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Quindici anni di euro

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Non è stato certo un compleanno all’insegna dei festeggiamenti quello per il quindicesimo anno dell’Euro. L’1 gennaio 2002 dicevamo addio alle lire per sposare il progetto europeo della moneta unica. Una vera comodità, dicevano in molti – in particolare i più giovani – poter girovagare per l’Europa senza dover passare per lo sportello dei cambi! Un segno di unità e appartenenza, visto che i soldi, inutile fare gli asceti, sono il veicolo per il consumo, il gesto più identitario della nostra società. Comprare un caffè a Berlino, Parigi e Roma acquisiva un po’ lo stesso sapore, e pazienza per l’aroma, la tazzina e il prezzo! Eppure l’entusiasmo con cui l’allora premier Prodi (passato ai posteri con un altro appellativo, questo sì molto nazionale) ci traghettò nella moneta unica – «lavoreremo tutti un giorno in meno per guadagnare di più» – incontrava già qualche ponderate resistenza da parte di alcuni autorevoli economisti. Ma passarono in sordina, così come nelle università improntate al credo neoliberista le pagine di critica alle unioni monetarie dei principali manuali di macroeconomia venivano saltate a piè pari.

 

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Prodi sulla genesi dell’euro: «Noi sapevamo benissimo che bisognava fare i passi successivi che dessero all’euro delle fondamenta stabili. Quante volte ne ho parlato con Kohl. La sua risposta era: Romano, l’Europa non si fa in un giorno solo perché Roma non è stata fatta in un giorno solo».

Solo oggi, dopo quindici anni, la voce dei “dissidenti” trova spazio nell’informazione ufficiale. In occasione della ricorrenza, il quotidiano Libero ha pubblicato un inserto con una rassegna esaustiva delle voci di accreditati economisti e statisti che hanno criticato, più o meno apertamente, gli effetti economici distorsivi dell’adozione di un’unione monetaria laddove manchi un’armonizzazione sotto altri fondamentali aspetti, politici ed economici. Persino a taluni insospettabili è scappato in qualche occasione di dire la schietta verità. Così il ministro Padoan che, da economista qual è, si è lasciato sfuggire un assioma: se uno Stato non dispone più degli autonomi strumenti di politica monetaria che gli consentono svalutare la valuta è per forza di cose costretto a svalutare il lavoro.

Qualche esempio dell’attendibilità della sua tesi? La bilancia commerciale italiana dall’entrata in vigore dell’euro ad oggi (ma anche qualche anno prima visto che l’ingresso della moneta unica è stata la fase conclusiva di un processo la cui fase preparatoria era partita da tempo) è crollata, così come lo è quella di gran parte dei Paesi europei, tranne uno. Questo Paese, come ormai noto anche ai più euro-entusiasti, è la Germania, sui cui parametri economici l’euro sembra modellato. Tuttavia non dobbiamo cedere ai facili stereotipi dei tedeschi autoritari e con manie di dominio mai abbandonate, perché l’onestà intellettuale non manca tra i tedeschi: il consulente del Ministero delle Finanze tedesco H. Flassbeck ha riconosciuto che «la Germania viola le regole dell’Europa fin dall’inizio» e il consulente aziendale tedesco R. Berger ha affermato che «la Germania dovrebbe abbandonare l’euro per far sì che l’Unione sopravviva».

La bilancia commerciale tedesca è esplosa a partire dal 2002 in concomitanza con l’introduzione della moneta unica (dati in milioni di euro, fonte: Tradingeconomics).

 

 

 

 

Apprezziamo molto la genuinità teutonica, ma la sopravvivenza dell’unione monetaria sarebbe deleteria a prescindere. Per sgombrare il campo da incomprensioni analizziamo cosa succede a uno Stato quando perde la sovranità monetaria, intesa come la facoltà da parte di uno Stato di emettere o stampare moneta in linea con le sue scelte di politica monetaria. E’ ovvio che venendo meno questa facoltà la politica economica di un Paese diventa monca di uno strumento fondamentale e quindi impossibilitata nell’adozione di politiche economiche adeguate alle esigenze contingenti e strutturali del Paese.

Ma cos’è esattamente la moneta? La domanda sembra banale, eppure il premio Nobel dell’economia James Tobin rispose «Non c’è argomento più difficile da spiegare per gli economisti al pubblico laico, compreso a loro stessi, come quello della moneta». Nel sistema monetario moderno, ossia quello che si è venuto a configurare con la fine del regime di Bretton Woods avvenuta tra il 1971 e il 1973, smantellato ogni rapporto con le riserve auree, la moneta attuale – cosiddetta “fiat” – non ha più alcun valore intrinseco. Suonerà blasfemo dirlo, ma è un semplice pezzo di carta o un insieme di impulsi informatici, quindi può essere creata all’infinito senza nessun rischio che si esaurisca. Certo, attraverso i prezzi è un’unità di misura convenzionale del valore dei beni, così come il kilo lo è del loro peso e il metro della loro grandezza. Essa inoltre è l’unico mezzo con cui il cittadino può pagare le tasse allo Stato.
Lo storico annuncio del presidente americano Nixon che il 15 Agosto 1971 sospese la convertibilità del dollaro in oro, dando inizio alla fine del regime di Bretton Woods

Torniamo al nostro Stato sovrano, quello che può emettere moneta, come avveniva in Italia prima dell’euro e come avviene nella gran parte dei Paesi non europei (i casi di unione monetaria nel mondo si contano sulle dita di una mano). Lo Stato ha il monopolio della propria valuta che monetizza attraverso le banche centrali e immette sul mercato per gli investire nella spesa pubblica e nei servizi sociali per i cittadini: poiché la carta e i bit elettronici sono risorse illimitate, il suo unico vincolo di spesa è definito dalle risorse umane e ambientali. A differenza delle famiglie e delle imprese, essendo detentore della valuta, non è sottoposto all’oneroso vincolo del pareggio di bilancio, per il quale le entrate (tasse) dovrebbero uguagliare le uscite (spesa pubblica), situazione non solo impossibile ma assolutamente deleteria per il benessere della popolazione. Ciò, è evidente, non vuol dire che i governi debbano darsi alle spese folli emettendo moneta a loro piacimento: l’attenzione alla produttività e al contenimento dell’inflazione, all’innovazione e alla corretta redistribuzione sono vincoli ineludibili, come il rispetto dell’esauribilità di alcune risorse materiali e immateriali.

Nel sistema euro, senza sovranità monetaria, l’unica autorizzata ad emettere moneta è la BCE (Banca Centrale Europea), che lo fa ricorrendo ai mercati di capitale privato, ossia le grandi banche di investimenti internazionali .
 Al pari di un cittadino comune, lo Stato è costretto a prendere in prestito il denaro da spendere dai mercati finanziari internazionali, che applicano un tasso d’interesse da loro stabilito. Per poter effettuare spesa pubblica, ossia garantire ai cittadini quei servizi come la sanità senza dover ricorrere all’offerta privata, è costretto sia ad indebitarsi sia a tassare in modo consistente i cittadini stessi. 
Così la spesa a deficit, che in un governo responsabile e onesto è funzionale al benessere economico del Paese, con la moneta unica diviene un fardello oneroso, che arricchisce il mercato del capitale privato internazionale togliendo soldi dalle tasche, sempre più vuote, dei cittadini, sempre meno tutelati.

 

Ilaria Bifarini

(da ID)

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