Attualità
In principio era una strada, oggi è una rendita finanziaria garantita. E l’italiano paga.
di Davide Gionco
Il 21 settembre 1924 veniva inaugurata la prima autostrada d’Europa, la Milano-Laghi.
Al tempo in Italia non c’era molto traffico. Nel 1923 erano stati recensiti un totale di 84’687 veicoli. Nel 1926 sulla tratta Milano-Laghi fu registrato il passaggio di 1’115 veicoli al giorno, una media di 46 veicoli all’ora.
Fin da subito le autostrade furono a pedaggio, in quanto venivano intesa come un “extra” rispetto alle strade ordinarie, delle strade per le quali lo Stato aveva investito molte risorse a beneficio di pochi utilizzatori, i quali potevano permettersi il “lusso” di pagare le 17 lire di pedaggio per la propria auto da 20 CV, guadagnando tempo sul viaggio.
Il meccanismo del pedaggio è andato avanti per i decenni a seguire, con l’idea che i pedaggi dovevano a servire per ammortizzare i costi di costruzione e di manutenzione delle autostrade. Questo mentre per le strade ordinarie le spese di investimento e di manutenzione sono state coperte dalla fiscalità generale (bollo auto, ecc.).
Come si dice… “chi ha dato ha dato e chi ha avuto ha avuto”. Così sono passati quasi 100 anni dall’inaugurazione della prima autostrada, ma non si è mai pensato di adeguare il sistema di finanziamento alla reale funzione della rete autostradale.
Oggi le autostrade garantiscono l’accessibilità a molti luoghi turistici, garantiscono tempi accettabili di trasporto per le merci, consentono alle nostre città di alleggerire, almeno in parte, il carico del traffico. Oggi le autostrade non sono un “lusso per pochi”, ma sono una infrastruttura fondamentale e strategica per l’economia italiana, di cui beneficiano, direttamente o indirettamente (ad esempio facendo la spesa), tutti gli italiani.
C’è quindi da chiedersi prima di tutto se abbia ancora un senso finanziare la costruzione e la manutenzione delle autostrade tramite il pagamento di pedaggi. Se i costi fossero supportati dalla fiscalità generale o da una “vignetta” adesiva come avviene in molti altri paesi europei, si risparmierebbero o costi dei sistemi di esazione, nonché il tempo perso nelle cose ai caselli.
Il sistema dei pedaggi costituisce una gallina dalle uova d’oro di cui le grandi banche, per tramite di alcuni imprenditori come i Benetton, i Gavio, i Toto, ecc. hanno approfittato a nostre spese, naturalmente con il pieno sostegno della classe politica. E’ stato appurato come negli ultimi 20 anni le società che dispongono della gestione delle autostrade siano state costantemente e particolarmente generose con tutti i partiti.
Era l’anno 2000 quando Prodi e D’Alema, in ossequio all’ideologia neoliberista, decisero a nome degli italiani che “il privato è più efficiente del pubblico”, per cui privatizzarono la gestione delle autostrade.
Se prima avevamo delle semplici strade da mantenere ed adeguare, dall’anno 2000 la “gestione” è stata trasformata in un business. Qualcosa che prima aveva solo il valore d’uso delle autostrade a beneficio degli italiani, fu trasformata in una “rendita garantita” a vantaggio di chi ne deteneva il monopolio.
Lo Stato racimolò qualche miliardo dalla messa in vendita del monopolio sulla gestione delle autostrade, dando in cambio il diritto – di fatto – ad aumentare i pedaggi e ad “ottimizzare” i costi di gestione, ad esempio tagliando sulla manutenzione di ponti e tunnel.
L’acquisto della concessione avvenne per lo più tramite il meccanismo del “leverage buyout”. In sostanza gli acquirenti costituivano una società, si facevano prestare dalle banche il denaro per acquistarla, pagavano la concessione, quindi trasferivano il debito nella società stessa, con un piano di rientro assicurato dai pedaggi e dai tagli alle spese di gestione.
La morale dell’operazione è che la rendita dei pedaggi certi, perché gli italiani non possono fare a meno delle autostrade, è servita e serve tutt’ora a garantire gli utili delle banche, ovvero la restituzione dei prestiti più gli interessi, e grassi guadagni agli amministratori ed agli azionisti della società.
Quello che in principio era una strada con dei semplici costi di gestione è stato trasformato in un complesso meccanismo di rendita finanziaria.
Poi il 14 agosto 2018 avviene l’irreparabile: crolla il ponte Morandi di Genova, con relativo seguito di 43 morti, disabili permanenti, feriti, con relativi gravissimi danni all’economia della città di Genova e dell’Italia intera.
A quel punto si scopre che la società Autostrade per l’Italia, di proprietà di Atlantia SpA, per molti anni aveva macinato utili tagliando le spese di gestione ben al di sotto del minimo necessario. All’interno del governo, prima del Conte I, poi del Conte II, si avvia il dibattito per togliere alla società la gestione dei 3000 km di tratte autostradali.
Come noto la questione non si è ancora conclusa.
I problemi sono molti.
