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Analisi e studi

Non è una scatoletta di tonno! (di P. Becchi e G. Palma)

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Per un NO ragionato, costruttivo e non ideologico, volto a salvare il Parlamento dal lockdown della democrazia, riportiamo qui di seguito – in sintesi – dodici motivi per dire No alla riduzione del numero dei parlamentari, ampiamente argomentati nel nostro libro pubblicato a metà febbraio “Una riforma sbagliata. Dodici motivi per dire No al taglio dei parlamentari“, Gds, uscito in edizione aggiornata e corretta pochi giorni fa:

  1. NO perché è una riforma oligarchica che comprime fortemente la rappresentanza democratica ed il suo esercizio. La funzione legislativa sarà infatti esercitata da appena 600 parlamentari su ben 60 milioni di cittadini residenti. Una drastica riduzione rispetto agli attuali 945. Similare a questa riforma è quella proposta dalla loggia massonica “propaganda 2” di Licio Gelli, che prevedeva una riduzione persino meno invasiva (450 deputati e 250 senatori) e con correttivi che – quantomeno in teoria – equilibravano il taglio. Gelli proponeva altresì – parallelamente alla riduzione del numero dei parlamentari – una legge elettorale similare a quella tedesca: non è dunque un caso che, già da otto mesi, sia pronto in commissione alla Camera un progetto di legge denominato “Germanicum”, un sistema elettorale proporzionale con soglia di sbarramento al 5%, simile al sistema tedesco anche se senza i collegi uninominali. In pratica, a distanza di quasi cinquant’anni, potrebbe andare in porto nientemeno che il progetto eversivo della P2;
  2. NO perché decisioni politiche importanti finiranno per essere nella disponibilità di uno sparuto numero di eletti. Le decisioni in sede di Commissione verranno adottate a Palazzo Madama da sessioni composte non più da 20-25 senatori come accade oggi, bensì da 10-12 senatori, o anche meno. Si potrebbe arrivare persino a 6 in caso di assenze, con la maggioranza che approva con soli 4 voti. A fronte di questa criticità occorreva approvare, prima del referendum, una modifica dei regolamenti parlamentari che mantenesse la composizione numerica attuale delle Commissioni anche in caso di esito confermativo del referendum. La modifica dei regolamenti sarebbe entrata in vigore con l’eventuale entrata in vigore del “taglio”. E invece non è stato fatto nulla, tant’è che – se vincesse il Sì – la Legislatura dovrà necessariamente andare avanti finché non verranno approvate le modifiche ai regolamenti parlamentari;
  3. NO perché c’è il rischio che la figura del Capo dello Stato finisca nel perimetro decisionale dei soli partiti della maggioranza di governo. Di fronte ad una riduzione del numero dei parlamentari, al cospetto di leggi elettorali che non rispecchino la reale volontà popolare, la figura del Presidente della Repubblica potrebbe seriamente finire nella disponibilità dei capi-bastone della maggioranza parlamentare. Occorreva dunque prevedere un meccanismo di equilibrio come ad esempio quello di innalzare le maggioranze parlamentari per l’elezione del Presidente. Inoltre la riforma ha ridotto di circa il 40% il numero dei parlamentari ma non ha ridotto il numero dei delegati regionali chiamati a partecipare all’elezione del Capo dello Stato, dando a questi un peso specifico maggiore rispetto a quello delle Camere. In buona sostanza, dalla quarta votazione in avanti l’inquilino del Colle sarà eletto con poco più di 330 voti (oggi ne servono, sempre dalla quarta votazione in poi, non meno di 505);
  4. NO perché, soprattutto al Senato, la rappresentanza sarà sacrificata in modo davvero inaccettabile. L’art. 57 della Costituzione stabilisce che i senatori siano eletti su base regionale. Ciò vuol dire che, con un Senato di 200 componenti (196 quelli eletti in Italia), le liste che vedranno attribuirsi i seggi saranno solo quelle più votate, sopra il 10-15% circa, lasciando parecchie liste fuori da Palazzo Madama, anche se con consensi superiori alla soglia di sbarramento eventualmente prevista. Con meno scranni parlamentari a disposizione è evidente che, ad avere diritto all’attribuzione dei seggi su base regionale, saranno le sole liste che ottengono il maggior numero di consensi, mentre quelle minori – pur superando la soglia di sbarramento – si vedranno negare il diritto a rappresentare i loro elettori a Palazzo Madama;
