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Economia

Il processo di Vicenza

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Il processo di Vicenza

Di notte, un uomo cerca qualcosa sotto a un lampione. Gli si avvicina uno che lo vuole aiutare e gli chiede: “Che sta cercando?”.

L’uomo risponde una banconota da venti euro che mi è caduta. Cercano entrambi, ma senza successo. Il nuovo arrivato chiede: “Esattamente dove l’ha persa?”. E quello gli dice: “Trecento metri più avanti”. “E perché la cerca qui?”. Stupito, quello gli risponde: “Ma perché qui c’è luce!”.

Questa vecchia storia mi torna in mente pensando al processo d’appello per il crac BPVI in corso a Mestre. Conosciamo abbastanza bene, dal di dentro, questa tragedia tutta italiana e siamo convinti che tutti gli imputati andrebbero assolti, in quanto vittime e non criminali. 

Il crack della Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca

Piuttosto, alla sbarra dovrebbero essere portati certi funzionari della BCE, in particolare due donne e, forse, anche l’ex primo ministro Matteo Renzi e l’ex ministro delle finanze Pier Carlo Padoan. Una nota di forte biasimo andrebbe poi inviata al presidente della Regione Veneto, Luca Zaia per aver permesso che gli sfilassero dalla tasca due gioielli di banche, quali furono la Popolare Vicenza e la Veneto Banca. Avrebbe dovuto urlare “Al ladro!” e picchiare i pugni sul tavolo. Fosse successo a un presidente di un Lander tedesco, in condizioni simili, con qualcuna delle sue Genossenschaftsbanken gli urli li avrebbero sentiti fino a Berlino.

Le cose riguardanti la finanza vengono spesso complicate dai gestori di tali attività e ora questi funzionari innocenti sono essi stessi prigionieri della rete di ragno che si erano costruiti intorno. Non è quindi possibile che dei semplici magistrati possano capire certi sottili dettagli e perciò essi vanno da anni alla ricerca di crimini grazie ai quali possano sbattere in galera delle persone oneste e così placare l’odio di chi ci ha perso parecchi soldi. 

Non è facile condensare tali argomenti nello spazio di un breve articolo per provare la nostra tesi, ma citeremo solo alcuni fatti principali. Per chi voglia saperne di più consigliamo un libro, ormai introvabile, uscito nell’aprile del 2019 a Udine e intitolato “Romanzo imPopolare” di Cristiano Gatti e Ario Gervasutti e che, nonostante il tono sbarazzino, racconta con estrema precisione tutti i passaggi fondamentali di questo dramma.

Gli attacchi mediatici contro alle due banche venete sono state una cosa vergognosa e immotivata, o forse motivata da certe losche figure che volevano la loro morte. In ciò si è distinta la Giornale di Vicenza, che ha pubblicato paginate di pettegolezzi e di dati errati. Nessuna banca, per quanto solida come fu sino alla fine la Popolare di Vicenza, avrebbe potuto reggere a lungo quello tsunami.  Ma i numeri dicono che, sino alla fine, la Banca Popolare di Vicenza ha mantenuto livelli di solvibilità altissima e aveva del personale dedicato ed efficiente. 

Si fa un grande parlare della “baciate” un tipo di finanziamento da sempre adottato dalle Banche Popolari, sia pur con la dovuta cautela e con le dovute regole. Nel caso della Popolare di Vicenza, effettivamente, esagerarono con questo strumento, prendendo dei grossi azzardi per via delle pressioni a ricapitalizzare da parte della BCE. Si tratta comunque di qualcosa di relativamente limitato: parliamo di 130 milioni spalmati su 1930 soci,  che senza gli interventi della BCE (che nulla conoscevano degli statuti delle banche popolari, vera spina dorsale dell’industria italiana negli ultimi 150 anni) sarebbero stati assorbiti.

La bomba atomica sulle banche venete fu lanciata da Matteo Renzi il 20 gennaio 2015, in un Consiglio dei ministri, quando inserì fra le “varie ed eventuali” senza nessuna preliminare discussione, che le banche popolari vengano obbligate a quotarsi in borsa nel giro di 18 mesi. Non tutte, solo quelle con un patrimonio superiore a 8 miliardi.

