Purtroppo un rinvio dell’udienza impedirà domani lo svolgimento della discussione conclusiva nel processo pendente davanti al Tribunale di Genova che, nelle nostre intenzioni, dovrebbe consentire di ottenere che le leggi di ratifica dei Trattati Europei e la modifica costituzionale del 2012, con il quale si è introdotto il pareggio in bilancio in Costituzione, vengano rimessi alla Corte Costituzionale per valutarne la legittimità.
In sostanza, se il Tribunale dovesse accogliere le nostre richieste, la Corte Costituzionale sarà chiamata a decidere circa la permanenza dell’Italia nell’euro e nella stessa UE. Inoltre la Corte dovrà decidere se il pareggio in bilancio sia lecito oppure rappresenti, come sosteniamo, un suicidio della democrazia.
La discussione è rinviata all’udienza del 16 settembre 2015. Ancora due mesi e sapremo se c’è la concreta speranza di arrivare al riscatto della nostra sovranità in tempi rapidi dando un sonoro calcio nel sedere alla dittatura europea che ha distrutto l’economia del continente e portato tanta gente alla disperazione.
Nell’occasione si trascrivono nuovamente le difese in atti al fine che tutti possiate prendere visioni delle argomentazioni su cui questo processo si basa.
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Premesse di merito all’eccezione d’incostituzionalità che si presenta in riferimento alle leggi di ratifica dei Tratatti UE.
Partiamo da alcune considerazioni di carattere generale.
Identifichiamo quali sono gli elementi essenziali di uno Stato.
Lo Stato si contraddistingue per il popolo, il territorio ed il potere d’imperio ovvero la sovranità.
Senza uno di questi elementi, sovranità compresa, non si può affatto parlare di Stato.
La Repubblica Italiana nasce nel 1946 ed il 1 gennaio 1948, dopo un intenso dibattito, viene approvata la Costituzione. Posto che la Repubblica è qualificata come “democratica”, l’art. 1 Cost. si preoccupa immediatamente di evidenziare l’appartenenza della sovranità che diviene indissolubilmente collegata al popolo ed al territorio.
L’Art. 1 Cost. infatti recita: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sula lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
Le forme sono ovvie. La sovranità si esercita proprio attraverso quel diritto di voto che ci è stato strappato e mai più restituito (come evidenzia l’approvazione del cd. italicum) a seguito dell’approvazione del “porcellum”, già dichiarato incostituzionale con la nota sentenza n. 1/2014.
Ovviamente sarebbe comunque inutile ripristinare il diritto di voto se lo stesso non consentisse l’esercizio pieno della sovranità poiché la sovranità, appartenente alla popolazione che occupa il territorio italiano, è stata previamente ceduta. Ma ci arriveremo a breve.
Interessa approfondire in questa sede il concetto di “limiti” alla sovranità e successivamente quello dei cd. “controlimiti” all’ingresso delle norme internazionali nell’ordinamento precisati anche nella recentissima sentenza n. 248/14 della Corte Costituzionale (Doc. 5).
Le norme che assumono rilievo sono l’art. 10 e l’art. 11 Cost. L’art. 10 dispone una particolare forma di limitazione della sovranità, ovvero che l’Italia si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute.
L’art. 11 tuttavia precisa e fissa, con estrema chiarezza a quali condizioni sia possibile “limitare” la sovranità nazionale (ovvero limitare la sovranità popolare).
Appare assolutamente intuitivo, proprio perché senza sovranità lo Stato non esisterebbe, che i limiti della Costituzione in materia di compressione del potere d’imperio dello Stato sono estremamente stringenti (il legislatore si è addirittura occupato di sanzionare penalmente la lesione del potere d’imperio dello Stato, si parla all’uopo di delitti contro la personalità giuridica internazionale dello Stato).
L’art. 11 Cost. recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni, promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
La sovranità dunque non può essere ceduta ma solo limitata ed anche le mere limitazioni hanno, ci sarà perdonato il gioco di parole, ulteriori “limiti”.
Questo sarà il primo tema su cui dovrà essere investita la Consulta. In claris non fit interpretatio.
Fermo il divieto assoluto di cessioni, la limitazione della sovranità può avvenire unicamente in condizioni di reciprocità ed al fine esclusivo (ogni altra soluzione è stata espressamente bocciata in seno all’Assemblea Costituente) di promuovere un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni.
A tali vincoli si aggiungono poi i cosiddetti “controlimiti” all’ingresso delle norme internazionali ormai consolidati nella giurisprudenza della Corte e ribaditi da ultimo nella già citata pronunzia n. 238/14 che è arrivata davvero nel momento più opportuno, allorquando grazie alla pendente causa le leggi di ratifica dei Trattati UE sono davvero vicini ad essere poste al vaglio di legittimità della Consulta.
In sostanza l’Ill.mo Giudicante ha, in questo momento, il futuro del Paese in mano, davvero un pesante fardello.
Ai fini dell’eccezione d’incostituzionalità che si va a sviluppare non si procederà all’analisi approfondita delle condizioni di reciprocità delle limitazioni di sovranità ne a quelle relative al vincolo di scopo delle stesse.
Entrambe non sono rispettate nell’adesione dell’Italia ai Trattati UE (un Trattato commerciale non ha infatti nulla a che vedere con la pace ed un’unione economica e monetaria, se priva di unità fiscale, non avviene certo in condizioni di reciprocità). Peraltro, come risulta chiaramente dai lavori preparatori dell’Assemblea Costituente le limitazioni di sovranità erano concepite unicamente ad operazioni di carattere militare in un contesto ove l’Italia, da poco uscita dalla seconda guerra mondiale, rinunciava formalmente all’uso della forza bellica e desiderava inserirsi in una nuova logica di risoluzione delle controversie, quella dell’ONU.
In questa sede comunque il problema più importante che si affronta è a monte e riguarda la distinzione stessa tra limitazione e cessione di sovranità ed il concetto dei “controlimiti” all’ingresso delle norme internazionali nell’ordinamento.
Veniamo alla fondamentale differenza tra limitazione di sovranità e cessioni di sovranità.
