Attualità
Loro Piana, l’importanza dell’industria ed il valore del denaro
Tutti in Italia abbiamo imparato a conoscere Loro Piana, chi da patito dei tessuti di qualità come il sottoscritto, chi dai giornali la scorsa settimana, all’atto della vendita dell’ennesimo prestigioso marchio italiano a LVMH. Loro Piana è in effetti un importante riferimento del tessile abbigliamento e finanche della moda italiana: rappresenta infatti il frutto degli sforzi di almeno due generazioni, lo splendido risultato che una famiglia di imprenditori ha saputo costruire dall’inizio dello scorso secolo fino ad oggi, prima sopravvivendo ad una guerra mondiale, poi sfruttando tutto quello che ha rappresentato il made in Italy di alta qualità dai primi anni settanta fino al boom degli ultimi quindici anni.
Abbiamo imparato dai giornali che questo è solo l’ultimo esempio di alienazione di importanti pezzi dell’industria italiana, e su questo sono stati spesi fiumi di parole per cui non si ritiene di doversi dilungare oltre.
Vale invece la pensa di stigmatizzare la diversità del marchio Loro Piana rispetto ad altri pezzi della moda italiana finiti all’estero. Al contrario di Gucci, Valentino, Bulgari, Loro Piana nasce e si sviluppa come vera e propria industria tessile a tutto tondo e non solo come marchio, innovando i tessuti di alto rango con le lane superfini filate in propri insediamenti industriali con materia prima approvvigionata in proprio, poi mantenendo e leveraggiando la sua straordinaria qualità di prodotto con l’apertura negli ultimi venti anni di catene di negozi di proprietà nelle principali vie della moda. Possiamo dire che a partire da circa venti or sono la famiglia Loro Piana iniziò a seguire l’esempio di integrazione commerciale sul retail con la divisione prodotto confezionato, esempio già tracciato da uno dei marchi della moda simbolo dell’Italia nel mondo e del grande capitalismo famigliare italiano rimasto, Ermenegildo Zegna, azienda industriale tessile anch’essa biellese (Loro Piana per la precisione è valsesiana) che per prima seppe costruire la propria rete di vendita ai quattro angoli del globo, in corner aeroportuali e nelle vie del lusso.
Ora però dobbiamo porci il vero problema: LVMH con l’ultima acquisizione sta gettando le basi per la costruzione della filiera industriale del lusso che può nel medio termine sostenere la produzione necessaria a soddisfare i bisogni di tutti i marchi di alta gamma del gruppo di Arnault. Ossia, LVMH sta facendo la filiera completando con la base industriale una integrazione verticale del lusso che rischia di fare veramente paura al tessile italiano. E’ un peccato che Bankitaliaiv, nel suo ultimo rapporto – dove finalmente ha svelato il segreto di pulcinella per cui il peso maggiore nel fare impresa in Italia non è il costo del lavoro ma le tasse – non stigmatizzi questo aspetto assolutamente cruciale per il futuro industriale della moda italiana. Come è un peccato che non sia stato una volta per tutte spiegato che affermazioni secondo cui il nostro Paese si salva con il turismo possono certamente riempire la bocca ma non fanno arrivare a fine mese (è l’industria che crea il valore reale di un Paese, la Germania insegna).
Vale inoltre la pena di analizzare le conseguenze che un vendita di un così importante pezzo di industria italiana può avere, anche alla luce dei commenti di stampai anche abbastanza inaspettati, leggasi articoli sul New York Times la scorsa settimana, dove si invitano gli stranieri a comprare in Italia convincendo gli imprenditori delle nostre aziende famigliari a vendere. A parte augurarsi che tali auspici non si concretizzino, possiamo chiederci dove andranno a finire i due miliardi che sono stati incassati dalla vendita del marchio. Su questo non possiamo che fare speculazioni, ma riteniamo molto probabile che rimangano all’estero almeno per il momento, ritenendo più che probabile che gli stessi imprenditori finiscano per emigrare anch’essi. Secondariamente dovremmo chiederci dove finiranno gli utili Loro Piana una volta entrati nell’orbita del colosso LVMH: anche qui possiamo tranquillamente ipotizzare forme di ottimizzazione fiscale a livello intra europeo se non globale estremamente sofisticate rispetto a quanto le aziende famigliari si possono permettere (dubitiamo che Gruppi di questo tipo possano fare errori sullo stile della lite milionaria di Dolce e Gabbana con l’agenzia delle Entrateii, Befera, se ci sei batti un colpo). L’ultimo punto è capire cosa succederà alla parte industriale dell’azienda quando ci si troverà di fronte ad un periodo di crisi di settore, cosa che prima o poi capiterà.
Certamente non si può dire che Monsieur Arnault non rispetti il made il Italy, essendo quasi infatuato delle aziende acquisite e dell’Italia in particolare, e questo è una garanzia per la custodia dei valori aziendali di ogni azienda – italiana e non – del Gruppo LVMH. Ma la vera differenza tra imprenditoria famigliare e le multinazionali sta proprio qui: le famiglie tramandano il valore, le multinazionali lo massimizzano nell’interesse dell’azionista, che sia esso il fondo pensione norvegese, il rentier francese o il fondo di investimento americano. Ossia, il problema non è oggi, ma domani e dopo, quando l’illuminato Arnault non sarà più al timone del Gruppo e bisognerà fare ottimizzazione. Ricordiamo infatti che la multinazionale non è vero che non abbia un Paese di appartenenza: la multinazionale è del paese dove sta la propria sede, e normalmente per simbiosi il Paese di appartenenza tende a preservare il valore creato da tali Gruppi.
