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Il ricatto, i post comunisti e la linea della fermezza: vi ricorda qualcosa?

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Facciamo uno sforzo ai limiti del sovrumano: proviamo a capire le ragioni del Partito Democratico e dei suoi esponenti resisi protagonisti della baracconata chiamata  “delegazione di parlamentari sulla Sea Watch”. Se facciamo questo sforzo titanico, forse potremmo riuscire in un’impresa ancor più memorabile: comprendere perché la stragrande maggioranza degli intellettuali italiani si è schierata, con argomentazioni pelose, a favore della famosa “capitana” e dei parlamentari del PD. Lo sforzo è straordinario perché tutte la logica, la ragionevolezza, il buon senso politico del mondo militano a favore della linea della fermezza: la ONG titolare della  barca tedesca, battente bandiera olandese, ha ricattato uno stato sovrano dopo aver violato una sfilza chilometrica di leggi interne e internazionali. Lo ha fatto accampando ad alibi la salvezza  dei proverbiali “poveri migranti” i quali avevano, in precedenza e con buona probabilità, pagato fior di quattrini a qualche banda di trafficanti di uomini per poter approdare sul suolo europeo.

La capitana, pur plurilaureata e plurilingue, è la rondella (inconsapevole o meno) dell’ingranaggio di una filiera di sfruttamento il cui terminale di approdo sono i porti italiani. Dunque, rispondere no al ricatto non era solo una scelta comprensibile; era l’unica scelta legale, razionale, dignitosa  e rispettosa di tutte le parti in causa: era rispettosa delle leggi, tra l’altro in un’epoca storica in cui ci ossessionano, mane e sera, con il “culto della legalità”;  era rispettosa dei cittadini italiani che sono giustamente stanchi di veder violato impunemente il proprio territorio dai buoni samaritani di altri paesi europei;  infine, era rispettosa dei migranti ai quali è stata comunque garantita l’assistenza alimentare e sanitaria continuativa in attesa di una risoluzione “comunitaria” (e quindi condivisa con gli amici della UE) della vicenda.

Eccoci al dunque: proprio qui  è scattato il corto circuito logico-emotivo nel PD e nell’intellighenzia italiana. Esso è così sunteggiabile: a dispetto di tutto –  e ad onta di tutte le ottime, e inoppugnabili, ragioni di cui sopra –  avrebbe dovuto comunque prevalere, a sentir loro, un generico e forse malinteso “sentimento” di umanità. Quest’ultimo avrebbe dovuto tradursi nel dovere morale, addirittura pre-giuridico, di accogliere intanto i passeggeri della Sea Watch e di mettersi poi a ragionare sui massimi sistemi, sulle soluzioni internazionali, sulle strategie di lungo periodo. Tradotto brutalmente: tra ragione (anche quella di Stato) e sentimento, deve sempre trionfare il sentimento. Va da sé: diamo momentaneamente per scontato che l’iniziativa dei deputati e il sostegno corale della grande stampa italiana siano sinceri, e quindi non adulterati da secondi fini strumentali; tipo quello di  mettere in difficoltà la maggioranza di governo. Se lo diamo per scontato e adottiamo la loro “mappa del mondo”, insomma se la mettiamo su questo piano (il “loro” piano), allora hanno ragione Del Rio & Company e tutti gli opinionisti di supporto.

Ma non è mica finita qui. Adesso, con paziente metodo socratico dovremmo chiederci: è proprio vero che il sentimento deve prevalere sulla ragione, sempre e comunque, a dispetto della Costituzione e delle leggi? La risposta ce l’ha sulla punta della lingua chiunque abbia un briciolo di cultura giuridica e di elementare sensibilità politica ed è: no. Ci sono situazioni in cui il bilanciamento di tutti i fattori in gioco, in una situazione complessa, depone a favore della ragione a costo di mettere a bagno maria, in via temporanea, il sentimento. E ciò vale massimamente in un caso come quello di cui stiamo parlando dove la capitolazione all’emotività si rivela un cedimento inaccettabile sul piano dei principii.

I migranti non dovevano sbarcare perché la linea del governo, fin dal suo insediamento, si basa su un granitico principio: stop irrevocabile alla tratta di esseri umani, soprattutto se perpetrata con patenti violazioni di diritto ai limiti, o oltre i limiti, del ricatto. Questa linea funziona solo se viene sistematicamente rispettata, senza tentennamenti. Ergo, ci troviamo in una di quelle situazioni in cui persino l’istintivo afflato di umanità per le vittime poteva e doveva essere “gestito”, calibrandolo con le superiori esigenze della ragione e dei principii. I migranti sulla Sea Watch andavano assistiti, curati, alimentati in attesa di una soluzione che coinvolgesse le autorità europee e gli altri stati dell’Unione. Tuttavia, essi non dovevano sbarcare perché ciò avrebbe implicato la legittimazione di un vero e proprio attacco alla principale, e non recusabile, prerogativa di uno Stato sovrano: quella di potere, e dovere, difendere i propri confini e di decidere se, e chi, accettare all’interno del proprio territorio.

