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Il Green Deal delle occasioni perdute (di Antonio Maria Rinaldi*)
L’analisi di A.M. Rinaldi: abbiamo creato una transizione fatta di soli vincoli che regala il futuro alla Cina e agli USA. Ora serve realismo economico.

L’Unione europea ha concepito il Green Deal come il perno di una nuova rivoluzione industriale, ma ne ha frainteso la natura economica. Ha tradotto un obiettivo nobile – la sostenibilità ambientale – in un insieme di vincoli normativi e di tempi perentori, dimenticando che le trasformazioni tecnologiche non si decretano: si costruiscono. La distanza tra ambizione politica e realtà produttiva si misura oggi nelle difficoltà delle imprese e nella perdita di consenso sociale.
La transizione energetica è divenuta soprattutto una transizione regolatoria, in cui l’enfasi sull’elettrificazione dei consumi ha prevalso sulla neutralità tecnologica. L’Europa ha privilegiato la motorizzazione elettrica come unico paradigma, sottovalutando la complementarità di soluzioni basate, ad esempio, su biocarburanti e carburanti sintetici. È una scelta che, invece di stimolare la concorrenza dell’ingegno, ha irrigidito il sistema e favorito chi dispone già di un vantaggio industriale.
Il rischio maggiore non è il cambiamento, ma la dipendenza. L’Europa importa la gran parte dei materiali strategici – litio, nichel, rame, terre rare – e ne affida la raffinazione a pochi Paesi extra-UE, in primo luogo la Cina, che oggi controlla più della metà della capacità mondiale di trasformazione e di stoccaggio. Non si tratta di demonizzare Pechino, ma di riconoscere un errore di pianificazione: una transizione concepita per ridurre la dipendenza energetica dai combustibili fossili rischia di crearne una nuova, più silenziosa e più vincolante.
La competizione internazionale accentua questa fragilità. Gli Stati Uniti hanno trasformato l’Inflation Reduction Act in un potente strumento di politica industriale, capace di attrarre investimenti e lavoro. L’Europa, vincolata da regole di bilancio che non distinguevano tra spesa e investimento, ha risposto in ordine sparso. I capitali cercano il contesto più stabile e redditizio, non il più virtuoso per decreto. Così, mentre gli impianti nascono oltreoceano, le nostre catene di fornitura si assottigliano.
Nel settore automobilistico, la corsa all’elettrico è sintomatica. La nuova generazione di veicoli richiede meno componenti meccaniche e manodopera diversa; molte piccole e medie imprese dell’indotto, cuore manifatturiero d’Europa, non trovano la via della riconversione. È illusorio pensare che l’innovazione crei solo nuovi mestieri: ne distrugge altri, e la politica deve saper governare questo equilibrio. I prezzi di mercato dimostrano che l’auto elettrica resta, pur con progressi rapidi, un bene più costoso della media e sostenuto da sussidi pubblici.
Si è voluto guidare la trasformazione con la bussola ideologica invece che con la mappa industriale. Eppure l’esperienza insegna che l’innovazione non nasce dalla virtù, ma dalla convenienza: occorrono ricerca, capitali, infrastrutture, tempo e soprattutto strategie. L’Europa dispone ancora di competenze scientifiche e di risparmio privato, ma manca una regia capace di convogliare questi fattori verso un progetto comune. Senza per l’appunto una strategia industriale europea, il Green Deal rischia di restare un manifesto di buona volontà.
Va ricordato che nella IX legislatura del Parlamento europeo gli equilibri di maggioranza erano diversi dagli attuali. Le decisioni più incisive in materia ambientale furono assunte in un contesto in cui il principale gruppo politico, il Partito Popolare Europeo (PPE), risultava fortemente condizionato dalla politica interna tedesca e dal compromesso alla “grande coalizione” di Berlino. Oggi quello stesso gruppo appare più libero da quei vincoli nazionali e più disposto a considerare un approccio pragmatico, che coniughi sostenibilità e competitività. È un’evoluzione che può restituire al dibattito europeo la necessaria razionalità economica.
Il punto non è abbandonare l’obiettivo climatico, bensì ricondurlo entro un ordine economico sostenibile. Serve una politica dei materiali, una rete energetica realmente integrata e una finanza pubblica orientata alla crescita di lungo periodo. Serve, in definitiva, un realismo che riconosca la differenza tra l’auspicabile e il possibile. Le civiltà non si giudicano dai proclami, ma dalla capacità di mantenere l’equilibrio tra libertà, benessere e conoscenza.
L’Europa potrà ancora scrivere una storia diversa se saprà tornare a ragionare come una potenza produttiva, non come un laboratorio normativo. La transizione ecologica non può essere un atto di fede: deve essere un atto di politica economica. E la politica economica, come insegna la storia, non si affida ai sogni, ma alla misura della realtà.
*ex membro della Commissione ECON del Parlamento europeo
Domande e risposte
Perché l’approccio europeo al Green Deal viene definito un errore economico? L’errore fondamentale risiede nell’aver imposto la transizione tramite vincoli normativi e scadenze rigide, piuttosto che attraverso investimenti e strategia industriale. L’Europa ha dimenticato che l’innovazione tecnologica richiede capitali, ricerca e convenienza economica, non decreti legge. Inoltre, l’abbandono della neutralità tecnologica ha forzato l’industria verso l’unica soluzione dell’elettrico, escludendo alternative valide come i biocarburanti e mettendo in difficoltà le imprese che non possono riconvertirsi per decreto.
Qual è il rischio geopolitico legato alle attuali politiche ambientali dell’UE? Il rischio principale è passare dalla dipendenza dai combustibili fossili (come il gas russo) a una nuova e più vincolante dipendenza dalla Cina. L’Europa importa la quasi totalità dei materiali strategici come litio e terre rare, ma soprattutto ha delegato a Paesi extra-UE la capacità di raffinazione e produzione di batterie. Pechino controlla oltre la metà della capacità mondiale di trasformazione, rendendo l’industria europea vulnerabile e strategicamente debole di fronte ai competitor globali.
C’è possibilità che la linea politica europea cambi in futuro? Sì, il contesto politico è in evoluzione. Nella precedente legislatura il Partito Popolare Europeo era fortemente condizionato dagli equilibri della “grande coalizione” tedesca. Oggi, il gruppo appare più libero da quei vincoli e propenso a un approccio pragmatico che bilanci sostenibilità ambientale e competitività industriale. Si sta facendo strada la consapevolezza che serve un “realismo economico” per correggere il tiro, basato su investimenti e politica industriale vera, come fatto dagli USA, piuttosto che su sola ideologia normativa.








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