Politica
IL DELIRIO GIUDIZIARIO
Premessa
Ci sono articoli così importanti, che bisogna leggerli anche se sono lunghi e noiosi, ma per fortuna ci sono anche articoli così divertenti, che bisogna leggerli quand’anche in sé non fossero importanti. E quello di Michele Brambilla, sulla Stampa(1) appartiene a questa seconda categoria. Lo si può dunque consigliare agli amici, e aggiungerci una nota che risponde ai problemi da esso sollevati.
CRONACA DI UN DELIRIO ITALIANO
Quella che segue è la cronaca di un delirio, di cui il lettore – lo avvertiamo per tempo – non capirà nulla. Ma la colpa non è nostra. Se non si capisce nulla, è perché la notizia è proprio questa: l’Italia è un Paese dove non si capisce nulla. La questione è quella dei cosiddetti «impresentabili». Cioè i candidati che, per vari motivi, primi fra tutti i guai giudiziari, sarebbe stato opportuno non mettere in lista. Diciamo così: se i segretari di partito avessero avuto il buon gusto di non candidarli, il problema non si sarebbe posto. Ma siccome non hanno avuto il buon gusto, non resta che chiedere lumi alla legge. E qui comincia il delirio. Dunque. Che cosa dice la legge? Un politico condannato può candidarsi alle elezioni oppure no? In qualunque altro Paese la risposta sarebbe un «sì» o un «no»: probabilmente più «no» che «sì», ma in ogni caso una risposta chiara. In Italia è un po’ più complesso. C’è una legge approvata dal Parlamento, la Severino, che dice che no, non ci si può candidare. Così, ad esempio, era stato dichiarato ineleggibile Silvio Berlusconi. Poi erano stati fatti decadere i sindaci di Salerno, Vincenzo De Luca, e Napoli, Luigi de Magistris. Ma che cos’è in fondo una legge di fronte ai Tar, questi giudici onniscienti che pare abbiano il potere di decidere su tutto, dalle bocciature a scuola ai campionati di calcio? Così, De Luca e De Magistris avevano fatto ricorso a un Tar, avevano vinto ed erano stati reintegrati. Non solo: De Luca si è candidato alle regionali di domenica prossima alla presidenza della Campania, diventando a furor di popolo il primo, appunto, degli «impresentabili». Ieri, però, le sezioni unite civili della Cassazione hanno stabilito che sulla legge Severino non può esprimersi il Tar, ma un giudice ordinario. Così De Luca torna ineleggibile: e se domenica vince le elezioni, un attimo dopo essere diventato presidente verrà fatto decadere. Da chi? Pare dal presidente del Consiglio, anche se questa è la tesi di alcuni avvocati ma non di tutti. Comunque la Campania resterebbe senza presidente. Fino a quando? Ah beh, non si può pretendere di saperlo con precisione. Ci sarebbe un giudizio in tribunale, poi un secondo e un terzo grado, e a quel punto la Campania avrebbe forse un presidente. Magari ottuagenario, ma un presidente. Attenzione, però. Un Tar ha posto la questione di incostituzionalità della legge Severino, e in ottobre la Consulta dovrà esprimersi. Dovesse bocciarla, e dichiararla anticostituzionale, De Luca tornerebbe immediatamente eleggibile e si riprenderebbe la poltrona di governatore della Campania. Ma ri-attenzione: il giudizio fissato per ottobre davanti alla Corte Costituzionale potrebbe saltare, perché la questione di incostituzionalità della legge Severino era stata sollevata, appunto, da un Tar, e siccome ieri la Cassazione ha detto che il Tar non è competente sulla Severino, il ricorso dovrebbe essere invalidato. A quel punto De Luca decadrebbe di nuovo. È chiaro perché dicevamo che non è chiaro? Aggiungete che la commissione Antimafia, a sua volta, avrebbe individuato altri tredici candidati «impresentabili» e si apprestava a farne i nomi. Ma ieri c’è stata una fuga di notizie su quattro candidati pugliesi, e le prefetture della Campania pare abbiano smarrito alcuni documenti che avrebbero dovuto inviare a Roma. E così, niente lista. Tutto rinviato a venerdì, a campagna elettorale chiusa. Capite, cari lettori, in quali condizioni si andrà a votare, domenica prossima, in sette regioni italiane? Resta un dubbio: che questa confusione, in fondo, non dispiaccia poi tanto a chi compila le liste elettorali.
Michele Brambilla
(1) http://www3.lastampa.it/fileadmin/mobile/editoriali.php?articolo=
COMMENTO
L’articolo di Michele Brambilla pone un problema che somiglia al seguente: “Le ali del Deinonychus erano piumate o no?” La risposta a un simile quesito è ovviamente che esso è mal posto. Il Deinonychus era un dinosauro predatore che inseguiva le proprie prede correndo sulla terra e non aveva ali.
Nello stesso modo il quesito sugli impresentabili – e cioè se devono essere esclusi dalla competizione elettorale e dalle cariche, se questa esclusione debba dipendere dalla legge Severino o no, se su questa, come sulle altre leggi che regolano la carriera politica, abbiano diritto di sentenziare i giudici ordinari, fino alla Cassazione o i giudici dei Tribunali Amministrativi Regionali, fino al Consiglio di Stato – è futile. La risposta è che devono fare politica coloro che il popolo elegge. E se il popolo elegge Barabba, è inutile stare a sfogliare codici.
Fra l’altro, la “questione morale” è anche contraddittoria. Pur ammettendo che il popolo si scandalizzi per gli episodi di corruzione, pur ammettendo che il popolo desideri avere politici assolutamente senza macchia, chi gli vieta di non votare i candidati “condannabili” e di votarne altri lodevoli sotto ogni aspetto? E se i moralisti temono che invece altri optino per quei candidati che loro mai voterebbero, con quale diritto pensano di vietarglielo? Il voto non è forse libero? La Costituzione non dice forse che “la sovranità appartiene al popolo”?
Tanto per ricordare quanto diversa possa essere la politica dal diritto, chi non troverebbe indegno di qualunque carica un condannato a morte? Ebbene, la storia ci fornisce l’esempio di un condannato morte con sentenza definitiva che, sfuggito all’esecuzione, fece carriera in politica. Si chiamava Charles De Gaulle.
L’idea che la morale o il diritto debbano interferire nella vita politica è frutto di ignoranza e bigottismo. Per la morale, si ignora la lezione di Machiavelli, per il diritto si ignora la lezione di Montesquieu. In democrazia, il metro di tutto è la volontà popolare. E di fatto nulla impedisce che un uomo pessimo, a titolo personale o perfino morale, possa essere un ottimo governante e come tale essere giudicato dal popolo. Luigi XIV e Luigi XV furono tutt’altro che modelli di moralità, soprattutto in campo sessuale. Ma proprio il secondo era chiamato il “Bien-aimé”, potremmo tradurre “l’amatissimo”. Mentre Luigi XVI – veramente un brav’uomo – il popolo lo ghigliottinò.
Naturalmente con tutto questo non si vuol dire che il politico sia autorizzato a commettere, prima o durante la sua attività, tutti i reati che vuole. Si intende soltanto che il perseguimento dei suoi reati – salvo autorizzazione dello stesso Parlamento – debba essere rinviato al momento in cui si concluderà quell’attività. E dicendo questo si scopre l’acqua calda. Cioè esattamente la Costituzione Italiana come è entrata in vigore nel 1948.
Gianni Pardo pardonuovo.myblog.it
27 maggio 2015
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