Crisi
PERCHÉ NON SI MODIFICA L’EUROZONA
Prima, nell’eurozona c’erano i sani e i malati. I sani – Germania in primo luogo – non solo stavano bene, ma erano anche convinti che la loro salute dipendesse dalla loro virtù. Tanto da avere la tendenza a dire a quelli che soffrivano: “Ben vi sta”. Quelli che stavano peggio – fra loro l’Italia – pur riconoscendo le loro colpe, sostenevano invece che i sani avrebbero dovuto aiutarli. Se non altro nell’interesse della comunità. Ma la cosa, ammesso che fosse possibile, era molto difficile da spiegare ai popoli “ricchi”. I loro contribuenti infatti avrebbero così tradotto gli eventuali programmi di salvataggio: “Pagare per chi ha scialacquato? Noi che magari all’occasione abbiamo stretto la cinghia? Non se ne parla”. La formica di La Fontaine ha sempre la comprensibile tentazione di rispondere alla cicala: “Ah, mentre io lavoravo lei cantava? E dunque balli, ora”.
È andata così per molto tempo. Ma ora il rallentamento colpisce tutti e i segnali d’allarme sono seri. La Francia va veramente male, anche se per decenza non bisogna dirlo a voce alta; la Germania vede diminuire le proprie esportazioni e non ha più una accettabile crescita del suo pil, e insomma non sono più i “piigs”, i cattivi, a preoccupare, è l’intera fabbrica della moneta comune. Ecco perché da più parti si invocano una modificazione dei patti, un rinnovamento che coinvolga le autorità comunitarie, la Banca Centrale Europea e tutti i governi, in modo da far ripartire l’economia. Ma è un vano chicchiericcio. Finché si parla di “un piano di azione che coordini politiche monetarie e fiscali”, di “un’azione atipica di rilancio dell’economia”, come fa il Corriere della Sera, ci si esprime con ovvietà vagamente papali. E non si può certo dire che gli strumenti dell’azione concreta non sono indicati perché noti a tutti e condivisi. La realtà è che essi sono diversi, opinabili e proprio per questo molto difficili da adottare.
C’è inoltre un’importante componente psicologica. Fino ad oggi, i Paesi in difficoltà hanno riconosciuto che pagano il fio dei loro debiti, delle loro diseconomie e al limite della loro corruzione. Anche se giudicano le regole comunitarie una causa della loro interminabile crisi, non possono negare che sono loro che hanno commesso l’errore di sottoscriverle. Possono gridare “è tutta colpa dell’euro!”, ma l’euro non gliel’ha imposto a nessuno. Ché anzi – si pensi al viso compiaciuto di Romano Prodi – sul momento quella moneta è stato vista come una promozione in serie A.
Ciò rende pericoloso toccare l’attuale equilibrio. Se tutti i Paesi concordassero grandi riforme della struttura comunitaria, da un lato ci sarebbero sicuramente alti prezzi da pagare (anche da parte delle nazioni “sane”), dall’altro non è neanche sicuro che quei provvedimenti funzionerebbero, e tutti i popoli protesterebbero fieramente contro l'”Europa”. Mentre fino ad oggi hanno dato a sé stessi la colpa dei loro mali, una volta che si fosse intervenuti per guarirli, la colpa si darebbe proprio a quell’intervento. “Le nuove regole hanno favorito gli altri e hanno danneggiato noi”, “i nostri governanti si sono fatti imbrogliare”, “bisogna assolutamente buttare tutto all’aria “: sarebbe una gara a chi si lamenta di più.
Fra l’altro, il punto dirimente è il mantenimento dell’euro, che oggi sembra fuori discussione. Ma se l’errore è stato istituirlo in assenza di un’unione politica, l’errore malgrado i nuovi trattati persisterà. Perché certo non si realizzerà durante la tempesta una unione che non si è realizzata durante la bonaccia. Se al contrario la moneta comune fosse stata un’operazione azzeccata che necessita soltanto di qualche piccolo aggiustamento, come mai nessuno sa dire qual è, questo aggiustamento, e come mai non c’è unanimità, su di esso?
Se, per pura ipotesi, la soluzione fosse “la creazione di un monte di debito pubblico comune, di cui è garante la comunità”, tutti lo chiederebbero. Oggi invece una tale proposta solleverebbe più proteste che applausi. E con qualche ragione. Se ad esempio l’Italia, non correndo più il rischio del default, si mettesse a far galoppare di nuovo il debito (attualmente corre soltanto) “per rilanciare la propria economia con investimenti pubblici”, e poi non ci riuscisse, l’Olanda e la Finlandia sarebbero costrette a togliere la loro garanzia. E allora perché darla, oggi, dal momento che le conseguenze potrebbero essere disastrose? Lo stesso vale per ogni altra proposta. E infatti non c’è nessuna idea comune su come risolvere la crisi continentale.
Se navighiamo a vista da anni è perché nessuno si azzarda a dare un colpo di timone. Né l’Unione Europea né i singoli Stati. È un po’ come se tutti aspettassero che il malato guarisca da sé. Oppure che muoia, senza che però se ne possa dare la colpa ai medici.
Gianni Pardo, [email protected]
17 agosto 2014
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