Nel grafico seguente sono rappresentati in blu i Paesi che aderiscono all’Eurozona, in verde quelli aventi una valuta nazionale: si vede in maniera palmare che i Paesi dell’Eurozona, con la sola eccezione dell’Estonia (che però ha aderito solamente a partire dal 2011), nel settennato che va dal 2009 al 2016, hanno dovuto ridurre i salari reali, mentre le nazioni dotate di una propria moneta hanno potuto innalzarli anche in presenza di una crisi mondiale.

Si evidenzia infatti che tra 13 Paesi che hanno visto l’aumento più contenuto dei salari reali, o addirittura una loro contrazione, ben 10 facciano parte dell’Eurozona. A titolo esemplificativo si ricorda che i salari reali greci sono calati, rispetto al 2009, di oltre il 21%, mentre i lavoratori italiani, rispetto alla stessa data, si sono impoveriti dell’1,3% in termini reali, cioè l’inflazione, pur bassissima, è cresciuta di più rispetto ai salari.


Questa riduzione salariale, secondo i media mainstream che ne decantano le virtù salvifiche, avrebbe contribuito fattivamente a ridurre la disoccupazione ed a riportare in positivo il prodotto interno lordo dopo anni di recessione.
Queste affermazioni risultano parzialmente veritiere, come ci insegna la scienza economica e come si può osservare dai grafici seguenti, ma occorre andare più a fondo e verificarne gli effetti indotti.

Occorre infatti chiedersi se questo aumento della produzione reale sia stata equamente distribuita tra le diverse fasce della popolazione e se ciò sia andato o no a detrimento della qualità del lavoro (oltre che, come appena visto, della sua remunerazione).
I dati ci consentono di formulare una prima conclusione: se la produzione reale aumenta, ma i salari reali diminuiscono, necessariamente la ricchezza viene polarizzata: da una parte i poveri, che divengono sempre più poveri, dall’altra i ricchi che divengono sempre più ricchi.
Tale conclusione è confermata, oltre che dalla teoria economica, anche dai dati fattuali. Si può ad esempio esaminare la quota salari degli ultimi anni evidenziando come, a seguito delle riforme strutturali messe in opera, la quota salari sia tornata a ridursi dopo l’impennata del biennio 2007-2008 (nel quale i costi della crisi erano stati in gran parte assorbiti dalla quota profitti). Le riforme strutturali servono per scaricare i costi della crisi sui più deboli e gli agganci valutari fanno sì che questa sia l’unica soluzione possibile! Il “there in no alternative” di thatcheriana memoria.

Non è un caso che le riforme strutturali vengano invocate a gran voce dai grandi capitali che sono proprio coloro che detengono le proprietà dei mezzi d’informazione.
Analoga dinamica può essere osservata analizzando le dichiarazioni dei redditi diffuse dal Dipartimento delle Finanze. Confrontando i redditi dichiarati per l’anno 2009 con quelli per il 2016, si evidenzia che i dichiaranti hanno avuto un decremento di quasi 900.000 unità (addirittura di 1.203.893 rispetto al 2008), ma la cosa più interessante da esaminare è la variazione del reddito per fasce: è di palmare evidenza che, mentre i redditi medio-bassi hanno avuto un (lieve) peggioramento delle proprie condizioni (ad eccezione della fascia tra i 15.000 e i 26.000 € che ha visto il proprio reddito nominale aumentare mediamente di 388 €), i redditi altissimi (oltre i 120.000 € annui) hanno avuto un’autentica esplosione con un incremento medio di 8.394 € a testa. Quelli che hanno maggiormente beneficiato della crisi sono i più ricchi! Sono i veri vincitori della globalizzazione.


Questo dato si riflette inevitabilmente in un aumento di quello che viene chiamato indice di disuguaglianza del reddito disponibile (definito come il rapporto fra il reddito equivalente totale ricevuto dal 20% della popolazione con il più alto reddito e quello ricevuto dal 20% della popolazione con il più basso reddito), così come certificato dall’ISTAT: mentre prima della crisi il 20% della popolazione più ricca aveva un reddito equivalente pari a circa 5,2 volte quello del 20% della popolazione con il più basso reddito, ora tale “forbice” si è attestata a 6,3 volte.

La commistione tra diminuzione degli individui che hanno un reddito da dichiarare e riduzione del reddito delle fasce medio-basse, ha determinato una recrudescenza del fenomeno della povertà sia tra la popolazione (magari a seguito della perdita del posto di lavoro)

sia tra gli stessi lavoratori, che hanno visto le proprie condizioni deteriorarsi progressivamente con conseguente affacciarsi dello spettro della povertà.