Limitare significa circoscrivere un potere entro certi limiti, ovvero omettere di esercitare il proprio potere d’imperio (che pure deve rimanere intatto) in una determinata materia, oppure di esercitarlo all’interno di certi limiti generalmente riconosciuti dal diritto internazionale ai fini di pace tra le Nazioni (dunque solo in ambito bellico). Purché ovviamente tale contenimento nell’esercizio del proprio potere (che tuttavia, non va dimenticato secondo la nostra impostazione democratica, appartiene al popolo, ovvero al soggetto rappresentato) sia in ogni caso rispettoso degli ulteriori cd. “controlimiti” costituzionali.
Al contrario la cessione di sovranità invece comporta la consegna ad un terzo di un potere d’imperio proprio di uno Stato che così per definizione perde anche la propria indipendenza.
Analizziamo ora il diverso concetto di controlimiti e per farlo è sufficiente trascrivere le motivazioni della sentenza n. 238/14 della Corte Cost. che comunque si produce integralmente.
La Corte ha elegantemente affermato:“Non v’è dubbio, infatti, ed è stato confermato a più riprese da questa Corte, che i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscano un «limite all’ingresso[…] delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, primo comma della Costituzione”(sentenze n. 48 del 1979 e n. 73 del 2001) ed operino quali “controlimiti” all’ingresso delle norme dell’Unione europea (ex plurimis: sentenze n. 183 del 1973, n.170 del 1984, n. 232 del 1989, n. 168 del 1991, n. 284 del 2007), oltre che come limiti all’ingresso delle norme di esecuzione dei Patti Lateranensi e del Concordato (sentenze n. 18 del 1982, n. 32, n. 31 e n. 30 del 1971). Essi rappresentano, in altri termini, gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale, per ciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale (artt. 138 e 139 Cost.: così nella sentenza n. 1146 del 1988)”.
Ed ancora: “Anche in una prospettiva di realizzazione dell’obiettivo del mantenimento di buoni rapporti internazionali, ispirati ai principi di pace e giustizia, in vista dei quali l’Italia consente a limitazioni di sovranità (art. 11 Cost.), il limite che segna l’apertura dell’ordinamento italiano all’ordinamento internazionale e sovranazionale (artt. 10 ed 11 Cost.) è costituito, come questa Corte ha ripetutamente affermato (con riguardo all’art. 11 Cost.: sentenze n. 284 del 2007, n. 168 del 1991, n. 232 del 1989, n. 170 del 1984, n. 183 del 1973; con riguardo all’art. 10, primo comma, Cost.: sentenze n. 73 del 2001, n. 15 del 1996 e n. 48 del 1979; anche sentenza n. 349 del 2007), dal rispetto dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili dell’uomo, elementi identificativi dell’ordinamento costituzionale”.
La sentenza è chiara, non necessita di commenti.
La superiorità della Costituzione sui Trattati UE è acclarata con la precisazione che tale superiorità debba intendersi in riferimento ai principi fondamentali, ovvero gli articoli da 1 a 12 della Carta, dunque ivi compreso il divieto alle cessioni di sovranità, che in merito ai diritti inviolabili dell’uomo ovvero i diritti e doveri dei cittadini (artt. 13-28 la sentenza in parola infatti ha dichiarato illegittima un norma internazionale per violazione dell’art. 24 Cost.), i rapporti etico-sociali (artt. 29-34) ed i rapporti economici, ovvero quelle norme che rendono effettiva la fondazione della Repubblica sul lavoro (art. 35-54) e forse ci si potrebbe spingere oltre, ma tanto basta per affondare per sempre questa UE ripristinando la democrazia costituzionale calpestata da oltre vent’anni
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Ragioni giuridiche dell’illegittimità dei Trattati di Maastricht e Lisbona.
Veniamo al dunque.
In riferimento ai Trattati in oggetto le leggi che si assumono incostituzionali, in quanto assunte in violazione del divieto di cessione di sovranità nazionale e dei controlimiti all’ingresso dei Trattati UE nell’ordinamento sono le seguenti:
–Legge n. 454/1992 di ratifica del Trattato di Maastricht e Legge n. 130/2008 di ratifica del Trattato di Lisbona .
Il Trattato di Maastricht, come quello di Lisbona ed il più recente Trattato cd. Fiscal Compact sono per definizione cessioni di sovranità nazionale. La stessa UE lo conferma senza mezzi termini (Doc. 6).
I Trattati di Lisbona e Maastricht vengono esaminati congiuntamente perché le cessioni di sovranità sono comuni ad entrambi. In riferimento alla presente causa è cambiata unicamente la numerazione. Devono essere portate entrambe le leggi di ratifica davanti alla Consulta poiché altrimenti, eliminato quello di Lisbona, rimarrebbe comunque il Trattato di Maastricht.
Maastricht e Lisbona hanno previsto in particolare la completa cessione della sovranità monetaria ed economica degli Stati aderenti peraltro ponendo al centro obiettivi ben diversi da quelli propri del nostro ordinamento e dunque confliggenti anche con i cd. “controlimiti” all’ingresso delle norme internazionali per le ragioni di cui infra.
Tuttavia il fatto stesso che i Trattati siano cessioni di sovranità è di per se sufficiente a cancellarli dal nostro ordinamento senza approfondire oltre, cosa che comunque faremo.
In primis è sufficiente l’art. 3 TFUE che certifica le materie in cui la sovranità è stata illecitamente stata ceduta: “L’unione ha competenza esclusiva nei seguenti settori: a) unione doganale; b) definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno; c) politica monetaria per gli Stati membri di cui la moneta è l’euro; d) conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca; e) politica commerciale comune.
L’unione ha inoltre competenza esclusiva per le conclusioni di accordi internazionali (omissi…)”. Alla moneta ed all’economia si affianca anche l’illecita cessione di sovranità in materia di politica estera.
La competenza “esclusiva” in capo all’UE rende pacifico che si sia ben oltre la mera limitazione di sovranità e dunque la violazione degli artt. 1, 10 ed 11 Cost. è manifesta.
In merito specificatamente alla cessione di sovranità monetaria l’eloquenza delle norme è tale da rendere incredibile che la prima causa per uscire da questa autolesionistica follia sia promossa solo a distanza di così tanti anni (per quanto ormai il pensiero è largamente diffuso anche tra giuristi di chiara ed acclarata fama, si pensi ad esempio al libro del Presidente della V Sez. del Consiglio di Stato – Luciano Barra Caracciolo, intitolato Euro e(o?) democrazia costituzionale).