Ma la domanda che tutti noi dovremmo porci è il perchè di questa frenesia a comprare, possiamo dire apparentemente a qualsiasi prezzo, pezzi importanti dell’industria italiana soprattutto famigliare, come per altro auspica con una certa dose di cinismo l’articolo del NYT sopra citato. Certamente 2 mld di euro sono una montagna di soldi, e altrettanto sicuramente la famiglia non avrà più problemi di denaro per le generazioni a venire. Possiamo solo augurare alla famiglia che tali soldi siano investiti bene. Si perchè quello che ci sembra di intravedere oggi è che, in un mondo in cui la moneta è stampata a ciclo continuo – leggasi QE o prestiti BCE alle banche europee all’1% -, il valore reale sta in assets reali. E cosa c’è di più reale se non un marchio industriale riconosciuto nel mondo che macina ottimi profitti? In questi termini le aziende famigliari italiane sono effettivamente dei gioielli in gran parte grezzi, ossia che non hanno saputo o potuto risplendere appieno a causa di un difetto non tanto aziendale e di internazionalizzazione, quanto più probabilmente per una obiettiva difficoltà a creare le dovute economie di scala anche per via di mancate aggregazioni, debolezza che possiamo definire abbastanza strutturale nel paese dei campanili, oltre ad una obiettiva difficoltà tutta italiana ad accedere al credito a tassi ragionevoli, ossia per il tramite del merito aziendale e non – come invece sembra essere la norma – sulla base di criteri di affiliazione (il recente caso Ligresti, in particolare l’acquisizione di Fondiaria, è da manuale). Ossia, si può ragionevolmente pensare che per il tramite di una gestione multinazionale accentrata e strutturata si possa estrarre valore incrementale.
Certamente la cifra incassata è importante, ma se è permesso un commento personale oggi come oggi sembra più interessante avere uno strumento per conservare il valore nel lungo termine – magari incrementandolo – piuttosto che avere molti soldi in banca. In questo contesto sarebbe interessante capire cosa è stato detto dai fratelli Loro Piana durante il loro incontro con le maestranze a valle dell’annuncio della vendita, ossia le vere ed intime ragioni della cessione, potendo solo azzardare ipotesi quali la difficoltà a reperire spazi di pregio nelle principali città del mondo o il disagio associato a ripetuti controlli ed adempimenti amministrativi a cui ogni azienda nazionale è soggetta, a fronte di una burocrazia obiettivamente vischiosa.
Chi segue i mercati finanziari sa bene che il problema più grande oggigiorno è portare a casa un rendimento non negativo, in un contesto caratterizzato da obbligazioni di massimo rating che pagano tassi vicini allo zero, Bill Gross di PIMCO insegnaiii. Ossia, non vorremmo che la famiglia Loro Piana, che certamente sembra oggi aver fatto un ottimo affare (potendosi potenzialmente comprare una buona parte della Valsesia con quanto incassato), possa scoprire da qui a qualche anno che forse l’affare l’ha fatto quel volpone di Arnault. In questo contesto non possiamo che augurarci che l’Italia possa continuare a farsi rappresentare da imprenditori italiani come ad esempio Zegna, Ferrero, Ferragamo o Della Valle, imprenditori che vogliono continuare a scommettere sulla propria azienda e sul futuro delle proprie imprese italiane in Italia, e per questo è necessario fare in modo che quanto meno non vengano loro creati inutili ostacoli che possano mettere a repentaglio la loro competitività, nell’interesse anche del Paese (ricordando l’enorme burocrazia e gli assillanti adempimenti associati, auspicheremmo che anche la classe politica battesse un colpo). A questo uniamo il sogno, per quanto riguarda la moda, di una possibile aggregazione di marchi anche per il tramite di qualche forma sinergica, magari coagulando quanto resta dell’industria del settore attorno al vero re Giorgio (Armani), sperando che il vecchio Presidente della Repubblica non se la prenda troppo a male per la il gioco di parole.
Per quanto riguarda i Loro Piana, complimentandoci per la montagna di soldi incassata, possiamo solo augurare loro ogni bene ma l’azienda è stata ormai – e purtroppo – venduta al’estero e dunque fanno parte del “passato” dell’imprenditoria nazionale.
Avanti un altro.
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i Mergers & Acquisitions – NYT, Breakingviews July 10, 2013, 2:35 pm Why Italy could be fertile ground for deal makers, by Quentin Webb
ii http://www.altalex.com/index.php?idnot=63151 , Fisco: pm Milano chiede 2 anni e 6 mesi per Dolce e Gabbana
iii PIMCO Investment Outlook January 2012, Towards the Paranormal, William H. Gross
iv Banca d’Italia 072013 – n° 193 – Occasional Paper – Il sistema industriale italiano tra globalizzazione e crisi, http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/quest_ecofin_2/qef193/QEF_193.pdf#page=44&zoom=110.00000000000001,75,756
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