Secondo la narrazione del mainstream, tuttavia, questo “sacrificio” sarebbe l’inevitabile prezzo da pagare per conseguire una riduzione della disoccupazione. Occorre, in primis, sgombrare il campo da un equivoco: la disoccupazione “vera” non è quella che ci viene narrata in quanto, come più volte enunciato in questo ed in altri blog, la situazione è ben più gravosa. Per le statistiche ufficiali risulta occupato chi ha più di 15 anni ed ha lavorato almeno un’ora nella settimana di riferimento. È di tutta evidenza che chi lavora solo un’ora a settimana non sia in grado di essere economicamente autosufficiente. Considerando, oltre ai disoccupati standard, anche la “forza lavoro potenziale” (inattivi che sarebbero disposti a lavorare) ed il part-time involontario, si ottiene la più realistica disoccupazione U6, rappresentata dalla linea in rosso nella figura sottostante, mentre la tratteggiata in nero rappresenta la disoccupazione “ufficiale”, denominata U3.

Quindi non siamo di fronte ad un tasso di disoccupazione dell’11%, cosa di per sé già grave, ma del 30%! Questa circostanza viene curiosamente confermata dalla Banca Centrale Europea (bollettino economico di maggio 2017) laddove appalesa di non essere in grado di conseguire il suo unico obiettivo, aumentare l’inflazione fino ad un valore inferiore ma prossimo al 2%, in quanto il tasso di disoccupazione reale nell’Eurozona è ben più alto di quello ufficiale (il 18% anziché il 9,3% ufficiale). Nello stesso bollettino la BCE dichiara letteralmente che, “oltre a suggerire una stima considerevolmente più elevata del ristagno del mercato del lavoro nell’Eurozona rispetto a quanto indicato dal tasso di disoccupazione, queste misure più ampie hanno anche registrato diminuzioni leggermente più moderate, nel corso della ripresa, rispetto alle riduzioni osservate nel tasso di disoccupazione”. Detto in altri termini, le riforme strutturali hanno consentito di ridurre la disoccupazione, ma in misura inferiore rispetto a quanto dicano le statistiche ufficiali.
Al fine di verificare la qualità di questo incremento occupazionale, facciamo ricorso alle cosiddette unità di lavoro equivalenti a tempo pieno che rappresentano la trasformazione a tempo pieno delle posizioni lavorative offerte per le diverse categorie lavorative. È più facile spiegarsi con un esempio: per l’ISTAT se 40 persone lavorano per un’ora a settimana, sono 40 occupati. Considerando le unità di lavoro equivalenti a tempo pieno, invece, questo equivale ad una sola unità che lavora a tempo pieno (40 ore settimanali).
Effettivamente gli occupati equivalenti sono aumentati a partire dal 2014, come si evince dal grafico seguente:

Andando però a disaggregare i dati forniti dall’ISTAT, si scopre quale sia la vera natura di questo aumento dell’occupazione: l’ISTAT infatti, al fine di fornire una stima esaustiva del Pil, integra e confronta fonti statistiche diverse oppure, in loro assenza, utilizza metodi indiretti di stima. Questo consente di discernere tra le prestazioni lavorative registrate e osservabili (cosiddette regolari), da quelle non direttamente osservabili in quanto svolte senza il rispetto della normativa in materia fiscale-contributiva (cosiddette non regolari). Si rammenta, infatti, che anche le attività “sommerse” sono comprese nei confini della produzione del sistema di contabilità nazionale. Ad esempio: attività illecite quali il traffico di sostanze stupefacenti, servizi della prostituzione e contrabbando (di sigarette o alcol) sono contabilizzate nel Pil in quanto concorrono alla formazione della produzione.
Disaggregando il dato complessivo appena fornito in attività regolari e non regolari, si perviene a questi grafici:

Qui si ha la vera sorpresa: mentre l’attività regolare (linea rossa) resta sostanzialmente inalterata dal 2013 in poi, il vero boom dell’occupazione è data dalle attività non regolari (linea nera). L’aumento dell’occupazione è dato integralmente dalle attività “sommerse”!
Siamo dunque giunti al termine di questo viaggio attraverso i meandri delle riforme strutturali in tema di mercato del lavoro, scoprendo che le virtù taumaturgiche narrate dai media nascondono in realtà un meccanismo di trasferimento del reddito dai ceti più poveri verso i più abbienti con conseguente incremento delle disparità sociali. Tale depauperamento della classe medio-bassa ha come contraltare un (modesto) incremento dei livelli occupazionali da attribuirsi, almeno nel caso italiano, alle attività “sommerse”. Non c’è quindi da stupirsi che i gruppi di potere ed i loro lacché le presentino quali metodologie imprescindibili, irrinunciabili ed irreversibili, una sorta di elisir di Dulcamara che tutto promette e nulla mantiene, ma è altrettanto palese che i “perdenti duraturi”, come li ha sprezzantemente apostrofati il bocconiano Tito Boeri, cioè i disoccupati, i sottoccupati, i sottopagati ecc., divenendo sempre più una massa in espansione, tenderanno a ribellarsi punendo con l’arma del voto gli artefici di questa loro infausta posizione. Chi distrugge il mondo del lavoro viene a sua volta spazzato via, gettato nella pattumiera della storia. Siete stati avvertiti.
di Claudio Barnabè


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