Ma torniamo alle norme.
L’articolo 127 (versione consolidata TFUE – ex articolo 105 del TCE) dispone: “(omissis…) 2. I compiti fondamentali da assolvere tramite il SEBC sono i seguenti: (omissis…)−definire e attuare la politica monetaria dell’Unione, (omissis…).
La politica monetaria è dunque ad esclusivo appannaggio del sistema europeo delle banche centrali, appunto il SEBC. Trattasi di una sovranità ceduta a terzi.
L’articolo 128 (versione consolidata TFUE – ex articolo 106 del TCE) chiarisce che: “La Banca centrale europea ha il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione di banconote in euro all’interno dell’Unione. La Banca centrale europea e le banche centrali nazionali possono emettere banconote. Le banconote emesse dalla Banca centrale europea e dalle banche centrali nazionali costituiscono le uniche banconote aventi corso legale nell’Unione”.
L’Italia non ha più una politica monetaria, è un potere d’imperio che non gli appartiene più e che conseguentemente è stato sottratto alla sovranità popolare e ceduto ad un ordinamento esterno.
Con tale norma, peraltro, si viola palesemente anche uno dei cd. “controlimiti” all’ingresso di norme internazionali nell’ordinamento.
Ai sensi dell’art. 47 Cost. la Repubblica deve disciplinare, coordinare e controllare il credito. Ergo alla Repubblica deve appartenere la sovranità monetaria e, per dirlo ancora più chiaramente, la proprietà della moneta deve appartenere indefettibilmente al popolo. Dunque la violazione dell’art. 47 è altrettanto certa.
L’articolo 130 TFUE, ex articolo 108 del TCE, in insanabile contrasto con il citato art. 47 Cost., conferisce assoluta indipendenza alla banca centrale: “Nell’esercizio dei poteri e nell’assolvimento dei compiti e dei doveri loro attribuiti dai trattati e dallo statuto del SEBC e della BCE, né la Banca centrale europea né una banca centrale nazionale né un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione, dai governi degli Stati membri né da qualsiasi altro organismo. Le istituzioni, gli organi e gli organismi dell’Unione nonché i governi degli Stati membri si impegnano a rispettare questo principio e a non cercare di influenzare i membri degli organi decisionali della Banca centrale europea o delle banche centrali nazionali nell’assolvimento dei loro compiti”.
Si è così codificata la dottrina dell’indipendenza della Banca Centrale.
Anche la citata indipendenza, oltre a certificare una cessione di sovranità illecita, è priva di legittimità giuridica anche in riferimento al controlimite di cui all’art. 47 Cost. e ciò perché, come già detto, tale norma prevede che la Repubblica debba disciplinare, coordinare e controllare il credito.
Oggi è vero il contrario.
La sovranità è Stata ceduta e BCE, conferendogli addirittura assoluta indipendenza dagli Stati e dunque ponendola fuori dal controllo della sovranità popolare, fuori dalla democrazia.
BCE oggi disciplina, coordina e controlla le politiche economiche del Paese. Abbiamo anche avuto prova di questo, ad esempio con la nota lettera con cui nel 2011 la banca centrale dettò le riforme da farsi in campo economico (pare inutile produrre alcunché sul tema visto che il fatto è noto). Ancora ad agosto 2014 Mario Draghi, governatore di BCE, invocò cessioni di sovranità ulteriori.
E’ appena il caso di sottolineare che la Banca Centrale Europea non può neppure prestare agli Stati la moneta che crea dal nulla e senza alcun limite quantitativo in quanto l’art. Articolo 123 versione consolidata TFUE, ex articolo 101 del TCE addirittura dispone: “Sono vietati la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia, da parte della Banca centrale europea o da parte delle banche centrali degli Stati membri (in appresso denominate “banche centrali nazionali”), a istituzioni, organi od organismi dell’Unione, alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri, così come l’acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della Banca centrale europea o delle banche centrali nazionali”.
Tanto basta per mandare in soffitta per sempre i Trattati Europei. Non esiste alcuna argomentazione logico-giuridica in grado di confutare questa tesi.
Oltre i limiti fin qui descritti si compie infatti un atto formalmente eversivo contro la Repubblica, atti oggettivamente ostili (Si vedano in particolare gli artt. 241, 243 e 264 c.p.).
Per mero tuziorismo difensivo ricordiamo ancora quali sono gli obiettivi di politica monetaria che deve perseguire BCE per evidenziare anche la loro intrinseca incompatibilità con i controlimiti costituzionali.
Ci soccorre ancora l’articolo 127 (ex articolo 105 del TCE) che dispone: “1. L’obiettivo principale del Sistema europeo di banche centrali, in appresso denominato «SEBC», è il mantenimento della stabilità dei prezzi. Fatto salvo l’obiettivo della stabilità dei prezzi, il SEBC sostiene le politiche economiche generali nell’Unione al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell’Unione definiti nell’articolo 3 del trattato sull’Unione europea. Il SEBC agisce in conformità del principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza, favorendo una efficace allocazione delle risorse e rispettando i principi di cui all’articolo 119”.
L’obiettivo della Repubblica Italiana invece è ben diverso: il lavoro, la piena occupazione. Il SEBC invece ha come primo obiettivo la stabilità dei prezzi e solo al secondo posto l’economia reale e la conseguente tutela del lavoro.
Senza entrare in dietrologie sulla ragione di tale scelta (deliberata volontà di subordinare popoli e democrazie alla finanza) è palese che anche tale norma sbatta frontalmente sui controlimiti costituzionali che pongono il lavoro su un ruolo sovraordinato al mantenimento di una bassa inflazione.
Essendo peraltro noto in macroeconomia che un calo dell’inflazione comporta un aumento della disoccupazione e vice versa (curva di Phillips).
Peraltro il modello economico costituzionale riconosce il libero mercato ma non si basa sulla libera concorrenza, ne vieta l’intervento della mano pubblica come fanno i Trattati.
L’art. 41 Cost. afferma che l’iniziativa economica è libera ma che “non può porsi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana”.
L’art. 42 Cost. pur affermando e riconoscendo la proprietà privata prevede che essa sia limitata allo scopo di assicurarne la funzione sociale e renderla accessibile a tutti.
Ed ancora l’art. 43 Cost., per dare concretezza a tali principi consente l’esproprio di determinate imprese o categorie d’imprese che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.
