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Economia

La Storia degli ultimi decenni della FIAT vista da insider (di Valentino Cecchetti)

Un po’ di libri, in Italiano ed Inglese, per spiegare la vita della FIAT degli ultimi decenni e la finanziarizzazione che ha preparato il disastro totale

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Nei giorni della tumulazione definitiva dei miseri resti di quella che fu la “Grande azienda italiana”, con il licenziamento “alla cieca” di Carlos Tavares e l’imminente fusione tutta francese con Renault-Nissan, è istruttivo rileggere il libro di Giorgio Garuzzo, Fiat. I segreti di un’epoca (Fazi, 2012), la storia esauriente (e avvincente) dell’azienda automobilistica di Torino dagli anni del dopo-Valletta alla crisi degli anni ’90, raccontata da uno dei massimi dirigenti dell’epoca di Gianni Agnelli.

Si va dall’entrata-uscita di Carlo Debenedetti (100 giorni), alla marcia dei quarantamila, dal licenziamento di Vittorio Ghidella, allo scontro tra Umberto Agnelli e Cesare Romiti, fino il coinvolgimento del Gruppo in Tangentopoli, ai rapporti di Gianni Agnelli con il fratello Umberto e con Romiti, all’intervento di Mediobanca.

Dopo la morte di Valletta, la Fiat si trova “in termini di managment, di prospettive e di strategie industriali” in un vero e proprio “vuoto pneumatico”. Ne esce, negli anni ’70 dell’ingovernabilità delle fabbriche e del terrorismo, aprendo le porte, grazie soprattutto allo “scouting” di Umberto Agnelli, a un gruppo di “uomini nuovi”, tra i quali Carlo Debenedetti, che porta con sé nel 1978 Giorgio Garuzzo.

Dall’ottavo piano di Corso Marconi e dall’ufficio di Debenedetti, proprio di fronte a quello di Gianni Agnelli, Garuzzo osserva la lotta all’ultimo sangue tra i nuovi manager per emergere e affermarsi. Con un solo vincitore, il “culo di pietra” Cesare Romiti, a spese del più illustre dei perdenti, lo stesso Umberto Agnelli, che resta in azienda, in posizione subordinata e defilata, solo perché non può andarsene con tutti gli altri sconfitti.

Con Romiti Fiat ritrova la compattezza e la forza industriale che la conduce a guidare di fatto la trasformazione sociale e politica del Paese, con la ritrovata governabilità delle fabbriche – la montatura della “marcia dei quarantamila”(?) – , l’abolizione della scala mobile e la nuova competitività dopo la svalutazione della lira.

E’ l’acme di Fiat, sostiene lo stesso Garuzzo, che indica nell’anno 1988 il momento culminante del ritorno al profitto e al potere dell’azienda. Ma anche l’anno in cui Cesare Romiti decide di smantellare, con l’approvazione di Gianni Agnelli, la struttura manageriale che aveva garantito il successo di Fiat e che lui stesso aveva creato. Licenzia Ghidella e ne prende il posto a Fiat Auto, emargina Umberto, con la sponda di Mediobanca, che esautora a sua volta, congelandone i diritti di voto, la famiglia.

E nel 1996 allontana anche lo stesso Garuzzo cui Romiti, a partire da Iveco, aveva affidato tutte le attività industriali del Gruppo. Questo quando Fiat deve affrontare battaglie decisive, la globalizzazione  dei mercati, il dopo-Tangentopoli, l’evoluzione verso l’alta tecnologia. Fino a qui i ricordi di Giorgio Garuzzo.

Ma la storia di Fiat continua. L’azienda piomba di nuovo nella confusione del post-Valletta e riparte la ricerca di un managment stabile ed efficace, stavolta con meno successo. Con Gianni Agnelli presidente onorario, ma nel pieno delle funzioni, non c’è spazio per Giovannino, il figlio di Umberto, inizialmente, indicato come principe ereditario dallo stesso Gianni, ma mai realmente coinvolto in Azienda e immediatamente uscito di scena, colpito da male incurabile, nel 1997  – come lo stesso figlio di Gianni, Edoardo, suicida? a 46 anni, nel 2002.

Tutto il potere resta nelle mani di Romiti e del suo amministratore delegato Paolo Cantarella, che a sua volta porta in Fiat Auto il giovane Roberto Testore,  che appare subito non adeguato, soprattutto sul piano delle strategie internazionali. Esce di scena lo stesso Romiti, nel 1998, per raggiunti limiti di età, a 75 anni, nonostante gli suoi sforzi per modificare lo statuto e terminare i suoi giorni in Fiat, come Valletta. Agnelli chiama Paolo Fresco, già fuori da General Electric anche lui per limiti d’età (è nato nel 1933), eccellente collaboratore di Jack Welch, ma privo di esperienze nel settore auto.

