Attualità
La riforma costituzionale sottoposta attualmente al referendum confermativo (di Franco Mencarelli)
La riforma costituzionale oggetto del referendum confermativo è stata presentata come naturale sviluppo di quella serie di progetti susseguitesi nel tempo volti alla riduzione del numero dei parlamentari, al fine di snellire l’attività del Parlamento eliminando le vischiosità di assemblee ritenute eccessivamente pletoriche.
Una finalità di semplificazione cui per altro si è ora accompagnato da parte di molti dei sostenitori della riforma un forte richiamo circa i risparmi economici in tal modo ottenuti, con il venire meno di una parte significativa dei trattamenti economici dei parlamentari.
Al netto di questi pretesi risparmi, comunque non in grado da giustificare di per sé la riforma va tuttavia osservato che i progetti di riduzione del numero dei parlamentari formulati in passato si accompagnavano ad una serie di interventi volti ad assicurare un adeguato inserimento della riduzione in più ampi interventi, caratterizzati anche da una diversificazione dei compiti affidati alle due camere e da una nuova articolazione dei rapporti tra Stato centrale e regioni.
L’attuale riforma nulla in tal senso ha previsto.
Non solo: nel frattempo sono in corso proposte di revisione costituzionale che vanno tra l’altro ad incidere anche sulla riduzione dell’età dell’elettorato attivo e passivo al Senato, prospettando un’accentuazione degli aspetti negativi del doppione di funzioni delle due Camere, di guisa che, ove condotte in porto tali proposte, si porrebbe di nuovo la questione di una riforma del sistema bicamerale e quindi di una ulteriore rivisitazione della tematica del numero dei parlamentari.
Il fatto è che quella in esame è una riforma la quale andrebbe tutto al più impostata alla fine di un complessivo processo di riforma costituzionale, mentre così isolata investe direttamente nodi centrali del nostro sistema istituzionale, senza per altro dare adeguata sistemazione agli effetti che su tali nodi essa ha inevitabilmente.
In primo luogo infatti la riduzione dei parlamentari determina un’alterazione significativa degli equilibri interni al corpo elettorale in sede di elezione del capo dello Stato, poiché se vengono ridotti a 600 gli oltre 900 parlamentari finora facenti parte del corpo, i rappresentanti delle regioni assumono un peso non indifferente atteso che superano i 50 componenti.
Ma fatto ancor più grave è la mancata valutazione degli effetti che la riforma assume sugli equilibri territoriali che il costituente ha voluto realizzare con l’introduzione del sistema regionale.
In proposito va ricordato che il testo della Costituzione del 1948 istituiva un rapporto diretto tra la popolazione residente e i suoi rappresentanti in Parlamento( un deputato ogni 80.000 elettori ed un senatore ogni 200.000) di modo che i componenti di Camera e Senato variavano in base all’incremento della popolazione.
Da un preciso rapporto numerico tra elettori e propri rappresentanti anche l’evidenziazione di una forte accentuazione del valore di tale rappresentanza con riferimento al territorio di elezione.
Questo raccordo con il territorio assumeva sin dal principio una particolare declinazione venendosi a stabilire che ( a parte la Valle D’Aosta) ogni regione avesse almeno 6 senatori: in proposito militavano evidenti ragioni connessi ai forti squilibri territoriali presenti allora ( e ancor oggi ) nel nostro Paese e dalla connessa esigenza di dare uno spazio più consistente alle regioni più piccole potenzialmente svantaggiate nei lavori del Senato da interessi coalizzati di regioni numericamente più rilevanti.
L’ impostazione fu confermata dalla successiva riforma del 1963 che fissando definitivamente in 630 il numero dei deputati e in 315 quello dei senatori( a parte quelli di nomina presidenziale) ha non solo istituzionalizzato lo stretto rapporto anche numerico tra elettori, territori ed eletti, ma ha su questa linea addirittura portato a 7 il numero minimo dei senatori per ogni regione (a parte la Valle D’Aosta e il Molise) donde la possibilità concessa alle regioni più piccole , sulla base del regolamento del Senato, di arrivare a costituire almeno fino a 2 gruppi parlamentari, con i connessi poteri previsti dagli strumenti regolamentari per i Gruppi e tali da incidere sullo stesso svolgimento dei lavori parlamentari.
Con l’attuale riforma costituzionale si riduce invece fortemente la posizione delle regioni più piccole per le quali il numero minimo di senatori (3) previsto finisce con il rendere del tutto minimale il loro peso.
Quanto sopra rilevato in ordine ai problemi irrisolti posti dalla riduzione del numero dei parlamentari senza una previa valutazione del loro impatto sistemico, consente di arrivare a conclusioni assai drastiche circa la necessità di non confermare la riforma.
Conclusioni che si legano al fatto che con la riforma si incide dunque profondamente – come accennato – su uno dei principi portanti del nostro sistema costituzionale: quello dello stretto rapporto esistente tra elettori e i territori in cui essi risiedono con i parlamentari da eleggere.
Lo attesta non solo l’originaria previsione della Costituzione del 48 laddove fissava un preciso rapporto quantitativo tra elettori ed eletti sia alla Camera sia al Senato.
Previsione – lo si ribadisce – del resto coerentemente mantenuta dalla riforma del 1963 che ha solo stabilizzato il numero dei componenti del Parlamento stante anche un sostanziale assestamento della curva di accrescimento demografica, mantenendo in pratica immutato il rapporto numerico tra eletti ed elettori.
Ma lo attesta soprattutto la situazione determinata dalla riduzione dei parlamentari recata dalla riforma del 2019. Infatti non solo ma si è inciso ancor più profondamente sull’equilibrio tra regioni più grandi e più piccole nell’ambito della composizione del Senato; ma si è incisa ancor più profondamente nel rapporto tra i collegi in cui va ripartito il corpo elettorale. E ciò viene altresì in particolare evidenza per quanto concerne l’elezione per la Camera dei Deputati, dove l’inevitabile ampliamento delle circoscrizioni in cui si collocano i collegi, resi forzatamente più ampi in conseguenza della riforma, finirà con il privare interi territori e gli elettori relativi dalla rappresentanza parlamentare.
E che non si tratti di una mera ipotesi emerge dalla legge n. 51 del 2019, che per consentire un pronto adeguamento del sistema elettorale alla riduzione del numero di parlamentari, ha riprodotto la previsione della possibilità di scostamenti del 20% in più o in meno del numero di elettori dei singoli collegi.
Questa disposizione già prevista nella legislazione precedente, era comunque attenuata dal numero dei parlamentari previsto all’epoca.
Nella prospettiva della nuova riforma la disposizione si appalesa oramai tale da incidere profondamente su uno dei pilastri della democrazia: la sostanziale parità del voto degli elettori in ordine all’elezione dei propri rappresentanti e l’esigenza che vi siano una adeguata rappresentanza dei territori di residenza degli elettori.
In tal modo appare chiara la violazione del disposto dell’art. 139 della Costituzione qui come più volte precisato dalla Corte Costituzionale, l’affermazione che la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale sta ad indicare che non possono essere oggetto di revisione i principi fondamentali della Costituzione.
E tra questi rientra certamente il principio della parità fra tutti gli elettori in ordine alle elezioni e il principio della necessaria rappresentatività nei territori.
Franco Mencarelli
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