Tutto questo i Trattati UE lo vietano espressamente, si pensi alle seguenti norme palesemente incompatibili con la Costituzione e con gli artt. 41 e 43 precitati:
-artt. 49, 50 TFUE (ex artt. 43, 44 TCE) sulla libertà di stabilimento;
-artt. 56-62 (ex artt. 50-55 TCE) sulla libertà nei servizi;
-artt. 63-66 (ex artt. 56-59 TCE) sulla libera circolazione dei capitali.
Veniamo poi alle cessioni di sovranità economica (il diritto di cui si controverte è la sovranità e dunque il punto centrale del giudizio resta questo e non il diverso modello economico dei Trattati rispetto a quello della Costituzione), non a caso rubricate nei Trattati nel medesimo titolo di quelle relative alla moneta.
Ancora una volta entrambi i Trattati sono speculari.
La sovranità economica è stata ceduta in primo luogo con il protocollo n. 12 allegato al Trattato di Maastricht e poi riconfermata, immutata, con il Trattato di Lisbona.
Il protocollo specifica il contenuto dell’art. 126 TFUE ex art. 104 TCE che testualmente dispone: “Gli stati membri devono evitare disavanzi pubblici eccessivi. La Commissione sorveglia l’evoluzione della situazione di bilancio e dell’entità del debito pubblico negli Stati membri, al fine di individuare errori rilevanti. In particolare esamina la conformità alla disciplina di bilancio sulla base dei due criteri seguenti: a) se il rapporto tra disavanzo pubblico, previsto o effettivo, e il prodotto interno lordo superi un valore di riferimento, a meno che: -il rapporto non sia diminuito in modo sostanziale e continuo e abbia raggiunto un livello che si avvicina al valore di riferimento, -oppure in alternativa, il superamento del valore di riferimento sia solo eccezionale e temporaneo e il rapporto resti vicino al valore di riferimento; b) se il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo superi un valore di riferimento, a meno che detto rapporto non si stia riducendo in misura sufficiente e non si avvicini al valore di riferimento con ritmo adeguato. I valori di riferimento sono specificati nel protocollo sulla procedura per i disavanzi eccessivi allegato ai trattati. 3. Se uno Stato membro non rispetta i requisiti previsti da uno o entrambi i criteri menzionati, la Commissione prepara una relazione. La relazione della Commissione tiene conto anche dell’eventuale differenza tra il disavanzo pubblico e la spesa pubblica per gli investimenti e tiene conto di tutti gli altri fattori significativi, compresa la posizione economica e di bilancio a medio termine dello Stato membro. La Commissione può inoltre preparare una relazione se ritiene che in un determinato Stato membro, malgrado i criteri siano rispettati, sussista il rischio di un disavanzo eccessivo. 4. Il comitato economico e finanziario formula un parere in merito alla relazione della Commissione. 5. La Commissione, se ritiene che in uno Stato membro esista o possa determinarsi in futuro un disavanzo eccessivo, trasmette un parere allo Stato membro interessato e ne informa il Consiglio. 6. Il Consiglio, su proposta della Commissione econsiderate le osservazioni che lo Stato membro interessato ritenga di formulare, decide, dopo una valutazione globale, se esiste un disavanzo eccessivo. 7. Se, ai sensi del paragrafo 6, decide che esiste un disavanzo eccessivo, il Consiglio adotta senza indebito ritardo, su raccomandazione della Commissione, le raccomandazioni allo Stato membro in questione al fine di far cessare tale situazione entro un determinato periodo. Fatto salvo il disposto del paragrafo 8, dette raccomandazioni non sono rese pubbliche. 8. Il Consiglio, qualora determini che nel periodo prestabilito non sia stato dato seguito effettivo alle sue raccomandazioni, può rendere pubbliche dette raccomandazioni. C 83/100 Gazzetta ufficiale dell IT ’Unione europea 30.3.2010 100 Trattati consolidati 9. Qualora uno Stato membro persista nel disattendere le raccomandazioni del Consiglio, quest’ultimo può decidere di intimare allo Stato membro di prendere, entro un termine stabilito, le misure volte alla riduzione del disavanzo che il Consiglio ritiene necessaria per correggere la situazione. In tal caso il Consiglio può chiedere allo Stato membro in questione di presentare relazioni secondo un calendario preciso, al fine di esaminare gli sforzi compiuti da detto Stato membro per rimediare alla situazione. 10. I diritti di esperire le azioni di cui agli articoli 258 e 259 non possono essere esercitati nel quadro dei paragrafi da 1 a 9 del presente articolo. 11. Fintantoché uno Stato membro non ottempera ad una decisione presa in conformità del paragrafo 9, il Consiglio può decidere di applicare o, a seconda dei casi, di rafforzare una o più delle seguenti misure: — chiedere che lo Stato membro interessato pubblichi informazioni supplementari, che saranno specificate dal Consiglio, primadell’emissione di obbligazioni o altri titoli, — invitare la Banca europea per gli investimenti a riconsiderare la sua politica di prestiti verso lo Stato membro in questione, — richiedere che lo Stato membro in questione costituisca un deposito infruttifero di importo adeguato presso l’Unione, fino a quando, a parere del Consiglio, il disavanzo eccessivo non sia stato corretto, — infliggere ammende di entità adeguata. Il presidente del Consiglio informa il Parlamento europeo delle decisioni adottate. 12. Il Consiglio abroga alcune o tutte le decisioni o raccomandazioni di cui ai paragrafi da 6 a 9 e 11 nella misura in cui ritiene che il disavanzo eccessivo nello Stato membro in questione sia stato corretto. Se precedentemente aveva reso pubbliche le sue raccomandazioni, il Consiglio dichiara pubblicamente, non appena sia stata abrogata la decisione di cui al paragrafo 8, che non esiste più un disavanzo eccessivo nello Stato membro in questione. 13. Nell’adottare le decisioni o raccomandazioni di cui ai paragrafi 8, 9, 11 e 12, il Consiglio delibera su raccomandazione della Commissione. Nell’adottare le misure di cui ai paragrafi da 6 a 9, 11 e 12, il Consiglio delibera senza tener conto del voto del membro del Consiglio che rappresenta lo Stato membro in questione. Per maggioranza qualificata degli altri membri del Consiglio s’intende quella definita conformemente all’articolo 238, paragrafo 3, lettera a). 14. Ulteriori disposizioni concernenti l’attuazione della procedura descritta nel presente articolo sono precisate nel protocollo sulla procedura per i disavanzi eccessivi allegato ai trattati. 30.3.2010 Gazzetta ufficiale dell IT ’Unione europea C 83/101 Versione consolidata del trattato sul funzionamento dell’Unione europea 101 Il Consiglio, deliberando all’unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa consultazione del Parlamento europeo e della Banca centrale europea, adotta le opportune disposizioni che sostituiscono detto protocollo. Fatte salve le altre disposizioni del presente paragrafo, il Consiglio, su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, precisa le modalità e le definizioni per l’applicazione delle disposizioni di detto protocollo”.