Si trattò di una azione mirata, perché queste banche erano tre: Popolare di Vicenza, Veneto Banca e Bari. Per la cronaca, l’ultima ancora esiste perché se ne infischiò del decreto di Renzi, che fu comunque annullato due anni dopo. Cancellarono anche il voto capitario, colonna portante delle banche popolari, dove uno vale uno, indipendentemente dal numero di azioni che detiene. In Italia nessuno ci fece caso, tranne chi se ne intende, come l’economista Stefano Zamagni, il quale scrisse: “A me pare che esista un preciso disegno che punta a eliminare le popolari, non in maniera diretta ma esasperando il rispetto di regole troppo pesanti”.

E aggiungerà Marco Vitale, un altro economista di valore: “Le pressioni, unite alla tradizionale mancanza di coraggio degli intellettuali italiani, chiusero rapidamente la partita e tutti, o quasi tutti, si ritirano zitti, in buon ordine nel loro banco. Einaudi, Menichella, Mattioli, Baffi si rivoltano nella tomba”. 

Nulla da fare: i panzer della BCE si trovarono la strada spianata per distruggere le due venete. Arrivò una lettera di Daniéle Nouy, ora in pensione, laureata in scienze politiche e legge, che era a capo della vigilanza della BCE, la quale decise seduta stante di cambiare i parametri degli accantonamenti e dunque il bilancio della banca che fu chiuso alla fine del 2014 e passò da un surplus di 350 milioni a una perdita di 757 milioni.

Qualche mese dopo, sempre tale signora, insisterà per il fallimento della Popolare di Vicenza, senza alcun motivo logico, s’impuntò e basta, forse fu per via del tradizionale disprezzo per gli italiani che, come i greci, vanno messi in riga. Voleva lo scalpo della banca di Vicenza e furono costretti a fare intervenire il vicepresidente della Banca d’Italia per farle cambiare idea. L’altra gran dama responsabile del disastro, ma in misura minore, è Margrethe Vestager, una ex militante comunista danese, che dal 2014 è Commissario europeo per la concorrenza (oggi è secondo vicepresidente della Commissione Europea). 

Da quel momento sarà la BCE, tramite il rappresentante in Italia, Emanuele Gatti a teleguidare la banca. Addirittura Gatti si spinge al punto di passare a Zonin un foglietto con scribacchiati sopra tre nomi per indicare il nuovo amministratore delegato in sostituzione del povero Emanuele Sorato, pure lui innocente, mandato a casa per quietare la BCE. Che quel funzionario basato a Milano, laureato in giurisprudenza presso l’Università di Bari, ex Banca d’Italia dal marzo 1992, decida con un foglietto chi è gradito o sgradito alla BCE dovrebbe essere, questo sì, oggetto d’indagine giudiziaria. Gianni Zonin pescò uno di questi “graditi” alla BCE, tal Francesco Iorio, che guadagnò delle cifre spropositate per il suo intervento, tutto sommato inutile e dannoso. Gianni Zonin nulla sapeva dell’entità di tale baciate e che, comunque, non spiegano assolutamente il fallimento, perché la banca è saltata per ben altro.  

Il processo dovrebbe essere annullato, perché non esiste un reato e gli imputati vanno mandati a casa, con tante scuse. E comunque le pene detentive comminate durante il primo grado, sotto alla pressione del popolo inferocito, erano assurdamente elevate, neanche fossero degli assassini. 

Questa azione legale era iniziata la mattina del 22 settembre 2015, con un blitz, teletrasmesso in mondovisione, effettuato dalla Procura di Vicenza, con perquisizioni a Vicenza, Milano, Roma, Palermo, nelle abitazioni e negli uffici dei dirigenti. Si videro agenti uscire con faldoni di carte (ma che speravano di trovarci?) e il Procuratore capo Antonio Cappelleri dichiarò ottimisticamente che: “Conto su un’indagine veloce che entro un mese stabilisca le eventuali responsabilità delle persone coinvolte…”.  

Chi ha perso soldi andrebbe pienamente risarcito dalla Banca d’Italia, che si mostrò impotente davanti alle prepotenze della BCE e dai loro giannizzeri calati da nord. La Banca d’Italia dovrebbe poi chiedere un rimborso alla BCE, per via della loro evidente e criminale mala gestio di questa gloriosa banca.

Angelo Paratico

 

   


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