Il compito di Fresco è quello di sistemare Fiat Auto con un accordo internazionale, ma il settore è sorvegliato da Cantarella, che non ammette interferenze e opera sostanzialmente senza controllo. La situazione è caotica: spunta la strana “vendita differita” di Fiat Auto a General Motors (2000), che blocca ogni evoluzione del settore, che gli americani non hanno interesse a migliorare, dal momento che ogni intervento in questo senso implica un aumento del prezzo di dismissione. Mentre vengono fermati i tedeschi di Daimler Chrysler (Mercedes), che si sono fatti avanti per integrare (e inghiottire) le auto Fiat in Opel, ma con un offerta di 20 mila miliardi di lire e senza sacrificare la struttura produttiva italiana, che a differenza degli americani, non hanno alcun interesse a cancellare.

Dopo Fresco è il turno di Gabriele Galateri, già designato a quel posto dieci anni prima da Umberto. Ma anche Galateri dura solo 6 mesi e in Fiat inizia la vendita dei gioielli di famiglia: Ferrari (34%), Teksid, Fiat Avio, Fiat Ferroviaria. Poi la Toro e la Fidis. Nel 2003 muore Gianni Agnelli, con i gossip di Borsa che ne avevano anticipato la notizia di qualche mese, provocando un balzo dei titoli Fiat.

Contemporaneamente si sgretola il sistema Mediobanca, che su Fiat aveva costruito l’impenetrabile roccaforte finanziaria del paese. E un anno dopo muore anche Umberto Agnelli, cui le banche hanno chiesto di intervenire in prima persona al posto di Fresco e assumere il comando dell’azienda, cosa che gli era stata promessa dal fratello già nel 1993 e gli era stata impedita da Cuccia e da Romiti. La situazione di Fiat appare disperata.

Le banche italiane (Intesa, Unicredit e Capitalia) procedono alla “conversione” di un prestito straordinario di 3 miliardi di lire e diventano proprietarie del 25% di Fiat. La famiglia, con le manovre finanziarie di Gianluigi Gabetti su Ifi-Ifil e la creazione di Exor, sembra mantenere un controllo che al momento della successione ereditaria risulterà solo apparente. Le responsabilità industriali del gruppo passano in rapida sequenza da un uomo di transizione, Alessandro Barberis, ad un uomo forte, Giuseppe Morchio, che tenta di forzare la situazione a proprio favore e si fa nominare amministratore delegato e presidente, cosa che provoca il suo allontanamento, come era avvenuto con Debenedetti più di venti anni prima.

Con Luca di Montezemolo presidente e Sergio Marchionne amministratore delegato, nominati con il consenso delle banche e della famiglia, sembra che le turbolenze innescatesi a partire dall’uscita nel 1996 di Romiti, siano destinate a placarsi. Ma con la coppia Montezemolo-Marchionne il sistema bancario italiano si disinteressa del destino del gruppo, non mobilizzando di fatto i mezzi finanziari necessari al suo rilancio. E’ vero che General Motors (nei guai in America) si ritira dal put, pagando una penale sostanziosa, che concede alla Fiat di Marchionne un transitorio sollievo di cassa.

Ma John Elkann, cui Gabetti ha trasferito la presidenza della celebre Sapaz (Società in accomandita per azioni) di controllo, porta a termine metamorfosi del Gruppo e la completa finanziarizzazione dell’azienda, che ha ormai smarrito l’imprinting industriale, ultima fase del processo innescatosi già negli anni di Cuccia e Romiti. La fusione con Chrysler si svolge sullo sfondo delle immissioni di liquidità della Fed di Ben Bernanke che, nella necessità di sostenere i corsi azionari statunitensi, alimenta i succulenti incentivi concessi da Obama per scaricare al consenziente managment italiano (Marchionne proviene da una famiglia abruzzese emigrata nella rush belt americano-canadese) le parti ormai smembrate di un settore industriale in procinto di affrontare, almeno in Occidente, la “tempesta perfetta”.

Le stesse convulsioni familiari e giudiziarie, della famiglia, innescate dalla decisione di Marella Caracciolo (moglie di Gianni) di lasciare al solo John Elkann la propria quota della Sapaz, sottolineano come i giochi si svolgano ormai altrove, con una Exor solo al 14% coinvolta nei valori azionari di Stellantis e messa al sicuro nelle grandi reti finanziarie anglo-franco-americane (tra i Rothschild e la Lazard) che hanno nascosto, forse da sempre, i veri signori dell’azienda italiana. Anche questi sono “segreti di Fiat”. Ma è un’altra storia.


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