Trattasi di un evidente commissariamento permanente del Paese che qualora si discosti dai parametri imposti dall’UE subisce via via sanzioni più pesanti.
La cessione è manifesta e nemmeno serve commentare, bastando ed avanzando la piana lettura della norma.
Nel protocollo n. 12 intitolato “delle procedure di disavanzo eccessivo” ha poi codificato i parametri di deficit da rispettare.
Esso prevede (trascrizione integrale di tutti gli articoli: “Articolo 1 – I valori di riferimento di cui all’articolo 126, paragrafo 2, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea sono: — il 3% per il rapporto fra il disavanzo pubblico, previsto o effettivo, e il prodotto interno lordo ai prezzi di mercato, — il 60% per il rapporto fra il debito pubblico e il prodotto interno lordo ai prezzi di mercato. Articolo 2 – Nell’articolo 126 di detto trattato e nel presente protocollo: — per pubblico, si intende la pubblica amministrazione, vale a dire l’amministrazione statale, regionale o locale e i fondi di previdenza sociale, ad esclusione delle operazioni commerciali, quali definiti nel Sistema europeo di conti economici integrati, — per disavanzo, si intende l’indebitamento netto quale definito nel Sistema europeo di conti economici integrati, — per investimento, si intende la formazione lorda di capitale fisso, quale definita nel Sistema europeo di conti economici integrati, — per debito, si intende il debito lordo al valore nominale in essere alla fine dell’esercizio e consolidato tra e nei settori della pubblica amministrazione quale definita nel primo trattino. Articolo 3 Al fine di garantire l’efficacia della procedura per i disavanzi eccessivi, i governi degli Stati membri, ai sensi della stessa, sono responsabili dei disavanzi della pubblica amministrazione come definita 30.3.2010 Gazzetta ufficiale dell IT ’Unione europea C 83/279 Protocolli 279 all’articolo 2, primo trattino, del presente protocollo. Gli Stati membri assicurano che le procedure nazionali in materia di bilancio consentano loro di rispettare gli obblighi derivanti dai trattati in questo settore. Gli Stati membri riferiscono alla Commissione, tempestivamente e regolarmente, in merito al loro disavanzo, previsto ed effettivo, nonché al livello del loro debito. Articolo 4 I dati statistici da usare per l’applicazione del presente protocollo sono forniti dalla Commissione”.
In materia la sovranità è stata radicalmente ceduta, addirittura il paese si è subordinato, come detto, “al vincolo esterno” che arriva al commissariamento con imposizioni di sanzioni in caso di mancata ottemperanza agli ordini della commissione.
Più articolata sul punto sono invece le ragioni di contrasto in merito ai controlimiti, fermo restando che anche qui la cessione è sufficiente per la declaratoria di incostituzionalità della legge di ratifica.
La comprensioni dei controlimiti costituzionali all’ingresso di norme che impongono un tetto fisso ed immutabile al deficit richiede l’esame del ruolo giuridico ed istituzionale del risparmio.
L’art. 47 primo comma Cost. dispone: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio, in tutte le sue forme, disciplina coordina e controlla il credito.
Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del paese”.
Il tema del risparmio è costantemente dimenticato nel nostro ordinamento, benché sia un diritto costituzionalmente tutelato e dunque rappresenti appunto un controlimite all’ingresso di norme internazionali. La definizione di risparmio è assai semplice: trattasi di quella parte del reddito non utilizzata e quindi accantonata da ogni cittadino.
Come sempre quando si parla di Costituzione è utile leggere i verbali dell’assemblea costituente. Da essi si evince con forza quanto fosse chiaro e limpido il concetto della tutela del risparmio nelle intenzioni dei padri costituenti e ciò come conseguenza diretta ed immediata della stessa fondazione della Repubblica sul lavoro (art. 1, 4, 35 Cost.) e del diritto del lavoratore ad una retribuzione adeguata a garantirgli un’esistenza libera e dignitosa (art. 36 Cost.), nonché del diritto degli invalidi o degli inabili ad essere assistiti (art. 38 Cost.).
Il risparmio è necessario per tale finalità ovviamente.
L’onorevole Tupini, nel dibattito della sottocommissione costituente che presiedeva, propose l’inserimento nella Carta della seguente dicitura: “La legge regola e tutela il risparmio”. Merlin propose invece la formula:“La legge tutela e difende il risparmio”. Si inizio una delibazione sul tema.
Tuttavia, tanto era chiaro il concetto della difesa del risparmio nelle menti dei costituenti, che la replica a queste formulazioni di Mastrojanni fu che le formule proposte erano addirittura pleonastiche in quanto: “Nessun cittadino può dubitare che il suo risparmio possa essere aggredito”.
Compito del Parlamento e del Governo è dunque certamente quello di tutelare il risparmio nel senso più totale e pieno del termine. Ma cosa implica tutto ciò e come può essere messo in relazione con i criteri di stabilità e convergenza sopra specificati?
Per rispondere a tale quesito occorre in primo luogo avere ben chiaro come si verifica il fenomeno dell’accantonamento del risparmio entrando necessariamente in logica di politica economica e monetaria.
E qui, benché non sia un elemento poi decisivo per la vicenda poiché i Trattati sono già incostituzionali per quanto sin d’ora detto, è necessario prestare particolare attenzione a quanto si scrive posto che si affronta un concetto fortemente controintuitivo.
Ovviamente il risparmio privato è per definizione il risultato di una politica di deficit dello Stato. In sostanza se lo Stato recupera a tassazione ogni singolo euro immesso nel sistema chiaramente lo stesso concetto di risparmio diventa una mera utopia non essendo più realizzabile matematicamente.
