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UNA RIFLESSIONE SU L’AFFAIRE RENAULT E SULLA FLAT TAX ITALIANA di Rosalba Fragapane

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Quando nella notte fra il 5 e il 6 giugno scorso è giunto il comunicato inequivocabile di FCA che faceva saltare l’accordo con Groupe Renault a Boulogne Billancourt sicuramente non se lo aspettava nessuno. Ma non ha avuto nessuna esitazione il giovane John Elkann, di formazione economica britannica e di scuola aziendale al fianco di Sergio Marchionne, uno che dalla filosofia economica anglosassone ha sempre attinto a piene mani, a mettere la parola fine. Del resto fu proprio Marchionne a coniare la frase: “bisogna sedersi ai tavoli giusti e avere il coraggio di alzarsi al momento opportuno”? Un insegnamento che è stato ricordato.

Da quella notte sono passati ormai parecchi giorni e al di là dei fiumi di inchiostro consumati da giornalisti economici e non, qualche ulteriore riflessione va fatta. E già, perché in pochissimi hanno fatto notare il contenuto durissimo del comunicato di Renault dopo l’accaduto: un comunicato che a leggerlo attentamente trasuda in realtà tutto il fastidio, tutto lo sconcerto, tutto il dissenso non certo verso FCA ma contro la vera e propria intromissione dell’altro azionista di riferimento del gruppo, ovvero il governo francese. La Renault che fu nazionalizzata nel 1947 è sempre stata un’azienda di stato al 100% fino a quando negli anni Novanta ridusse la quota azionaria al 15,1 % e i dipendenti dal più di 300 mila sono stati “prosciugati” fino ai 48 mila di oggi. Ma in una nazione come la Francia quel 15 per cento ha un peso prevalente su tutto. Comunque sia di questa sceneggiatura bisogna capire i personaggi e il contesto della scena. Effettivamente Bruno La Maire, ministro dell’attuale governo Macron, è un signore che non ama l’Italia verso la quale ha un palese e istintiva diffidenza ma in compenso ama moltissimo la Germania per la quale invece nutre un innamoramento sfrenato dal punto di vista economico aziendale s’intende. In questo suo atteggiamento non è solo, molti prima di lui in Francia hanno avuto verso il Belpaese lo stesso identico sentimento. Ne volete qualche prova tangibile? Ebbene ogni volta che un gruppo italiano cerca di fare una joint-venture, un’acquisizione, o costituire fusioni con aziende dei “cugini francesi” queste operazioni finiscono la maggior parte delle volte in un fallimento. E questo in realtà succede da sempre, qui davvero non c’entra neppure “l’Europa,” anche se questa ha comunque acuito il fenomeno. Qualcuno ha richiamato la vicenda Enel del 2005, quando venne bloccata dallo Stato francese una pubblica acquisizione da parte della società italiana. Allora basta andare indietro nel tempo e ricordare quando, nel 1988, De Benedetti lanciò un’Opa su Societè de Belgique e i francesi pur essendo quella una società belga osteggiarono con ogni mezzo l’operazione e fecero saltare tutto, lanciando un’Opa a loro volta. Per il gruppo italiano non vi fu niente da fare. E ancora, qualcuno si ricorderà che negli anni ‘90 il nostro gruppo Generali offrì un accordo vantaggioso per acquisire Assurance General de France che versava in una condizione difficile, e anche questo trovò un’opposizione strenua e fortissima del governo francese di allora, ma dopo qualche tempo l’AGF venne ceduta ai tedeschi di Allianz. E sì perché questa diffidenza verso le acquisizioni da parte di aziende italiane non è solo solamente dei francesi: la stessa Fiat con Marchionne cercò anni fa una joint-venture con la tedesca Opel e non vi riuscì ma dopo qualche tempo la Opel venne venduta alla francese PSE. Sul fronte tedesco come non ricordare cosa accadde alla Pirelli nel 1991 che dopo ben 15 mesi di estenuanti trattative non riuscì alla fine ad acquisire la tedesca Continental che liquidò gli italiani con il seguente annuncio: “L’accordo non è nell’interesse degli azionisti, dei clienti e dei lavoratori”.

In questa ultima vicenda il continuo procrastinare e gettare sempre più in là l’asticella delle pretese da parte del ministro Le Maire qualche sospetto ce lo fa venire. La creazione di un grande polo automobilistico europeo, quale sarebbe FCA-Renault-Nissan, non farebbe probabilmente saltare di gioia la Volkswagen, attualmente unica competitor europea contro le altre case automobilistiche mondiali.

