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Renzi voleva il canone TV “alla greca”, ma ha fatto solo un pasticcio “all’italiana”

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Canone

Fa molto discutere la norma inserita nel disegno di legge “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato“, meglio conosciuta come “Legge di stabilità” 2016 che impone il pagamento del canone TV nella prima bolletta dell’energia elettrica scadente a fine gennaio. Sia i gestori del servizio elettrico che le associazioni dei consumatori si sono opposte a tale norma “alla greca” (in Grecia la tassa sugli immobili si paga con la bolletta elettrica) che è stata considerata “difficile tecnicamente, per i sistemi di fatturazione, e probabilmente complicata anche dal punto di vista giuridico“, tanto da farla definire da Assoelettrica (l’associazione che riunisce oltre 200 produttori di energia elettrica) “un gran pasticcio“, nella considerazione che con il mercato libero, esistono centinaia di produttori/distributori e che l’utente potrebbe cambiare fornitore anche più volte in un anno, complicando così di molto la possibilità di monitoraggio richiesto dalla legge alle Compagnie elettriche.

Si creerebbe poi una discriminazione fra chi è intestatario di utenza elettrica e chi non lo è, pur possedendo un televisore, poiché quest’ultimo potrebbe facilmente eludere l’obbligo di versamento del canone, non pagando bollette. Insomma l’unione fra utenza elettrica e canone, ciclicamente riproposta come soluzione alla massiccia evasione del tributo (risulta fra le 7 tasse più odiate e più evase in Italia), non sembra convincere, né chi dovrebbe riscuotere, né chi dovrebbe pagare. Ma per capire tutti gli aspetti della questione conviene partire dall’inizio, ovvero dal canone stesso ed innanzitutto dalla domanda base: che tassa è il canone e perché lo si paga?

Il canone TV o più precisamente il canone di abbonamento alle radio-audizioni, come viene definito dalla legge, nasce con il Regio Decreto Legge 21 febbraio 1938 n. 246, convertito dalla Legge 4 giugno 1938 n. 880, intitolato “Disciplina degli abbonamenti alle radio-audizioni”, il quale, all’art. 1 dichiara:

Chiunque detenga uno o più apparecchi atti od adattabili alla ricezione delleradio-audizioni è obbligato al pagamento del canone di abbonamento,  giusta le norme di cui al presente decreto.

La presenza di un impianto aereo atto alla captazione o trasmissione di onde elettriche o di un dispositivo idoneo a sostituire l’impianto aereo, ovvero di linee interne per il funzionamento di apparecchi radioelettrici, fa presumere la detenzione o l’utenza di un apparecchio radioricevente.

Nonostante quindi si parli di abbonamento, cosa che fa presumere un servizio che viene pagato, e quindi che si tratti del versamento di una tassa, il canone è una mera imposta di possesso di uno o più apparecchi idonei a ricevere un segnale radiotelevisivo, nel presupposto che tale possesso sia indice di una capacità contributiva particolare. In altre parole si tratta di una micro-imposta patrimoniale.

Decadono pertanto tutti i discorsi relativi alla qualità del servizio radiotelevisivo pubblico che ciclicamente vengono fatti per giustificare il rifiuto di pagare il canone: l’abbonamento TV, pur se finanzia in gran parte la RAI, non è un corrispettivo del servizio pubblico. Ciò naturalmente non toglie che, essendo destinataria del denaro versato dal contribuente, la RAI dovrebbe spenderlo nella maniera migliore, ma la qualità del servizio pubblico può rilevare per altri aspetti, ma non per la legittimità del canone.

Il canone quindi lo si paga perché possedere apparecchi atti alla ricezione del segnale radiotelevisivo è considerato dallo Stato indice di ricchezza tassabile: ma quali apparecchi? Il problema è sorto con le nuove tecnologie (PC, tablet, smartphone) che evidentemente nel 1938 non erano neanche lontanamente ipotizzabili, tecnologie che permettono la ricezione tramite la Rete delle trasmissioni televisive. Sono questi device assoggettati al pagamento del canone, come ogni tanto si sente e come la RAI stessa e qualcuno in passato ha sostenuto? Assolutamente no. L’imposta colpisce la detenzione ed il possesso di apparecchi atti a ricevere il segnale (analogico o digitale) di radiodiffusione dell’antenna radiotelevisiva e non la ricezione di segnale via Internet. Questo chiarimento è stato effettuato dallo stesso Ministero dello Sviluppo Economico – Dipartimento per le Comunicazioni con una propria nota del 22 febbraio 2012, chiarendo così che i normali PC (non dotati quindi di sintonizzatore TV), i tablet e gli smartphone non rientrano fra gli apparecchi tassabili; all’opposto un apparecchio TV paga l’imposta anche se viene disistallato il sintonizzatore, per utilizzarlo come semplice terminale o per la visione dei DVD.

Chiarito l’ambito applicativo dell’imposta, vediamo ora quali sono state le modifiche apportate al R.D.L. del 1938. La bozza approvata della Legge di stabilità all’art. 12 ha così modificato l’art. 1, aggiungendo il seguente paragrafo al secondo comma:

 La detenzione o l’utilizzo di un apparecchio si presumono altresì nel caso in cui esista una utenza per la fornitura di energia elettrica nel luogo in cui un soggetto ha la sua residenza anagrafica. Allo scopo di superare le presunzioni di cui ai precedenti periodi, a decorrere dall’anno 2016 non è ammessa alcuna dichiarazione diversa da quelle rilasciate ai sensi del D.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445, la cui mendacia comporta gli effetti, anche penali, di cui all’art. 76 del medesimo decreto.