Uno Stato che fin dalla sua nascita adotta il principio del pareggio in bilancio (o impone un tetto al deficit che non consente di spendere più di quanto tassa) è uno Stato che non tutela il risparmio diffuso in tutte le sue forme ma lo rende impossibile ex lege. Un lavoratore che non può risparmiare non potrà avere un’esistenza libera e dignitosa.
Il concetto sembra solo in apparenza controintuitivo, anche per i giuristi. Ciò accade in quanto anche noi professionisti siamo soggetti a forme di condizionamento mediatico e culturale che trovano terreno fertile laddove le nostre competenze non sono sufficienti ad avere un pensiero del tutto autonomo e fondato su solide basi in fatto ed in diritto: non siamo dunque in grado di comprendere (perché non è tema che affrontiamo usualmente sul campo) il significato giuridico-costituzionale del concetto di deficit pubblico, concetto che necessariamente dovrà essere trattato dai giudici della Corte Costituzionale proprio indicando espressamente il tema nella redigenda ordinanza di rimissione.
Anche se basta la prova, ampiamente raggiunta dell’avvenuta cessione di sovranità, per dichiarare i Trattati UE illegittimi.
Deve essere chiarito fino a rendere il concetto pacifico per tutti, esattamente come è oggi pacifico affermare che la Terra non è piatta, che ad uno Stato non possono applicarsi logiche economiche di stampo aziendale e dunque logiche proprie della microeconomia.
Un’azienda crea risparmio facendo attivo, lo Stato invece può crearlo per i propri consociati unicamente attraverso il proprio passivo, ovvero immettendo più moneta di quanta ne drena.
Lo Stato secondo il modello costituzionale dunque è la figura che regolamenta le principali variabili macroeconomiche del paese lo Stato appunto deve: “disciplinare, coordinare e controllare il credito”.
Lo Stato (ergo il popolo) in definitiva deve avere la piena sovranità d’immettere moneta nel circuito economico.
La moneta può essere immessa in circolo unicamente attraverso la stampa di diretta, attraverso la spesa pubblica in deficit (meccanismo oggi adottato), attraverso le esportazioni oppure per mezzo dei prestiti delle banche commerciali. Oggi sia la stampa diretta di moneta che la spesa pubblica a deficit sono precluse dalle cessioni di sovranità compiute con la ratifica dei Trattati UE e dunque ci rimane solo la via dell’esportazione.
La base monetaria può essere aumentata unicamente drenando liquidità da altre nazioni (esattamente in questo contesto si spiega l’attivo della bilancia dei pagamenti della Germania, forte grazie alle esportazioni) oppure chiedendo prestiti che ovviamente comportano il pagamento di interessi.
Dunque la tutela del risparmio, che presuppone la sua creazione, si pone in evidente contrapposizione ai vincoli d’indebitamento dei Trattati UE ed al pareggio in bilancio in Costituzione che costituisce la certificazione definitiva del fatto che la Repubblica non si occuperà più del risparmio e dunque del lavoro.
Nel lungo periodo il risparmio si può creare unicamente con politiche di deficit (intendendo con questo termine anche la stampa diretta di moneta e quindi un deficit che in realtà non costituisce debito reale verso nessun soggetto ma solo il dato quantitativo della moneta realmente emessa da uno Stato sovrano).
Dunque la violazione dei controlimiti afferisce sia all’art. 47 Cost. ma anche agli artt. 1, 2, 3, 4 e 35, 36, 38, 138 e 139 Cost.
Ma abbiamo parlato di pareggio in bilancio e dunque veniamo alle ultime due Leggi di cui si afferma, senza tema di smentita la manifesta incostituzionalità in quanto compromettono la sovranità popolare.
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Ragioni giuridiche dell’incostituzionalità del Trattato cd. Fiscal Compact e della conseguente riforma costituzionale compiuta con Legge n. 1/2012 che ha introdotto il pareggio in bilancio anche in Costituzione.
Parimenti incostituzionali in quanto costituiscono illegittime cessioni di sovranità, altresì in contrasto contro i controlimiti all’ingresso delle norme internazionali nell’ordinamento sono anche le seguenti leggi:
Tale Trattato risulta palesemente incostituzionale in quanto non solo riconferma le cessioni di sovranità già compiute con i Trattati di Maastricht prima e Lisbona poi ma addirittura le inasprisce.
I limiti al deficit diventano più stringenti ed i poteri sanzionatori delle autorità europee vengono incrementati.
L’art. 3 del Trattato è assolutamente eloquente: “1. Le parti contraenti applicano le regole enunciate nel presente paragrafo in aggiunta e fatti salvi i loro obblighi ai sensi del diritto dell’Unione europea:
a) la posizione di bilancio della pubblica amministrazione di una parte contraente è in pareggio o in avanzo;
b) la regola di cui alla lettera a) si considera rispettata se il saldo strutturale annuo della pubblica amministrazione è pari all’obiettivo di medio termine specifico per il paese, quale definito nel patto di stabilità e crescita rivisto, con il limite inferiore di un disavanzo strutturale dello 0,5% del prodotto interno lordo ai prezzi di mercato. Le parti contraenti assicurano la rapida convergenza verso il loro rispettivo obiettivo di medio termine. Il quadro temporale per tale convergenza sarà proposto dalla Commissione europea tenendo conto dei rischi specifici del paese sul piano della sostenibilità. I progressi verso l’obiettivo di medio termine e il rispetto di tale obiettivo sono valutati globalmente, facendo riferimento al saldo strutturale e analizzando la spesa al netto delle misure discrezionali in materia di entrate, in linea con il patto di stabilità e crescita rivisto;
c) le parti contraenti possono deviare temporaneamente dal loro rispettivo obiettivo di medio termine o dal percorso di avvicinamento a tale obiettivo solo in circostanze eccezionali, come definito al paragrafo 3, lettera b);
d) quando il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo ai prezzi di mercato è significativamente inferiore al 60% e i rischi sul piano della sostenibilità a lungo termine delle finanze pubbliche sono bassi, il limite inferiore per l’obiettivo di medio termine di cui alla lettera b) può arrivare fino a un disavanzo strutturale massimo dell’1,0% del prodotto interno lordo ai prezzi di mercato;
e) qualora si constatino deviazioni significative dall’obiettivo di medio termine o dal percorso di avvicinamento a tale obiettivo, è attivato automaticamente un meccanismo di correzione. Tale meccanismo include l’obbligo della parte contraente interessata di attuare misure per correggere le deviazioni in un periodo di tempo definito.