Veniamo ora alla Flat Tax. Il vice ministro Matteo Salvini ha dichiarato che la Flat Tax si farà e che vuole una rivoluzione in materia tributaria. Lo stesso Presidente del Consiglio Conte ha affermato a più riprese – “che lui stesso non solo pensa alla Flat tax ma ad una riforma radicale del sistema fiscale”. Nell’attesa di ulteriori sviluppi, noi ce lo auguriamo ma qualche riflessione ci verrà consentita, perché se le parole esprimono un concetto preciso, occorre a volte spiegare questo concetto. Intanto cosa è dunque questa Flat Tax qual è la sua origine e la sua applicazione? Per Flat Tax, che in italiano si traduce letteralmente tassa piatta o uniforme, si intende un sistema tributario che si basa su un’ unica aliquota fissa che trova la sua applicazione sia verso i redditi societari sia a quelli maturati in capo alle persone fisiche. La Flat Tax fu teorizzata per la prima volta dall’americano Alvin Rabushka nel 1985 che con Robert E. Hall pubblicò in Usa un libro dal titolo The Flat Tax (egli tra l’altro venne in Italia di persona ad un convegno organizzato dalla Lega già nel 2014) anche se è corretto ricordare che già un esempio di tassa forfettaria venne introdotta nel 1947 ad Hong Kong, allora colonia britannica, dove venne applicata un’aliquota unica al 16%. A fronte di un’aliquota più bassa e uguale per tutti si assisterebbe ad un aumento delle entrate fiscali, dovute all’emersione di redditi non dichiarati in un regime eccessivo e oneroso per i contribuenti.

Verosimilmente questa teoria tributaria è già stata applicata da molti governi ma di solito solo parzialmente. In primo luogo governi di stampo anglosassone ( da cui dovremmo prendere esempio) i quali si erano trovati ad affrontare, ad un certo momento della loro storia, una totale riforma del proprio sistema fiscale. Una cosa ulteriore va detta: il senso più alto dell’applicazione di questa teoria quindi non può e non deve essere una sua sterile introduzione in un sistema fiscale vecchio e farraginoso, ma deve far parte di una completa e semplificata tributaria. Così fu durante la Reaganomics, dove venne rielaborato tutto il sistema fiscale portando per esempio l’aliquota più alta dal 70% al 28% attivando parallelamente dei controlli stringenti e ancora sotto il governo Thatcher, nel periodo dal 1979 al 1984 venne promulgata una riforma con nuove aliquote che diedero una scossa positiva al sistema fiscale inglese portando per esempio dal 80% al 40% l’aliquota. Ebbene in entrambi i casi si assistette ad un incremento delle entrate fiscali e contemporaneamente ad una ben nota crescita economica che è negli annali di storia. In tempi più recenti molti paesi anche in Europa (es. Irlanda, Portogallo, Slovacchia ecc.) hanno riformulato il proprio sistema tributario e forse l’esempio dei paesi Baltici è quello che simboleggia al meglio una data applicazione della teoria della Flat Tax: dopo l’ uscita dal “giogo russo” la tassazione era intorno al 52 % e si basava su una complessa e vecchia serie norme che portò i governi locali a ridurre norme e aliquote fiscali provocando una solida entrata dei tributi e un rilancio notevole dell’economia, con un incremento del Pil di una certa portata. Ma in tutti questi esempi virtuosi, possiamo dire con certezza che detta teoria non può trovare un’applicazione pura al 100%, cosa impossibile. Ogni stato partendo dal concetto primario ha usato detta teoria adeguandola alle proprie esigenze. E lo hanno fatto con molto anticipo già 10, 15 anni fa. Paradossalmente è proprio a causa della Globalizzazione che l’applicazione di una uniformità tributaria trova la sua forma più virtuosa.

Così il grande economista torinese Sergio Ricossa (1927-2016) liberista per eccellenza e appartenente alla Scuola Austriaca di von Hayek e von Mises fu sempre favorevole ad un fisco meno opprimente poiché secondo lui “è proprio la tipizzazione del mercato globale di oggi a favorire una tassa unica per società e imprese” in base all’assioma economico “Unico mercato, Unica aliquota”. Purtroppo non fu molto ascoltato dai governi passati, sempre poco lungimiranti.

Da noi i cittadini reclamano da sempre un abbassamento fiscale, da noi vige un sistema tributario vecchio, impossibile anche per gli addetti ai lavori e una tassazione che secondo i dati recentissimi dell’Ocse è superiore al 43%, e secondo l’Istat che si è pronunciato al riguardo di recente sarebbe intorno al 38%. A fronte di queste cifre però va aggiunto il cosiddetto “nero”, un’ elevata evasione fiscale che viene calcolata anch’essa come parte del Pil (poiché quelli che pagano le tasse alla fonte o quelli che lo fanno perché sono onesti, le pagano anche per chi non lo fa affatto) e ciò porta ad un livello di tassazione da brividi, insopportabile, in dati realistici oltre il 48% (CGA).

