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Le proteste degli agricoltori a Bruxelles e la crisi di razionalità delle istituzioni europee (di Antonio Maria Rinaldi*)
Agricoltori contro Bruxelles: perché il Green Deal rischia di distruggere la nostra sicurezza alimentare. L’analisi di A.M. Rinaldi sulla crisi di razionalità dell’UE.

Le manifestazioni degli agricoltori europei davanti al Parlamento europeo a Bruxelles non possono essere liquidate come una reazione emotiva o corporativa. Esse rappresentano, piuttosto, un segnale di allarme sistemico che mette in luce una crescente distanza tra le politiche elaborate dalle istituzioni europee e la realtà economica dei settori produttivi. Quando un comparto strategico come l’agricoltura esprime un dissenso così diffuso e trasversale, il problema non è l’insofferenza dei produttori, ma la qualità del processo decisionale pubblico.
La Politica Agricola Comune, che per decenni ha garantito stabilità, autosufficienza alimentare e coesione territoriale, è stata progressivamente trasformata in uno strumento subordinato a obiettivi ambientali formulati in modo astratto e applicati senza un’adeguata valutazione degli effetti economici. La Commissione europea ha adottato un’impostazione regolatoria che privilegia il vincolo normativo rispetto all’analisi costi-benefici, trascurando un principio fondamentale dell’economia pubblica: le politiche sostenibili devono essere anche economicamente sostenibili.
Il Green Deal europeo, concepito come strategia di lungo periodo, è stato applicato all’agricoltura con una rapidità e una rigidità incompatibili con i tempi di adattamento dei sistemi produttivi. Riduzioni obbligatorie degli input, limiti alla produzione, nuovi adempimenti burocratici e incertezza regolatoria hanno eroso la redditività delle imprese agricole, già colpite dall’aumento dei costi energetici, dall’inflazione e dalle tensioni geopolitiche. In assenza di adeguati strumenti compensativi, il risultato è stato un trasferimento implicito di costi sulle spalle degli agricoltori.
Ancora più problematico è il contesto internazionale in cui queste politiche si inseriscono. L’Unione europea continua a sottoscrivere accordi commerciali che consentono l’ingresso di prodotti agricoli provenienti da Paesi terzi non soggetti agli stessi standard ambientali, sanitari e sociali imposti agli operatori europei. Ciò configura una distorsione del mercato che penalizza la produzione interna e contraddice i principi di concorrenza leale e di autonomia strategica che l’UE afferma di voler perseguire.
Il Parlamento europeo, pur rappresentando l’istituzione della rappresentanza democratica, ha mostrato una capacità limitata di riequilibrare l’azione della Commissione. La prevalenza di logiche ideologiche e di maggioranze costruite su obiettivi simbolici ha indebolito la funzione di controllo e di valutazione critica delle politiche adottate. Le proteste avvenute a Bruxelles testimoniano non solo un disagio economico, ma anche un deficit di ascolto istituzionale.
Il nodo centrale è di natura politica e culturale. Le istituzioni europee sembrano aver smarrito la consapevolezza che l’agricoltura non è un settore residuale, ma una componente essenziale della sicurezza economica, alimentare e sociale dell’Unione. La transizione ecologica, per essere credibile, deve essere accompagnata da gradualità, neutralità tecnologica e realismo economico. In assenza di questi elementi, essa rischia di trasformarsi in un fattore di instabilità.
Le proteste degli agricoltori non sono un rifiuto del cambiamento, ma una richiesta di razionalità. Esse pongono una questione che l’Europa non può più eludere: senza un’economia produttiva solida, non vi è sostenibilità ambientale; senza consenso sociale, non vi è legittimità politica; e senza radicali correzioni di rotta, il progetto europeo rischia di perdere il suo ancoraggio alla realtà.
Domande e risposte
Perché gli agricoltori parlano di “concorrenza sleale” da parte dell’UE stessa? Il problema risiede nella cosiddetta “reciprocità degli standard”. L’Unione Europea impone ai propri agricoltori regole rigidissime per il benessere animale, l’uso di pesticidi e le emissioni, aumentando i costi di produzione. Contemporaneamente, però, firma accordi di libero scambio con paesi extra-europei (come quelli del Sud America o dell’Africa) che possono esportare in Europa prodotti coltivati senza rispettare le stesse regole. Di fatto, l’UE favorisce chi inquina fuori dai confini, penalizzando chi rispetta le regole al suo interno.
Il Green Deal è incompatibile con l’agricoltura moderna? Non è incompatibile in linea di principio, ma lo è diventato nelle modalità di applicazione. L’errore della Commissione è stato imporre obiettivi ideologici e scadenze temporali strettissime senza valutare l’impatto economico e senza fornire alternative tecnologiche mature. Come sottolinea il testo, una politica sostenibile dal punto di vista ambientale deve esserlo anche da quello economico. Se l’azienda agricola chiude per i troppi costi, la tutela dell’ambiente cessa di esistere insieme all’impresa che presidiava il territorio.
Qual è il rischio politico per l’Unione Europea? Il rischio è una delegittimazione profonda. L’agricoltura non è un settore marginale, ma garantisce l’autosufficienza alimentare, che è un pilastro della sicurezza geopolitica. Se le istituzioni vengono percepite come nemiche della produzione e del ceto medio produttivo, si crea una frattura insanabile tra élite e cittadini. Le proteste indicano un “deficit di ascolto”: se l’Europa ignora le richieste di razionalità e realismo, rischia di alimentare instabilità sociale e di spingere l’elettorato verso posizioni sempre più euroscettiche.








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