Se la concessione viene mantenuta si dà uno schiaffo in faccia alle persone colpite dalla tragedia di Genova, consentendo a coloro che per anni si sono arricchiti indebitamente a spese degli italiani, senza neppure rispondere dei danni causati (oltre ai danni del crollo del Morandi anche gli eccessivi pedaggi a carico dei viaggiatori e del trasporto commerciale), di continuare a fare utili sulle nostre spalle.
Se la concessione viene tolta, evidentemente si avrà il fallimento di Autostrade per l’Italia e di Atlantia, che nei mesi scorsi aveva già perso importanti concessioni in Spagna. Ma se falliscono queste società, registrano perdite anche le banche che hanno loro prestato denaro e i fondi pensione internazionali che hanno acquistato azioni di Atlantia.
Nel caso delle banche, le perdite miliardarie potrebbero portare al fallimento delle banche, il che porterebbe ad un intervento dello Stato per salvare i risparmi dei correntisti. Nel caso dei fondi pensione internazionali, le pressioni estere sul governo diventano sempre più forti.
Nonostante i proclami di Giuseppe Conte dei giorni scorsi, al momento non è per nulla chiaro come la storia andrà a finire.
Si parla di un aumento di capitale con l’ingresso di Cassa Depositi e Prestiti, una banca pubblica, che dovrebbe diventare proprietaria della maggioranza delle quote azionarie.
Ovvero: la banca pubblica dovrebbe accantonare del denaro sottraendolo ad altri investimenti pubblici (scuole, ospedali, strade, ecc.) per immobilizzarlo nel capitale di Autostrade per l’Italia. In questo modo le quote di proprietà di Atlantia diventerebbero di minoranza, facendo tornare la gestione dei 3000 km di tratta autostradali allo Stato.
Nello stesso tempo, in questo modo, si eviterebbero le perdite ai danni dei Benetton, delle banche, dei fondi di investimento internazionali. C’è anche chi parla dell’ingresso si altri investitori internazionali che acquisterebbero delle quote azionarie di Autostrade per l’Italia.
In questo modo si mantiene in piedi il meccanismo della rendita, pagato dagli italiani.
Perché le rendite non si toccano, dato che chi fa le rendite foraggia la politica.
Oltre a questi aspetti finanziari ci sono degli aspetti contrattuali: i contratti che regolano i rapporti fra proprietario (Stato) e concessionario sono stati scritti sotto lo sguardo “benevolo” di politici compiacenti (quelli che ricevevano i finanziamenti ai partiti da parte dei concessionari), per cui sono contratti di concessione fino al 2038 pieni di clausole vessatorie in caso di recessione anticipata, naturalmente ai danni dello Stato, e piene di “ombrelli protettivi” a favore del gestore.
Se ai tempi delle autostrade a gestione pubblica la corruzione passava attraverso le gare d’appalto, negli ultimi 20 anni è passata attraverso le clausole contrattuali delle concessioni. La corruzione negli affari pubblici non si elimina privatizzando i servizi pubblici, semplicemente si esercita sotto altre forme.
Alla fine di questo excursus politico-finanziario sarebbe utile ritornare all’inizio della storia, dopo essere stati ipnotizzati dal gioco delle 3 carte della finanzia speculativa: stavamo parlando di un sistema di autostrade pubbliche di utilità pubblica, nato per consentire agli italiani di spostarsi agevolmente sul territorio, la cui unica utilità dovrebbe essere questa. E invece continuiamo ad avere a che fare con soggetti non interessati alla viabilità (basti vedere in quali condizioni fanno viaggiare in questi giorni gli automobilisti in Liguria o fra le Marche e l’Abruzzo), ma unicamente interessati a fare utili finanziari.
Sarebbe ora di porre fine a tutto questo. Le strade devono essere delle strade, non dei meccanismi di rendita finanziaria.
E non è vero che “il privato è più efficiente del pubblico”. Il privato è efficiente solo per fare i propri utili, per cui tenderà a minimizzare le spese a proprio carico ed a massimizzare il costo dei pedaggi, senza il minimo interesse per le ricadute economiche sulla popolazione e sull’economia del paese.
Se vogliamo che la rete autostradale sia un servizio pubblico utile all’economia del paese è necessario che venga totalmente ri-nazionalizzato, in modo che la sua gestione tenga conto delle esigenze complessive del paese e non solo delle esigenze degli azionisti o delle banche di turno.
Per quanto riguarda le banche e gli investitori, se hanno voluto investire in attività a rischio, si facciano carico dei rischi, come prima si sono volentieri fatti carico dei lauti margini di rendita.
Le perdite di pochi saranno ampiamente compensate dai vantaggi per tutta l’Italia: eliminazione dei pedaggi e dei caselli, manutenzione adeguata coperta dalla fiscalità generale, riduzione dei tempi di percorrenza, estensione della rete autostradale anche nelle aree del paese che trarrebbero vantaggio economico da questo, senza calcoli di ritorno finanziario immediato per gli investimenti.
Le strade devono servire a fare le strade, non alla finanza.
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