Attualità
La proposta di Savona non è un esproprio socialista ma un nuovo Piano Marshall di F. Dragoni e A.M. Rinaldi
Nei primi due mesi da ministro degli affari europei Paolo Savona ha svelato i punti su cui concentrerà le prossime trattative a Bruxelles: trasformare la BCE in prestatore e garante dei debiti pubblici dell’eurozona e realizzare una sorta di nuovo piano Marshall da 50 miliardi l’anno. Due misure radicali che farebbero evolvere l’eurozona e la stessa UE in un qualcosa di più sostenibile ed equo.
Una nuova Banca Centrale Europea. Il Giappone ha un debito pubblico superiore al 250% del PIL ma paga interessi sui titoli a 10 anni pari a zero. Il Regno Unito dal canto suo si è permesso il lusso di un referendum sulla sua permanenza in UE cui sono seguiti contestatissimi negoziati per un divorzio consensuale con Bruxelles e, ciò nonostante, paga a 10 anni un interesse pari a meno della metà rispetto ai nostri BTP. Entità del debito e tensioni politiche sono i due incubi che -a detta del pensiero unico dominante- possono far esplodere la stabilità delle nostre finanze. Ma questo teorema non sembra valere né a Tokyo né a Londra dove nessun analista osa mettere timidamente in discussione la solvibilità del loro debito. Giappone e Regno Unito possiedono infatti (direttamente o meno) una Banca Centrale che emette e quindi controlla la loro moneta e che più o meno di concerto con i rispettivi esecutivi decide quanta parte del debito acquistare ed a quale tasso. L’emissione di titoli di stato non serve esclusivamente a reperire le risorse necessarie a finanziare la spesa o rifinanziare il debito in scadenza, ma a determinare anche il livello dei tassi di interesse cui si adatteranno gli altri segmenti del mercato dei capitali. Un’operazione di politica monetaria più che fiscale diversamente da quanto invece accade nei Paesi dell’eurozona interdetti dal controllo della propria moneta e quindi costretti a racimolare sui mercati dei capitali ogni singolo centesimo loro necessario al pari ed anzi in concorrenza con imprese, banche e famiglie.
La proposta di Savona è tanto elementare quanto radicale: basterebbe che la BCE dichiarasse (notate bene “dichiarasse”) che, per un efficace funzionamento dei canali di trasmissione della politica monetaria, non è più disposta a tollerare differenziali di rendimento superiori ad esempio ai 100 bp fra i vari decennali dell’eurozona che immediatamente gli investitori -consci che Francoforte avrebbe mezzi illimitati- si tranquillizzerebbero restituendo ai mercati quella serenità tale da impedire ogni possibile futura tensione sui rendimenti dei titoli sovrani. Per intendersi un “whatever it takes” atto secondo. Ovviamente convincere i nostri partner sarà tutt’altro che una passeggiata.
Un nuovo piano Marshall. Savona propone anche di rilanciare la domanda interna con un piano straordinario di investimenti pubblici in un Paese con infrastrutture fatiscenti e bisognoso di mettere in sicurezza il suo territorio. Il confronto dei numeri con il resto dell’eurozona lascia del resto impalliditi. Dal 2001 al 2017 i nostri investimenti pubblici sono stati mediamente pari al 2,7% rispetto all’oltre 3% dell’eurozona. Una differenza apparentemente infinitesimale ma che nell’arco di 17 anni si materializza in oltre 95 miliardi di mancati investimenti. Quanto sarebbe cioè stato sufficiente a costruire poco meno di 1.600 km di ferrovia ad alta velocità (in aggiunta agli attuali 950 circa) o -se preferite- 900 ospedali di ultima generazione in più.
Ebbene Savona quantifica il suo piano Marshall in un iniziale importo 50 miliardi. Ad oggi infatti il nostro Paese, nonostante una moneta artificialmente sopravvalutata nei confronti della Germania, vanta ancora un considerevole surplus commerciale a riprova della vitalità del nostro tessuto produttivo che riesce ad esportare più di quanto importa proprio per circa 50 miliardi. Savona sa che l’attuazione di un siffatto piano determinerebbe tre importanti conseguenze sulla nostra economia: (a) aumenterebbe la domanda interna in misura pari a quasi il 3% visto che ogni novella matricola in economia sa che una delle componenti del PIL sono proprio gli investimenti pubblici che a loro volta (b) alimenterebbero ulteriormente la crescita attraverso maggiori consumi privati. In questi verrebbero infatti spesi i salari pagati dalle imprese ingaggiate nell’opera di sistematico ammodernamento di strade, scuole e ferrovie e quant’altro. E’ il cosiddetto moltiplicatore keynesiano che il solito studente di economia sarebbe in grado di spiegarvi; (c) tuttavia ripartirebbero anche le importazioni a motivo dei maggiori consumi e di una moneta artificialmente forte che renderebbe conveniente importare prodotti soprattutto dalla Germania. E questo però mitigherebbe i predetti fattori di crescita come infatti si è puntualmente verificatonella ripresa immediatamente successiva alla crisi del 2008. Di qui la determinazione di un plafond annuo pari all’importo del nostro attuale surplus commerciale e quindi tale da non mettere prudenzialmente in pericolo la nostra bilancia dei pagamenti che potrebbe tutt’al più chiudere in pareggio. Pertanto l’idea è quella di “controbilanciare” il surplus estero con la richiesta alla UE di poter spendere il medesimo importo, per l’appunto 50 miliardi, in investimenti pubblici produttivi ad utilità pluriennale scorporandoli dal computo del deficit.
Il Piano Savona è quindi rivoluzionario. Gli investimenti devono essere correlati al surplus delle partite correnti anziché ai saldi di finanza pubblica nella ragionevole certezza che questo attiverà un moltiplicatore tale da produrre un ulteriore aumento del PIL, nonché una più equa distribuzione del reddito così da incentivare i tanto sperati consumi interni e di conseguenza un abbassamento del rapporto con il debito, un aumento del gettito fiscale e per ultimo, non meno importante, l’innalzamento del tasso di occupazione. Resta solo da capire come e perché tanti blasonati professori abbiano frettolosamente liquidato il Piano Savona definendolo “esproprio socialista” e facendo quindi intendere che quei 50 Mld sarebbero stati reperiti “saccheggiando” i conti correnti (non si sa bene poi come!) di quelle aziende esportatrici! Un po’ più di onestà intellettuale e di conoscenza di macroeconomia non guasterebbe!
Fabio Dragoni e Antonio M. Rinaldi
Milano Finanza, 24.7.18
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