  5. NO perché facilita situazioni in cui i parlamentari eletti nella Circoscrizione Estero risultino decisivi per la formazione e la tenuta dei governi, falsando il risultato elettorale nazionale. Al cospetto di leggi elettorali proporzionali, anche se con soglie di sbarramento alte, i parlamentari eletti all’Estero potrebbero risultare decisivi tanto nella formazione dei governi quanto nel ribaltone degli esiti elettorali. È già successo al Senato nel 2006 quando la formazione del governo fu possibile solo grazie ai voti determinanti dei senatori eletti all’Estero. Questo aspetto diviene ancor più marcato in un Senato numericamente ridimensionato, dove la Circoscrizione Estero – in un’aula eletta con legge elettorale proporzionale – potrebbe assumere un ruolo ancor più incisivo se non addirittura determinante;
  6. NO perché ha mantenuto invariato il numero dei senatori a vita nonostante la riduzione di circa il 40% del numero dei senatori elettivi, rendendo decisivi i primi nella formazione e tenuta dei governi. Il peso specifico dei senatori a vita è quasi raddoppiato, pertanto il loro voto sarà determinante – soprattutto se il Senato sarà eletto con leggi elettorali proporzionali – in ogni passaggio dell’aula e delle commissioni. Tale aspetto diviene ancor più critico se i senatori elettivi fossero, invece che eletti direttamente dal popolo, “nominati” dalle segreterie di partito attraverso leggi elettorali come quelle degli ultimi quindici anni, rendendo così il Senato un’aula di pochi eletti e molti “nominati”;
  7. NO perché è priva di adeguati pesi e contrappesi istituzionali in grado di bilanciare in modo adeguato la minore rappresentanza parlamentare. Riformare la Costituzione significa creare nuovi assetti istituzionali equilibrati tra loro, e non semplicemente ridurre numeri e seggi a casaccio. Siamo l’unico Paese in Europa​ ad avere due Camere che hanno le stesse funzioni. Il taglio dei parlamentari doveva essere affrontato contestualmente al superamento del bicameralismo paritario, puntando ad un Senato​ delle Regioni ridotto nei numeri.​ A fronte del taglio di circa il 40% della composizione numerica delle Camere occorreva inoltre studiare sistemi correttivi come l’introduzione in Costituzione di elementi di democrazia diretta (es. referendum consultivi e propositivi) e prevedere eventualmente anche l’elezione diretta del Presidente della Repubblica come avviene negli Usa. Nulla di tutto questo è stato fatto;
  8. NO perché lascia la procedura di revisione costituzionale alla mercé di un ridotto numero di deputati e senatori. La procedura di revisione costituzionale, dettata dall’articolo 138 della Costituzione, prevede due diverse deliberazioni di entrambe le Camere a distanza di non meno di tre mesi l’una dall’altra. Nei passaggi della prima deliberazione è sufficiente la maggioranza dei presenti, nel doppio passaggio della seconda deliberazione è invece necessaria quantomeno la maggioranza dei componenti di entrambi i rami del Parlamento. Ciò vuol dire che se in seconda deliberazione le modifiche alla Carta potranno essere approvate in teoria con appena 302 voti favorevoli (201 deputati e 101 senatori), in prima deliberazione il testo sarà licenziato con la sola maggioranza dei presenti, cioè in casi estremi con appena 101 voti alla Camera e 51 al Senato. Insomma, la Costituzione sarà sostanzialmente nelle mani dei capi-partito della maggioranza di turno;
  9. NO perché insieme a leggi elettorali che prevedono listini bloccati e candidati nominati, oppure soglie di sbarramento particolarmente alte, sottrae al popolo il diritto di essere adeguatamente rappresentato all’interno delle aule parlamentari. Sono ormai quindici anni che in Italia vigono leggi elettorali che sottraggono all’elettore la possibilità di scegliersi direttamente i parlamentari. Tanto è vero che dieci giorni fa PD e M5S hanno approvato in Commissione affari costituzionali alla Camera il testo base della nuova legge elettorale (Germanicum o Brescellum che dir si voglia) che prevede i LISTINI BLOCCATI, cioè i famosi NOMINATI. Dopo il referendum il testo passerà all’esame delle Camere. Se passasse il Sì al referendum del 20 e 21 settembre, è ragionevole pensare che la prossima Legislatura sarà composta da soli nominati. Ecco la nuova “casta”, quella pentastellata e Dem che fa delle istituzioni, in primis del Parlamento, un recinto numericamente ridotto di nuovi privilegiati. Non la “casta” è stata sconfitta, si è solo provveduto a cambiarne alcuni protagonisti;