Dopo questo paragrafo è poi stato aggiunto un nuovo terzo comma che recita:

Il canone di abbonamento è, in ogni caso, dovuto una sola volta in relazione agli apparecchi di cui al primo comma detenuti o utilizzati, nei luoghi adibiti a propria residenza o dimora, dallo stesso soggetto e dai soggetti appartenenti alla stessa famiglia anagrafica, come individuata dall’art. 4 del D.P.R. 30 maggio 1989 n. 223

(O.T.: vi rendete conto con che qualità espositiva abbiamo a che fare ogni giorno noi operatori del diritto?)

Al di là dei tecnicismi il principio espresso nella prima parte è chiaro: chiunque ha nella propria residenza un’utenza elettrica è tenuto ha pagare il canone, poiché si presume che possieda o utilizzi un apparecchio radiotelevisivo. Se andiamo però ad approfondire vediamo che qualche problema sorge e non da poco. Innanzitutto la base imponibile, ovvero il fatto materiale che è il presupposto della tassazione, non è più la stessa: nel R.D. del 1938 era solo la detenzione, quindi il possesso, nella Legge di stabilità diventa anche il mero utilizzo. Anche quindi chi non è proprietario/possessore di un televisore, ma utilizza quello di proprietà di un altro soggetto è tassato, se intestatario di fornitura elettrica. La ragione è semplice: lo Stato presuppone che all’interno di un’abitazione viva un nucleo familiare e che quindi vi sia almeno un televisore. Stabilirne di chi è la proprietà è irrilevante e soprattutto è irrilevante che coincidano l’intestatario della bolletta elettrica ed il proprietario del televisore. La tassa, come spiega il terzo comma aggiunto, è comunque dovuta una volta sola (anche se gli apparecchi quindi sono più di uno) e vale per tutti gli appartenenti al nucleo familiare. Naturalmente il Legislatore non si pone il problema che esistono numerosi nuclei abitativi non familiari, come studenti fuori sede, colleghi di lavoro, affittuari non intestatari di utenze, ecc. che complicano questo ragionamento e che daranno luogo sicuramente a contestazioni e ricorsi.

Altro punto controverso è dato dalla dichiarazione che deve essere resa per superare la presunzione di possesso/utilizzo. Il Legislatore, per far vedere che non scherza, ha ricondotto tale dichiarazione a quella che viene effettuata in sostituzione delle certificazioni e che è sorretta da una norma penale ad hoc che punisce le autocertificazioni e gli atti sostitutivi di atti notori resi falsamente: questo è il richiamo al D.P.R. 445/2000 ed al suo articolo 76. Ma per rendere effettiva la norma le dichiarazioni dovranno essere controllate e vi è un solo modo per poterle controllare: l’ispezione domiciliare. Ora vi renderete conto che per compiere centinaia se non migliaia di ispezioni (a meno che non vi si rinunci o si proceda a campione, cose che depotenzierebbero di molto l’efficacia della norma sanzionatoria) ci sarebbe bisogno di un organico di molto superiore a quello disponibile dall’amministrazione tributaria. Non solo. L’ispezione domiciliare è un provvedimento molto grave poiché incide su un diritto inviolabile costituzionalmente garantito, come appunto il domicilio, e potrebbero sorgere ricorsi riguardanti la sua tutela e la valutazione della effettiva preponderanza dell’interesse alla riscossione fiscale (art. 53 Cost.) su quello per lo meno di pari grado se non superiore relativo all’inviolabilità del domicilio (art. 14 Cost.). Auguri…

Un ultimo problema che merita un accenno mostra ancor di più l’imbarazzante pressappochismo di questa norma ed il suo valore meramente propagandistico: cosa accade se il contribuente non paga il canone? Poiché la riscossione deve essere curata dal gestore del servizio elettrico, come impone il  punto 4 dell’art. 12 della bozza di legge, il quale prevede anche una sanzione in caso di non segnalazione della morosità o mancato versamento, pari a tre volte l’imposta, questi dovrebbe considerare inadempiente l’utente e procedere con avvisi e successivamente, dopo il preavviso col distacco dell’utenza (è questa fondamentalmente la ragione dell’abbinamento canone-elettricità). Ma c’è un problema. Se l’utente ha pagato regolarmente la quota del servizio nella bolletta dove gli è stato addebitato anche il canone il distacco dell’elettricità sarebbe un reato ed esattamente interruzione di pubblico servizio, punito dall’art. 340 del Codice Penale. Quindi la Compagnia elettrica non può procedere in caso di mancato pagamento solo del canone ad alcuna azione, ma si deve limitare a segnalare il fatto all’Ente impositore per il recupero, così vanificando la deterrenza.

Da questa pur breve analisi si può dedurre che, se, come sembra, sono ormai decisi a mettere il canone in bolletta, si troveranno ad affrontare questioni e ricorsi che impegneranno l’Amministrazione anche economicamente e che avranno bisogno di molto più personale di quanto siano disposti a tenere, dovendo quindi scegliere fra sostanziale impunità dell’evasione del canone o aumento di costi per la sua riscossione che potrebbero vanificare i ricavi attesi.

Insomma un vero pasticcio “all’italiana” sulla pelle degli italiani.


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