Attualità
La questione Ankara può accelerare i problemi dell’euro di Fabio Dragoni e Antonio M. Rinaldi
278, il valore più alto da maggio, ai tempi della famosa notte dei troll contro Sergio Mattarella. La crisi turca fa scendere tutte le Borse (Milano alla fine contiene le perdite a -0,58%) e salire gli spread in tutta Europa. L’Italia torna appunto a sfiorare quota 280 punti, ma anche Francia, Spagna, Portogallo, Irlanda, corrono con rialzi in proporzione maggiori del nostro (che in termini assoluti resta però più elevato).
Recepp Erdogan torna ad attaccare gli Stati Uniti mentre la divisa turca continua la sua picchiata, e alla chiusura di questa edizione quota 7 sul dollaro.
In Italia dunque si torna a ballare alla musica dello spread. Ma perché questo accade? E che conseguenze può determinare per i nostri risparmi? Occorre un passo indietro per provare a capirlo. Fino al 25 luglio 2012. Mario Monti si era insediato a Palazzo Chigi da 251 giorni.
Doveva «salvare il Paese». Regalerà al Paese tredici trimestri consecutivi di recessione, 140 miliardi di debito pubblico in più, un aumento dei concittadini in povertà assoluta da 2,62 milioni a 4,42 milioni quando lascerà l’incarico.
L’Italia era avvolta nell’incubo dello spread e le manovre lacrime e sangue sembravano non aver sortito effetti. Lo spread era di nuovo oltre i 500 punti base. In quel giorno Mario Draghi pronuncia il discorso che passerà alla storia: «Pur di salvare l’euro faremo tutto quanto necessario e credetemi… sarà sufficiente». Era l’annuncio che la Bce di lì a poco avrebbe iniziato stimoli di politica monetaria non convenzionali: avrebbe «stampato» quasi 2.500 miliardi per acquistare titoli del debito pubblico dell’eurozona per far tornare i tassi di interesse ai livelli desiderati. Gli acquisti ripresero e i tassi crollarono. Dovevano essere salvate le banche spagnole fiaccate dalla crisi immobiliare. L’Unione europea (di cui siamo i terzi contributori netti) mise a disposizione di Madrid circa 40 miliardi per ricapitalizzare le sue banche.
Oggi il copione sembra di nuovo pronto per essere recitato senza correzioni. Gli istituti di credito spagnoli hanno prestato alla Turchia circa 80 miliardi di euro che difficilmente torneranno a casa: Ankara ha un debito estero di controvalore superiore a 450 miliardi di dollari. Imprese e banche provano a vendere lire turche per acquistare euro o dollari per poter onorare il loro debito, ma il mercato non ci crede e gli acquirenti di valuta domestica latitano. Se per acquistare un euro nel 2017 servivano 4 lire, oggi il conto sale ad oltre 7,50. Chi si farà più male, la Turchia o le banche europee? Vista dalla prospettiva turca, la svalutazione potrebbe essere un’occasione per rilanciare il proprio export.
Nel 2017 occorrevano circa 4 lire per acquistare un euro, e un forno da cucina prodotto da uno stabilimento in Turchia (ad esempio, l’Italiana Candy ne ha uno da quelle parti) del valore di 2.000 lire turche in Europa veniva venduto a 500 euro. Con l’attuale svalutazione il suo prezzo scenderà per le nostre tasche a meno di 270 euro rendendo quindi il made in Turchia molto più competitivo. Ovviamente la svalutazione ha un impatto anche dal lato dei costi di produzione.
Supponiamo, esagerando volutamente, che l’incidenza del costo delle materie prime sia pari al 50% del prezzo e che tutte le materie prime siano acquistate all’estero in euro. Ciò significa che, se prima della svalutazione le materie prime necessarie a costruire l’elettrodomestico in questione costavano 1.000 lire (50% di 2.000), pari a 250 euro (1.000/4), dopo la svalutazione i costi di approvvigionamento aumenteranno a 1.875 lire (250 euro x 7,50).
L’aggravio nei costi di approvvigionamento di materie prime per produrre elettrodomestici è quindi pari a 875 lire. Supponiamo che il produttore decida di aggiungere tutte le 875 lire al prezzo del forno, che quindi costerà 2.875 lire turche anziché 2.000 come prima. Il suo prezzo in euro passerà pertanto da 500 euro a 383 euro. La «magia» della svalutazione monetaria rende comunque il prodotto turco più conveniente, così come sarà ancor più conveniente produrre da quelle parti per le imprese europee che vorranno delocalizzare.
Si vedranno presto in giro molte meno Volkswagen, Bmw, Mercedes e Audi, ma in compenso i turchi troveranno molto più conveniente acquistare le Fiat Tipo e Doblò e le Renault Clio prodotte negli stabilimenti di Bursa nel sud del Mar di Marmara. Le banche europee (spagnole) dovranno svalutare i loro crediti in euro e quindi falcidiare utili. Una svalutazione del 50% comporterebbe il vedere andare in fumo tutti gli aiuti che l’Europa ha dato alle banche spagnole nel 2012 (anche con soldi nostri!). La Bce dal canto suo non è più disposta a stampare euro, mentre Draghi sta per lasciare Francoforte e i populisti euroscettici sono in crescita, se non al governo. Va inquadrato così il tweet di ieri sera del presidente della Commissione bilancio, Claudio Borghi: «O arriverà la garanzia Bce o si smantellerà tutto… Non vedo terze vie».
Fabio Dragoni e Antonio M. Rinaldi, La Verità 14 agosto 2018
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