Qualche indiscrezione sugli obbiettivi del governo da più parti è apparsa sulla stampa, si legge e si sente parlare di abbassamento delle aliquote a chi ha redditi fino a 50 mila euro, altri parlano di 80 mila euro, poi si è parlato di quoziente familiare, di una flat tax a scaglioni …

Sommessamente diciamo che non si potrebbe fare errore peggiore. Perché è il punto di partenza che è sbagliato. Per portare il paese fuori dalla stagnazione occorre una rivoluzione tributaria che si parta da tutt’altro altro punto di vista proprio come hanno fatto i paesi anglosassoni. Cosa vogliamo dire? Vogliamo dire che invece di partire dalle fasce di reddito mettendo dentro tutti e tutto, occorre invece partire da un altro presupposto ovvero è necessario prima di tutto bisogna fare una distinzione fra il tipo di lavoratore.

Dunque i lavoratori sono essenzialmente di 2 categorie: la prima categoria è formata da quelli che lavorano in proprio assumendosi il cosiddetto rischio d’impresa cioè se sei capace fatturi molto e se non lo sei chiudi i battenti, questa prima categoria comprende tutte le società, tutte le ditte piccole o grandi, artigiani, lavoratori autonomi. La seconda categoria è composta da tutti gli altri, ovvero i lavoratori dipendenti che hanno uno stipendio garantito con busta paga, con accumulo pensionistico certo e alla fonte, con tutta una serie di benefici e garanzie già comunque previsti. E’ quindi essenziale prima di tutto operare questa distinzione. A questo punto, data questa premessa fondamentale, la pura Flat Tax dovrebbe essere applicata con aliquota unica e fissa per esempio al 15% ( ma anche al 18, al 19…) indistintamente ai primi ovvero a tutti quelli che fanno impresa ovvero rischiano in proprio. Oppure meglio ancora per questa categoria una DUAL TAX con due sole aliquote. Invece a tutti gli altri lavoratori, cioè a chi non subisce il rischio d’impresa e a tutte le persone fisiche devono essere applicate più aliquote progressive rimodulate a seconda dell’ammontare del proprio reddito da lavoro dipendente e da pensione. Oggi le aliquote sono 5, invece dovrebbero essere aumentate, arrivando a 8 o anche a 10, diversificando e rimodulando verso il basso con un TAGLIO GRADUALE. Ci sono paesi europei che ne hanno più di 10, come la Svizzera, come il Lussemburgo ecc. In questo modo si garantirebbe anche il rispetto della progressività enunciato del art.53 della Costituzione che vuole che “tutti debbano concorrere alla spesa pubblica in ragione della loro capacità contributiva”.

Solo partendo da questo presupposto si potrebbe arrivare ad un rilancio dell’economia interna e favorire gli investitori esteri, semplificando le dichiarazioni dei redditi ed eliminando un altro paradosso: in Italia accade infatti che le Spa (quindi grandi industrie e multinazionali) paghino l’ Ires al 24%, (quindi per loro una flat tax in pratica già esiste!) mentre per tutti gli altri ditte, artigiani, professionisti e in genere tutti i lavoratori in proprio paghino un’ Irpef che arriva al 43%. Una vera assurdità.

Quest’anno il governo gialloverde ha introdotto una flat tax solo per le partite iva che hanno un ricavo al di sotto dei 65 mila euro, il provvedimento entrato in vigore il 1 gennaio 2019 dovrà essere valutato e analizzato a posteriori per capire se realmente avrà dato un risultato positivo e se si farà una totale riforma tributaria dovrà venire assorbito. Questa misura è stata utile a dare fiato ai piccoli e piccolissimi “imprenditori” anche per la semplificazione nella dichiarazione dei redditi che ne sta derivando, però potrebbe avere lo svantaggio di favorire quel “nanismo d’impresa” che non porta certo sviluppo e inoltre potrebbe provocare un’ evasione di coloro i quali non dichiarano tutto il dovuto pur di restare entro i 65 mila euro pur di pagare solo 9750 euro di aliquota forfettaria, perché superata questa soglia anche di 1 euro scatterebbe quella superiore di 21,320 euro!

Da sempre in questa nazione si fa il contrario di quello che servirebbe e questo non solo crea evasione ma blocca la spinta produttiva e la fuga di aziende all’estero. Non c’è più tempo da perdere.

Detto questo ancora una considerazione: gli esempi di una applicazione rimodulata della tassa unica o piatta nel mondo sono diversi, ogni stato sovrano ha usato la teoria nel modo che riteneva più adeguato, l’ha applicata solo però solo a certe categorie di lavoratori, ma una cosa è certa: tutti lo hanno fatto proprio quando l’economia era bloccata dalla crisi, la situazione dei conti era precaria, la condizione del paese drammatica. Questi paesi hanno avuto il coraggio di osare. Chi afferma quindi che un paese “disastrato” non può affatto pensare di abbassare le tasse sbaglia. Perché è proprio così che si può ripartire.


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