2. Le regole enunciate al paragrafo 1 producono effetti nel diritto nazionale delle parti contraenti al più tardi un anno dopo l’entrata in vigore del presente trattato tramite disposizioni vincolanti e di natura permanente – preferibilmente costituzionale – o il cui rispetto fedele è in altro modo rigorosamente garantito lungo tutto il processo nazionale di bilancio. Le parti contraenti istituiscono a livello nazionale il meccanismo di correzione di cui al paragrafo 1, lettera e), sulla base di principi comuni proposti dalla Commissione europea, riguardanti in particolare la natura, la portata e il quadro temporale dell’azione correttiva da intraprendere, anche in presenza di circostanze eccezionali, e il ruolo e l’indipendenza delle istituzioni responsabili sul piano nazionale per il controllo dell’osservanza delle regole enunciate al paragrafo 1. Tale meccanismo di correzione deve rispettare appieno le prerogative dei parlamenti nazionali.
3. Ai fini del presente articolo si applicano le definizioni di cui all’articolo 2 del protocollo (n. 12) sulla procedura per i disavanzi eccessivi, allegato ai trattati dell’Unione europea.
Ai fini del presente articolo si applicano altresì le definizioni seguenti:
a) per «saldo strutturale annuo della pubblica amministrazione» si intende il saldo annuo corretto per il ciclo al netto di misure una tantum e temporanee;
b) per «circostanze eccezionali» si intendono eventi inconsueti non soggetti al controllo della parte contraente interessata che abbiano rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria della pubblica amministrazione oppure periodi di grave recessione economica ai sensi del patto di stabilità e crescita rivisto, purché la deviazione temporanea della parte contraente interessata non comprometta la sostenibilità del bilancio a medio termine”.
Oltre le manifeste cessioni, comunque illegittime, valgono esattamente le medesime considerazioni circa l’incompatibilità tra pareggio in bilancio e tutela del risparmio in una Repubblica fondata sul lavoro.
La procedura sanzionatoria viene poi inasprita l’art. 4 infatti prevede: “Quando il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo di una parte contraente supera il valore di riferimento del 60% di cui all’articolo 1 del protocollo (n. 12) sulla procedura per i disavanzi eccessivi, allegato ai trattati dell’Unione europea, tale parte contraente opera una riduzione a un ritmo medio di un ventesimo all’anno come parametro di riferimento secondo il disposto dell’articolo 2 del regolamento (CE) n. 1467/97 del Consiglio, del 7 luglio 1997, per l’accelerazione e il chiarimento delle modalità di attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi, come modificato dal regolamento (UE) n. 1177/2011 del Consiglio, dell’8 novembre 2011. L’esistenza di un disavanzo eccessivo dovuto all’inosservanza del criterio del debito sarà decisa in conformità della procedura di cui all’articolo 126 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea”.
L’art. 5 Cost. conferma poi la fine della sovranità italiana in materia economica: “1. La parte contraente che sia soggetta a procedura per i disavanzi eccessivi ai sensi dei trattati su cui si fonda l’Unione europea predispone un programma di partenariato economico e di bilancio che comprenda una descrizione dettagliata delle riforme strutturali da definire e attuare per una correzione effettiva e duratura del suo disavanzo eccessivo(si noti che con questo Trattato tutti il disavanzo è eccessivo perché occorre la parità o l’attivo di bilancio n.d.s.). II contenuto e il formato di tali programmi sono definiti nel diritto dell’Unione europea”.
Ed ancora la norma chiaramente ci impone il “vincolo esterno” con tale sconcertante precisazione: “La loro presentazione al Consiglio dell’Unione europea e alla Commissione europea per approvazione e il loro monitoraggio avranno luogo nel contesto delle procedure di sorveglianza attualmente previste dal patto di stabilità e crescita.
2. Spetterà al Consiglio dell’Unione europea e alla Commissione europea monitorare l’attuazione del programma di partenariato economico e di bilancio e dei piani di bilancio annuali ad esso conformi”.
Con buona pace della sovranità che apparteneva al popolo.
L’art. 6 poi addirittura impone la comunicazione “ex ante al Consiglio dell’Unione europea e alla Commissione europea i rispettivi piani di emissione del debito pubblico”.
Il Governo Monti ha successivamente varato una riforma costituzionale per rendere la nostra Carta Costituzionale asseritamente compatibile con tali nuove norme.
La legge costituzionale n. 1/2012 è l’ultima norma di cui si eccepisce l’incostituzionalità.
Il pareggio in bilancio infatti, inserito con la modifica dell’art. 81 Cost. è in totale contrasto con i principi fondamentali della Carta ed i diritti inalienabili dell’uomo.
Le leggi costituzionali non sfuggono infatti al vaglio previsto anche con la sentenza n. 238/2014, ed una legge che modifica la forma Repubblicana dello Stato è illegittima.
I controlimiti infatti come ribadito dalla Consulta: “rappresentano, in altri termini, gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale, per ciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale (artt. 138 e 139 Cost.: così nella sentenza n. 1146 del 1988)”.
Il pareggio in bilancio non poteva essere inserito in Costituzione poiché tale aspetto della carta non è passibile di revisione in quanto contrasta con i principi fondamentali dell’ordinamento impedendo allo Stato (al popolo) di esercitare la propria sovranità economica e monetaria e di attuare politiche di deficit (da finanziare come meglio e sovranamente si riterrà) atte a perseguire la piena occupazione.
Inutile ripetere pedissequamente le motivazioni già addotte che semplicemente si richiamano in merito al ruolo giuridico del deficit.
Vale però la pena trascrivere un passo, non già dello scrivente, ma di Luciano Barra Caracciolo, Pres. della V sez. del Consiglio di Stato, risalente all’anno 2013:
“Sviluppando il tema ora intrapreso, è accettabile, ad esempio, che sia automaticamente insindacabile ogni legge che, nel fine politicamente dichiarato, persegua il fine della riduzione dell’indebitamento annuale dello Stato, alla luce dell’enunciato del nuovo art.81 Cost., (peraltro valevole a partire dal 1 gennaio 2014), per cui, “Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico”?