  10. NO perché, in comparazione con altri Stati europei, l’Italia sarebbe una delle nazioni col minor numero di parlamentari in proporzione al numero di abitanti. In Francia hanno un parlamentare ogni 72mila abitanti, in Gran Bretagna uno ogni 46mila, in Svezia uno ogni 29mila, in Norvegia uno ogni 32mila. L’Italia, col taglio, ne avrebbe uno ogni 100mila. Peggio di noi, sulla carta, solo la Germania, che tuttavia presenta un sistema istituzionale di tipo federale in grado di correggere adeguatamente una minore rappresentanza su base nazionale. Coloro che invece difendono il “taglio” portando ad esempio il sistema americano, dove appena 535 parlamentari (435 deputati e 100 senatori) rappresentano ben 327 milioni di abitanti, dimenticano di dire che negli Usa è previsto come contrappeso l’elezione diretta del Capo dello Stato (che è anche Capo del Governo), attraverso il sistema dei Grandi Elettori, dove ogni Stato federato ha un notevole peso specifico. Inoltre, fatto tutt’altro che secondario, negli Stati Uniti d’America il Congresso è eletto col sistema elettorale dei collegi uninominali a turno unico, dove i territori hanno i propri rappresentanti di riferimento eletti direttamente e non nominati come accade in Italia dal 2005 in avanti. Il paragone con gli USA da parte dei sostenitori del Sì, non regge anche per un altro motivo: gli Stati Uniti d’America sono una Repubblica federale, dove ciascuno Stato federato ha propri Parlamenti nazionali composti da un numero adeguato di rappresentanti, quindi ciascuno Stato ha esclusivo potere legislativo su parecchie materie che non sono di competenza della Federazione. In Italia, invece, le Regioni non godono dello stesso grado di autonomia degli Stati federati statunitensi. Solo a titolo di esempio, la Camera dei rappresentanti dello Stato del Vermont conta ben 150 deputati su appena 625.000 abitanti, cioè un parlamentare ogni 4.200 abitanti circa;
  11. NO perché concentra la rappresentanza nelle aree più popolose del Paese, a scapito di quelle con meno abitanti ma territorialmente più vaste, ed inoltre non tutela in modo adeguato le minoranze linguistiche, tant’è che regioni come Trentino-Alto Adige, Friuli Venezia Giulia e Sardegna – dove risiedono gran parte delle minoranze linguistiche e dialettali – saranno non rappresentate adeguatamente. Il rapporto che scaturisce tra rappresentanza parlamentare e contesti territoriali a seguito dell’entrata in vigore della riforma, delinea non trascurabili effetti distorsivi soprattutto a causa dello spopolamento avvenuto negli ultimi decenni di intere aree territoriali del Paese, principalmente al Sud e nelle zone appenniniche;
  12. NO perché il rapporto tra eletto ed elettore diventerà ancora più debole e questo favorirà ulteriormente​ il distacco dei cittadini dalla politica e dalle Istituzioni, incrementando l’astensionismo. Nessuno nega che ci sia una crisi dei sistemi democratici rappresentativi​ e del Parlamento, ma è difficile pensare che questa crisi si possa affrontare indebolendo ulteriormente il​ Parlamento. Il fenomeno ormai diffuso della “fuga dalle urne”, dell’apatia politica, già presente nel nostro Paese (dal 1992 al 2018 l’affluenza alle urne nelle elezioni politiche è diminuita di oltre il 14%), continuerà ancora più forte di prima: se l’eletto – che in larga parte sarà un “nominato” – deve rappresentare un numero molto alto di elettori, è evidente che parecchi cittadini non si sentiranno più rappresentati e non andranno a votare, ritenendosi esclusi dalla partecipazione attiva e concreta alla vita democratica del Paese. Inoltre, tra i motivi che in questi decenni hanno allontanato i cittadini dalla politica, c’è pure la questione dei privilegi e dei costi delle Camere. Tant’è che una delle (poche) ragioni dei sostenitori del Sì è quello del risparmio che deriverebbe dal taglio del numero dei parlamentari: 300.000 euro al giorno dice Di Maio, vale a dire 109.500.000 euro l’anno. Numeri che gettano fumo negli occhi: se si divide la somma complessiva per 60 milioni di abitanti, il risparmio è di appena 1 euro e 83 centesimi l’anno a testa. Falcidiare la democrazia per un cappuccino l’anno a cittadino? Non proprio un’idea geniale.

Per questi motivi, oggi e domani (20 e 21 settembre) vota NO! Per salvare il Parlamento, per salvare la democrazia rappresentativa, per evitare il lockdown della democrazia.

Il Parlamento non è una scatoletta di tonno.
di Paolo Becchi e Giuseppe Palma


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