Attualità
Trieste 1954: Un esempio di sovranità (di Marco Fabbri)
Mattina piovosa quella del 26 ottobre 1954 a Trieste quando entrano i soldati italiani dell’82º
Reggimento Fanteria “Torino” e della 132ª Brigata corazzata “Ariete”, supportati da una colonna di
carabinieri, entrano a Trieste. Poco dopo attraccano all’omonimo porto l’incrociatore “Duca degli
Abruzzi” scortato da tre cacciatorpedinieri, i cieli solcati dagli F-84 dell’aerobrigata di Treviso.
Dopo nove anni di occupazione anglo-americana, quarantadue giorni di occupazione jugoslava e
due anni di annessione tedesca, Trieste torna ad essere italiana.
Ma i problemi non erano finiti con la folla festante che sale gioiosa sul cacciatorpediniere “Grecale”
assistendo in Piazza dell’Unità all’innalzamento del tricolore. Questi nove anni di
commissariamento anglo-americano avevano lasciato il segno.
Dal punto di vista morale e territoriale, la provincia di Trieste; si troverà ridotta ad un terzo della
sua grandezza (causa Memorandum di Londra). Dal punto di vista politico deve sottostare al tiro
incrociato degli “indipendentisti” del Fronte per l’indipendenza del libero stato giuliano e del
Blocco Triestino che volevano il Territorio Libero di Trieste (TLT) stato indipendente .
Ma è dal punto di vista economico che l’occupazione anglo-americana lascerà il segno più
profondo.
Duranti i nove anni di esistenza del TLT, la Zona A (corrispondente all’attuale provincia di Trieste)
rimase scollegata dal resto d’Italia e quindi dalla sua ricostruzione. Il governo anglo-americano, la
mancanza di ufficializzazione dell’esistenza del TLT stesso da parte dell’ONU e il carattere
provvisorio dell’amministrazione, impedirono una ricostruzione efficiente della provincia come
avveniva nel resto d’Italia. Tutti i settori erano in crisi, in particolar modo quello terziario. Infatti
alla partenza del Governo Militare Alleato, i dipendenti pubblici che lavoravano per esso si
ritrovarono senza lavoro, ciò corrispondeva al 10% della popolazione triestina. La partenza delle
truppe anglo-americane costituì la perdita di 25 mln di Lire al giorno.
Ma per fortuna quell’Italia non era quella di adesso, l’Italia di allora se aveva bisogno dei soldi se li
stampava da sola, non doveva andare ad elemosinare gli spiccioli a Bruxelles. Se vi erano da fare
delle spese pubbliche non doveva chiamare Berlino e chiedere il permesso. L’Italia del 1954 senza
roboanti proclami, senza propaganda “tutto fumo e niente arrosto” in perfetto stile renziano, chinò
il capo e si mise a lavorare.
Per prima cosa lo Stato partecipò direttamente nell’amministrazione dell’ex Zona A. Nel 1954 la
provincia fu affidata ad un Commissario Generale del governo con poteri superiori a quelli di un
prefetto, l’ordinamento provinciale ordinario sarà ripristinato nel 1956. Evitando di lanciarsi in
avventure economiche con privati, lo Stato intervenne direttamente nell’economia.
Per prima cosa fu sistemata la linea ferroviaria Udine-Tarvisio, raddoppiandola e garantendo la
massima efficienza nel circolo delle persone e delle merci. La politica protezionistica con l’Austria
fu mantenuta, rifiutando perentoriamente la richiesta della grande industria di creare una zona
franca lungo il confine della regione friulana e lo stato austriaco.
Lo Stato, nel 1955, intervenne anche massicciamente nel settore che faceva di Trieste il fiore
all’occhiello, ovvero quello portuale-cantieristico concretizzando il progetto del “porto industriale”,
idealizzato poco prima dello scoppio della guerra; il porto fu notevolmente ampliato garantendo
l’assorbimento della manodopera locale disoccupata, il progetto godeva di notevoli esenzioni fiscali
e doganali, onde evitare la spietata concorrenza del vicino scalo portuale di Fiume, passata nel 1947
alla Jugoslavia.
Sempre nello stesso anno fu creato: il “conto autonomo” per compensazioni tra le diverse aree, un
“fondo di rotazione”, ovvero un fondo agevolato per le imprese di Trieste e Gorizia dove finirono
gli ultimi residui dell’ERP (ovvero il Piano Marshall). Ed inoltre per far uscire dall’isolamento
economico e geografico (causa mutilazioni territoriali) fu tenuta nella città una grande conferenza
consultiva per lo sviluppo del traffico portuale. Tre anni più tardi il parlamento nazionale approvò la
legge dei “45 miliardi”, che ammodernò le infrastrutture della provincia.
Superati questi problemi, il governo italiano, nel 1963 poté applicare lo statuto speciale alla regione,
previsto dalla Costituzione.
Ma i problemi per la “città senza pace” non finirono, verso la fine degli anni ’60, ci furono due
fattori che metterono in crisi la ripresa di Trieste: la continua concorrenza di Fiume e l’ingerenza del
MEC (Mercato Europeo Comune), ovvero una delle spore dalla quale genererà l’Unione Europea, si
rivelò la più dannosa, poiché i piani alti della futura UE avevano già scritto il destino della città,
ovvero metterla in secondo piano. I seguaci di Ventotene volevano che si investisse sul porto di
Amburgo, dove, anche se era in Germania, ci “avremmo guadagnato tutti”, nell’ottica della
formazione del super stato europeo. Già con i trattati di Roma del 1957 i capoccioni europei
avevano escluso Trieste dalle principali correnti di traffico.
Nonostante la crescente “integrazione europea” il governo italiano si dimostrò più keynesiano che
mai, iniziando una politica di investimenti statali nel capoluogo Friulano. La regia di questa grande
ondata di investimenti statali sarà affidata all’IRI che nel 1964 varò il “piano CIPE” (Comitato
Interministeriale per la Programmazione Economica) che attuò lo smantellamento del cantiere di
San Marco e della Fabbrica Macchine e sostituendola con la Fabbrica Grandi Motori. Inoltre fu
finanziata la costruzione del terminale per l’oleodotto della Baviera.
Grande fu l’intervento dello Stato in ambito culturale e scolastico, ampliando e rendendo
all’avanguardia l’Università triestina, soprattutto nel settore scientifico.
Alla fine di questo decennio, si può riassumere che Trieste, dopo nove anni di limbo è riuscita a
riprendersi grazie a: intervento statale diretto nell’economia locale, politica protezionistica e
dirigismo; dove la ripresa è stata lenta lo dobbiamo all’ingerenza della CECA, che già aveva in seno
il germe del pan-europeismo.
La domanda che vi pongo è: se il caso di Trieste fosse successo oggi, come avrebbe reagito il nostro
governo? Dove avrebbe trovato i soldi necessari a trovare le politiche di investimento statale? I
piani alti di Strasburgo glielo avrebbero fatto fare in santa pace? E soprattutto quanto sarebbe stata
l’ingerenza di capitale straniero in questa faccenda?
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