Piegarsi a una sedicente “crocerossina” che ignora il comando dell’autorità avrebbe significato un invito a nozze per tutti coloro che vorranno, d’ora in avanti, riprovarci. Se ce l’ha fatta lei –  a mettere sotto scacco la Repubblica italiana, per di più irridendo le sue istituzione e infischiandosene delle sue leggi –  perché non dovrebbe poterlo fare qualunque altro natante straniero? Lo schema cui si era ispirate la linea governativa era preciso: prevalenza della “ragione” sul “sentimento” per ragioni politiche superiori alle inclinazioni emotive contingenti. E tale schema è stato applicato, nella fattispecie, all’acqua di rose, per così dire. Nessuno ha messo in discussione la salute, o peggio ancora la vita, degli “ostaggi” della Sea Watch. Al massimo li si è sottoposti al temporaneo disagio di qualche giorno supplementare di soggiorno a bordo (tra l’altro, principale responsabile di ciò è proprio il capitano del battello tedesco).

Avete un senso di déjà vu? Normale. In passato abbiamo conosciuto declinazioni di questo “conflitto” (tra superiori esigenze politiche e ragioni del cuore) ben più drammatiche. Casi in cui lo Stato non volle deflettere dalla linea della fermezza neppure dinanzi alla possibilità di salvare la vita non di un migrante, ma addirittura del più importante uomo  di stato italiano del dopoguerra.  Ci riferiamo, ovviamente, ad Aldo Moro. La celebre “linea della fermezza” non esitò a immolarlo sull’altare di un superiore imperativo per definizione non negoziabile: la Repubblica non sarebbe addivenuta a patti con i terroristi. Ovviamente, non stiamo sostenendo che quella storia fosse sovrapponibile a questa odierna e neppure che la scelta dell’intransigenza fosse, nell’occasione, giusta. Probabilmente era sbagliata: era uno di quei casi in cui il bilanciamento tra le esigenze della ragione (di Stato) e il dovere morale di preservare una vita umana avrebbe dovuto far pendere il piatto della bilancia dalla parte dello statista.

Eppure, certe dinamiche interiori (afferenti la decisione più giusta da prendere, il cosa fare e perché farlo) sperimentate in quei giorni di piombo, somigliano assai a quelle del caso Sea Watch.  Di certo, nella vicenda Rackete, la cosa si presentava molto più semplice, sia da fare che da capire: uno Stato serio non poteva, non doveva, chinare la testa. Così come non può e non deve sottomettersi a qualsiasi invasato da altruismo narcisista, il quale si presenti nelle sue acque avendo unilateralmente scelto le sponde a cui destinare il suo carico di speranzosi derelitti. Non poteva farlo se davvero voleva ri-proporsi sulla scena internazionale (dopo anni di latitanza) come una Nazione libera e indipendente non più disponibile a fare dei propri lidi il capolinea della moderna tratta degli schiavi.

Da questo punto di vista, ci sorprende come – per una sorta di imprevedibile nemesi – proprio nel  Partito Democratico siano confluiti gli storici partiti irriducibilmente “fermi” nel 1978. Graniticamente fermi, a quel tempo, anche a costo di pagare il prezzo della morte violenta di uno dei loro leader carismatici. Lo stupore discende dal fatto che i vertici del PD, adesso – di fronte a una situazione neanche lontanamente paragonabile, per drammaticità e importanza, a quella del segretario DC –  non riescono neppure a porsi il dilemma. Quel dilemma che seppero, per contro e senza tentennamenti, risolvere in allora le alte sfere di Democrazia Cristiana e Partito Comunista.

Eppure, bastava che una delle attuali teste pensanti dei Dem sollevasse un dubbio: ci troviamo invischiati, forse, in una di quelle vicende in cui la ragione delle cose deve prevalere rispetto a una immediata e comprensibile pulsione umanitaria?

Il fatto che quell’area politica sia inabile non già a  impostare, ma neppure a concepire, un dibattito su questi temi, molto ci dice sul suo irreversibile declino culturale, certificato anche dalle urne.

La medesima considerazione, ovviamente, vale pure per gli intellettuali italiani. La stragrande maggioranza di essi non ha colto, o non ha voluto cogliere, l’assoluta ragionevolezza della scelta del Governo di rendersi indisponibile a concessioni nei confronti della sfida ribalda e inaccettabile lanciata dalla capitana. È, per caso, gente che non ha studiato o è priva del ben dell’intelletto? No, chiaramente. E allora come può cadere vittima di un così banale tranello come quello rappresentato dalla dialettica “ragione-sentimento”?

È sempre colpa del sentimento, crediamo. In particolare di quell’odio incomprimibile che la creme della nostra classe intellettuale nutre nei confronti di un esecutivo, per la prima volta da molti anni, non allineato con i dieci comandamenti dell’ortodossia mainstream. E perciò dipinto usualmente coma una manica di rozzi e incolti sovranisti e populisti le cui braccia sono state inopinatamente strappate all’agricoltura. Ma se così è, e non vediamo motivo per dubitarne, allora il “peccato” degli intellettuali è ancora più grave di quello dei politici. L’irrazionalità dei secondi, infatti, si giustifica con la loro scarsa cultura politica, con un precario senso dello Stato e con le tattiche di corto respiro della dialettica maggioranza-opposizione. Quella dei secondi, invece, è un’abdicazione volontaria e consapevole all’intelligenza dettata dal bisogno di soddisfare un istinto ostile. Per un uomo di pensiero, non c’è colpa più grande.

Francesco Carraro

www.francescocarraro.com


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