Attualità
UNA FEROCE TIGRE DI CARTA
Domenico Quirico è un giornalista da prendere sul serio, non soltanto per la sua bravura e la sua competenza, ma anche perché, prima di scrivere sul Vicino Oriente, c’è andato di persona ed è stato tenuto prigioniero dai fanatici musulmani per molti mesi. Cionondimeno, come si diceva ai tempi della Scolastica, “Amicus Plato, magis amica veritas”: malgrado tutta la stima che si può avere per lui, se il quadro che ci presenta appare discutibile, non possiamo dichiararci d’accordo.
In un lungo articolo sulla Stampa(1) Quirico sostiene che è cominciata “la guerra di quarta generazione”, che “capovolge i nostri luoghi comuni strategici”. “Ora sono loro [quelli dello Stato Islamico] a imporre lo scontro nei termini tradizionali, l’avanzata, l’invasione, l’occupazione di città, presidiarle e difenderle”. Alla “guerra delle cantine e delle finestre” si è sostituito “un esercito”. “Il Debole ha sostituito [alla guerriglia, al terrorismo] il linguaggio delle offensive, degli attacchi frontali”. “Che strategia opponiamo noi, Occidente, il Forte?” “Ci è rimasta la guerra asimmetrica, sì, quella delle guerriglie”; “i raid di piccole unità;” “i bombardamenti aerei e i droni: il terrorismo dei ricchi. Il Forte e il Debole si sono scambiati i ruoli”. “I jihadisti di Abu Bakr non praticano più la guerriglia globale, sono diventati soldati, invadono il mondo. Ci hanno rubato la guerra” e “l’Occidente non sa più combattere”, “è debole e vile, preda di sibili di dubbio, ondate segrete di sfiducia, malinconiche stanchezze”.
Lo stile è vivido e fiammeggiante, il contenuto è discutibile. Quirico sostiene che le potenze occidentali sono perdenti perché non si possono permettere di veder tornare indietro molte bare coperte dalla bandiera. Siamo sconfitti perché “Un esercito di combattenti che vogliono morire, i jihadisti, è molto più forte di una armata di professionisti ben addestrati, ma che vogliono vivere e tornare a casa”. “Il califfato… sta dimostrando che la potenza occidentale può girare a vuoto”. Tutto ciò suona apocalittico e disfattista, e ci si può chiedere in quale misura corrisponda alla realtà.
Il giornalista parla di un esercito dello Stato Islamico ma, a giudicare da ciò che si vede, si tratta soprattutto d’una moltitudine di fanatici, senza aviazione e senza reparti corazzati, che imbracciano armi leggere e all’occasione tagliano gole. Dunque, altro che guerra di quarta generazione, forse è una guerra medievale.
Quirico, in così tante righe, non fa un’ipotesi assolutamente elementare, e cioè che all’Occidente non importi molto di chi comanda a Mosul. L’Iraq ha avuto l’occasione d’essere indipendente e democratico, e l’ha sprecata. L’Occidente non è disposto a difendere Bashar el Assad pagando un prezzo di sangue. Il Paese che più ha la necessità di contenere la nascita di una potenza sunnita è l’Iran shiita e chi ha più interesse a contrastare l’imperialismo religioso di al Baghdadi non è Washington, è Riyad.
Il problema dello Stato Islamico riguarda soprattutto i Paesi musulmani. Il califfato infatti tende per definizione al dominio di tutti i Paesi islamici. Dunque sono questi Paesi che si devono attivare per primi, anche se tutti sperano che sia Washington a cavare la castagne dal fuoco per loro. Dimenticano che un grande campione non accetta di salire sul ring se la borsa non è consistente. E se rifiuta di battersi contro un dilettante, non significa che ne abbia paura.
Gli Stati Uniti forse hanno mandato l’aviazione e i droni per far contenta l’opinione pubblica americana, indignata per le efferatezze di quei selvaggi, ma non sono disposti a rischiare nulla.
Discutibile è anche il fatto che Quirico parli del “califfato” come di una realtà. Il califfo sarebbe tale se imperasse da Istanbul a Kabul e Khartum. Ed è lungi dall’essere così.
Quanto al coraggio dei combattenti musulmani che “non temono la morte”, Quirico si fa delle illusioni. È una tecnica non solo arcaica, ma poco efficace. I galli si lanciavano coraggiosamente contro i romani, ma i romani erano bene organizzati e li massacravano. Neanche gli indiani dell’America del Nord temevano la morte, ma non per questo hanno battuto gli uomini in blu. Durante la Prima Guerra Mondiale, per una balorda tattica di guerra, centinaia di migliaia di uomini furono mandati a morire falciati dalle mitragliatrici, senza che il loro sacrificio servisse a niente. Infine, se i nobilissimi kamikaze entrarono nell’Olimpo della gloria, la guerra la vinsero lo stesso gli americani. Proprio quelli che, secondo Quirico, in guerra sperano di non morire e di tornarsene a casa.
Tutto l’articolo è fondato su un presupposto discutibile, che dalla riluttanza alla guerra si possa dedurre l’incapacità di combatterla. È vero che l’Europa rifiuta assolutamente l’idea di battersi sul serio, infliggendo la morte e rischiando di subirla, ma da un lato non siamo seriamente interessati alle sorti di Iraq, Siria e Stato Islamico, dall’altro non si può dimenticare che l’Inghilterra imbelle degli Anni Trenta divenne nel giro di pochi anni il leone che salvò l’Europa da Hitler.
È vero, abbiamo paura, ma non siamo ancora stati feriti. Siamo un popolo emotivo e potremmo passare da un atteggiamento quasi vile a una incontenibile sete di sangue e massacro. Speriamo soltanto che la storia non si incarichi di dimostrare a Quirico quanto vera sia questa affermazione.
Gianni Pardo, [email protected]
14 giugno 2015
(1)http://www3.lastampa.it/fileadmin/mobile/editoriali.php?articolo=1
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