La risposta pone capo a varie soluzioni.
Anzitutto. La proposizione costituzionale assunta nella sua finalità programmatica specifica, può implicare il sacrifico “massivo” di molte altre norme costituzionali di “principio”, -cioè quelle che lo stesso art.139 Cost., non consente di abrogare-modificare- perché caratterizzanti la “forma repubblicana”, intesa come Repubblica democratica fondata sul lavoro, (dato che tale è l’enunciato dell’art.1 Cost. ed il più chiaro riferimento intratestuale e sistematico all’ubi consistam di tale “forma”).
Se risultasse, in tale prospettiva, che la riduzione costituzionale e, in via di attuazione periodica e costante, “legislativa” dell’”indebitamento” (che il susseguente comma dell’art.81 vieta direttamente, tranne “autorizzazione” delle Camere, adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di “eventi eccezionali”, connessi a “effetti del ciclo economico”), diminuisse in modo prolungato e “strutturale” l’occupazione (art. 1 e 4 Cost, in sistema con gli artt. 35, 36 e 37 Cost.) ad esempio registrandosi un massiccio incremento della disoccupazione, con forte decremento, comprovato del monte-retribuzioni ad esse precedentemente attribuite, lo stesso “nuovo” art.81 sarebbe in contrasto con norme costituzionali prevalenti e, a rigore, si aprirebbe la via al sindacato “interno” alla Costituzione stessa.
La sindacabilità, anche di norme di revisione, ove violative dei precetti “primigeni” di livello costituzionale, e quand’anche attuative di obblighi pattizi assunti in sede “europea” è da ritenere pacifica.
Ed infatti, se il nostro diritto interno é cedevole di fronte al diritto comunitario, quest’ultimo non può derogare o superare i “principi supremi” della nostra Costituzione.
Una regola questa ribadita dalla Corte costituzionale (sent. 284 del 13 luglio 2007).
Di essasegnaliamo questo passaggio: “Ora, nel sistema dei rapporti tra ordinamento interno ordinamento comunitario, quale risulta dalla giurisprudenza di questa Corte, consolidatasi, in forza dell’art. 11 della Costituzione, soprattutto a partire dalla sentenza n. 170 del 1984, le norme comunitarie provviste di efficacia diretta precludono al giudice comune l’applicazione di contrastanti disposizioni del diritto interno, quando egli non abbia dubbi – come si è verificato nella specie – in ordine all’esistenza del conflitto. La non applicazione deve essere evitata solo quando venga in rilievo il limite, sindacabile unicamente da questa Corte, del rispetto dei principi fondamentali dell’ ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona(da ultimo, ordinanza n. 454 del 2006).
Ma, quello della “incidenza manifesta” sul livello di occupazione, è solo uno degli esempi tra i molteplici che si possono addurre: si pensi a una prolungata disciplina finanziaria che, anno per anno, disponga sistematicamente il taglio degli investimenti pubblici, com’è in effetti avvenuto. Ciò fa venir meno un determinante sostegno alla domanda aggregata (il PIL), e, proprio e specialmente in situazione di stagnazione o flessione del PIL, determina la conseguenza di limitare concretamente le indispensabili politiche pubbliche volte a indirizzare l’iniziativa economica verso obiettivi di “sicurezza, libertà e dignità umana” (art.41 Cost., secondo comma), programmando e controllando “effettivamente” l’attività economica, affinché si rivolga (art.41, terzo comma) verso “fini sociali” – tra cui certamente spicca, in virtù degli artt. 1 e 4 Cost.- il perseguimento della “piena occupazione” (e non certo politiche fiscali che amplifichino la disoccupazione).
In altri termini, lo stimolo fiscale all’economia ha una oggettiva funzione anticongiunturale e di concomitante sostegno all’occupazione, e, tale stimolo, per essere conforme a numerose norme costituzionali di tutela del lavoro come fondamento e legittimazione del legame comunitario generale, deve poter essere svolto in misura “effettiva”, cioè adeguata alla dimensione macroeconomica del Paese e non essere ridotto in termini puramente formali e, perciò, tra l’altro, “inattendibili”, secondo l’obiettivo stato della scienza economica, rispetto all’obiettivo (stimolo e sostegno), agevolmente ricavabile in via sistematica dalla Costituzione.
Si consideri, poi, che, come si è illustrato alla nota 3), la stessa sindacabilità delle norme di revisione costituzionale, secondo la più attenta e “autentica” (in senso di attribuibile direttamente all’intendimento del Costituente) dottrina, è fondata sulla pacifica superiorità della Costituzione “primigenia” rispetto alle fonti, pur costituzionali, di sua modifica successiva, laddove ne risulti “alterata” l’effettività del suoi principi fondamentali.
Un tale effetto di “svuotamento” e quindi “violazione” dei principi fondamentali, potrebbe essere avallato dalla Corte, facendo perno sull’assunto del carattere tecnico, automaticamente insindacabile, del concetto di “ divieto di indebitamento”, enfatizzando la copertura apprestata dal mero enunciato del perseguimento di tale fine, quando, invece, “si provasse” – come appunto pare accettare la Corte con la sentenza n.93/2011- che lo stesso è “sbagliato”, cioè inattendibile rispetto alle consolidate risultanze della scienza economica?
Risulta arduo affermare che la Costituzione, depotenziata nei suoi contenuti fondamentali, debba arrestare la sua garanzia dei diritti fondamentali, solo perché entri in gioco una qualunque disposizione che sancisca un compito governativo-legislativo nel campo della gestione del bilancio pubblico, se tale “compito”, – svolto in base ad “una” dottrina economica, divergente da altre “prevalenti”-, concretamente produca “effetti” di “svuotamento” risultanti da dati e nessi causali dotati di obiettiva evidenza.
Ancor prima, una o più leggi, che, nella vigenza del precedente testo dell’art.81 Cost. (cioè in assenza dell’obbligo di “pareggio”), perseguissero, o provocassero (ma vedremo che la diligente comprensione dei principi economici attenua tale distinzione) questi stessi effetti, sarebbe costituzionalmente illegittima, sebbene ancorata a enunciati, testuali o extratestuali, rapportati allo stesso fine di “consolidamento” del bilancio”.