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Crisi

L’IMMORALITA’ DELL’IMPRENDITORE CHE DELOCALIZZA

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Georg Jellinek è spesso ricordato per la sua teoria del diritto inteso come “minimo etico”. Per esempio, i figli hanno il dovere di amare i genitori, ma se non li amano non c’è molto che si possa fare. Viceversa, se i genitori stanno morendo di fame e i figli non si curano di nutrirli, non soltanto dal punto di vista etico la cosa è orribile, ma la legge può imporre il versamento degli “alimenti”. Il massimo dell’etica (per esempio amare il prossimo) non può far parte delle prescrizioni giuridiche, il minimo dell’etica – per esempio non uccidere, non rubare e pagare i debiti – può essere sanzionato.

Questa teoria ha purtroppo una base sociologica. Ciò che farà parte del minimo etico in una data società può non farne parte in un’altra. E tuttavia – salvo credere ad un diritto naturale i cui contenuti sono comunque troppo esigui per costituire un ordinamento giuridico – questo è un difetto ineliminabile. Un secondo limite è che, se si pone la base del diritto nella morale, se pure “minima”, per ciò stesso si giunge ad imporre a tutti una concezione morale che non è di tutti. Non dimentichiamo che certe società islamiche considerano un delitto l’omosessualità. Purtroppo le persone che hanno una forte spinta etica, per giunta conforme alle idee della maggioranza, hanno spesso la decisa volontà d’imporre a tutti la loro morale. Reputano addirittura, dal momento che quella regola per loro è incontestabilmente giusta, di far così il bene delle persone che opprimono.  E anche questo è un difetto ineliminabile.

Quale che siano la natura e l’origine del diritto, rimane fermo che esso incontra un limite invalicabile nella sua concreta attuabilità. Non si può imporre che il cittadino pensi o non pensi certe cose. Si può imporre che non ne parli. Si può persino imporre che affermi cose che non crede, come avveniva sotto Stalin: ma che effettivamente pensi o non pensi certe cose non può imporlo nessuno. Queste banali considerazioni hanno delle conseguenze interessanti.

Quando un’impresa chiude o si trasferisce all’estero, è frequente sentir condannare moralmente gli imprenditori. Essi dovrebbero sentire il dovere di mantenere il lavoro in Italia; di pagare le tasse nel Paese che gli ha dato i natali; di non far perdere il salario a dipendenti che, dal momento della chiusura, non sapranno come nutrire la propria famiglia. Tutti abbiamo sentito mille volte questi discorsi. Ma è necessario porsi questa semplice domanda: il rimprovero nasce da considerazioni riguardanti il minimo etico, e conseguentemente il diritto?

Se non fa parte del minimo etico, il rimprovero diviene letteratura. Sarebbe come rimproverare ad un intellettuale la vita sedentaria: un intervento del diritto sarebbe assurdo. Se invece il comportamento dell’imprenditore che delocalizza viola il minimo etico, il problema diviene: è possibile sanzionarlo? Che cosa può fare il diritto, che cosa può fare lo Stato contro l’imprenditore che chiude, l’imprenditore che trasferisce l’impresa, quello che fallisce o, per completare il quadro, il capitalista che non investe il proprio denaro nell’impresa e l’imprenditore che non la fonda?

Purtroppo la realtà dice che in tutti questi casi lo Stato è impotente. Non può minacciare nulla a chi fallisce ed ha già subito il massimo danno. Potrebbe sequestrare tutte le attrezzature ma ciò corrisponderebbe a trattare più severamente l’imprenditore che ha provato ad operare rispetto a quello che, terrorizzato da tali possibili norme, se italiano fugge via, se straniero gira alla larga. Né lo Stato può sostituirsi all’imprenditore per poi amministrare l’impresa, perché se il padrone chiude, si può star certi che lo Stato non saprebbe far di meglio. Potrebbe soltanto perderci il denaro dei contribuenti (avendolo) pur di tenere attiva l’impresa.

La conclusione è che il rimprovero – così corrente nei talk show – riguardante l’imprenditore che chiude per qualsivoglia ragione non è giuridico, perché la legge che dovrebbe impedire questo “male” non è applicabile. Inoltre non fa neppure parte del minimo etico. Infatti attivarsi volontariamente in favore della collettività (il caso teorico di operai o di imprenditori che lavorano senza guadagnare) fa parte del livello più alto dell’etica. Tanto che, a chi formula quei rimproveri, si potrebbe chiedere se egli si senta di lanciare la prima pietra e se possa ragionevolmente affermare di avere sempre agito secondo i dettami dell’etica più raffinata e del massimo altruismo.

Quel massimo altruismo in base al quale un imprenditore dovrebbe continuare ad operare in perdita.

Gianni Pardo, [email protected]

4 novembre 2014


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