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Il carattere contabilistico e burocratico del disegno di legge della commissione Rodotà sui cosiddetti beni comuni

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Di Gen 5, 2019 by Paolo Maddalena
Il carattere contabilistico e burocratico del disegno di legge della commissione Rodotà sui cosiddetti beni comuni

Gen 5, 2019 by Paolo Maddalena chat_bubble_outline 0 comment(s)

L’Associazione “Attuare la Costituzione”, di fronte all’iniziativa di trasformare in proposta di legge di iniziativa popolare lo schema di disegno di legge della Commissione Rodotà, ha il dovere di far sapere a tutti che lo schema della Commissione Rodotà, come si legge nella relazione della sua  presentazione al Senato del 2010, ha la finalità di rendere più agevole i procedimenti di contabilità relativi alla “svendita” e alla “privatizzazione”, nonché alla “vendita e riaffitto” degli immobili pubblici. I beni comuni , in questo schema, sono soltanto “uno specchietto per le allodole” e non viene minimamente sostenuta la loro affermazione e diffusione. Anzi, privatizzando e svendendo, si agisce contro l’espansione di questi beni. Deve inoltre precisarsi che la Commissione Rodotà si è riunita soltanto 11 volte, mentre l’iniziativa di questo schema di disegno di legge è partita dai burocrati del Ministero delle finanze (e probabilmente scritta da questi stessi burocrati). Segue un articolo che contiene la spiegazione particolareggiata di quanto asserito:

Si è diffusa una concezione estremamente positiva dei “beni comuni” e vari sono i convincimenti espressi, sia in sede accademica, sia dalla gente comune. Ci sembra importante riportare quanto si legge in proposito in un messaggio di alcune persone delle quali si conosce soltanto il nome di battesimo, pubblicato su Labsus del 21 dicembre 2818: “dal nostro punto di vista i beni comuni sono quei beni che se arricchiti arricchiscono tutti, se impoveriti impoveriscono la società nel suo complesso.

Che si tratti di una piazza, di un giardino, di un immobile abbandonato, della memoria storica, c’è un riconoscimento attivo da parte della Comunità, che nasce dalla responsabilità universale di cura verso i beni comuni. Una cura da cui tutti possono trarre beneficio, anche chi non può o non vuole attivarsi in prima persona, per tutelarli, mantenerli, valorizzarli”. Come si nota, per queste persone, “i beni comuni” sono beni di valore: “arricchiscono tutti”. E, riguardando “tutti”, sono necessariamente da considerare un bene “nella disponibilità di tutti” (proprietà pubblica, servitù pubblica, compressione delle facoltà del proprietario privato, obbligo del privato di tutelare l’utilità pubblica che la cosa produce). Essi inoltre, “hanno un riconoscimento attivo da parte della Comunità”, in sostanza debbono essere “giuridicamente riconosciuti”, e cioè “tutelati, mantenuti, valorizzati”. E infine richiedono che tutti si prendano cura di loro, “attivandosi in prima persona”, anche se ci sono persone che non possono o non vogliono attivarsi, non ostante ne “traggano beneficio”. Si può aggiungere, sul piano scientifico, che questi beni, come ha affermato
il Rodotà, “esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali, nonché al libero sviluppo della persona”.
Appare evidente da quanto poco sopra riportato che, non è possibile offrire una “definizione” onnicomprensiva di detti beni, non essendo logicamente ammissibile includere nei limiti di un concetto una idea che, in sostanza, rappresenta tutto quello che è naturalmente “bello e buono” per l’uomo.

D’altro canto, è da sottolineare che questa attenzione da parte di tutti i cittadini verso i beni comuni trae origine dal fatto che negli ultimi decenni si è proceduto alla svendita quasi totale dei beni del Popolo, mediante: le micidiali “privatizzazioni” (si trasforma il soggetto pubblico proprietario in una SPA di diritto privato e , “occultamente”, diremmo, si trasferisce la ricchezza di tutti a pochi soggetti non si sa come prescelti), le “delocalizzazioni”, con i conseguenti licenziamenti del personale (la disoccupazione ha raggiunto livelli impressionanti) e le “svendite”,
un vero e proprio accaparramento (legalmente riconosciuto) da parte dei governanti di beni di tutti ceduti a prezzo vile a singoli privati. Di qui la nascita, nell’immaginario collettivo di una tendenza a richiedere sempre più spazi liberi per la fruizione di tutti, una tensione, diremmo, a ricostituire il “patrimonio pubblico” del Popolo, dannosamente svenduto.

Queste aspettative sono completamente disattese dallo schema di disegno di legge sui beni comuni, che si vorrebbe trasformare in una legge di iniziativa popolare. Tale disegno, infatti, lungi dal voler perseguire un ampliamento della tutela dell’interesse pubblico per la fruizione dei beni comuni, persegue il fine opposto di “privatizzare” e “svendere” i beni che sono in proprietà pubblica del Popolo, e, in genere, i beni di “interesse pubblico”. Questa finalità è espressa a chiare lettere nella relazione di accompagnamento alla presentazione al Senato di questo disegno, avvenuto il 24 febbraio 2010 (Atto Senato n. 2031), nel quale si legge: “La Commissione sui beni pubblici, presieduta da Stefano Rodotà, è stata istituita presso il Ministero della giustizia, con decreto del Ministro, il 21 giugno 2007, al fine di elaborare uno schema di legge delega per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici.
Una simile iniziativa era stata proposta già nel 2003 da un gruppo di studiosi presso il Ministero dell’economia e delle finanze. L’idea era nata in seguito al lavoro che era stato avviato in quella sede per la costruzione di un “conto patrimoniale” delle amministrazioni pubbliche basato sui criteri della “contabilità internazionale”. Nello svolgimento di tale compito, e alla luce dei primi processi di valorizzazione e “privatizzazione” di alcuni gruppi di cespiti pubblici (immobili e crediti), era emersa la necessità di poter contare su un contesto giuridico dei beni che fosse al passo con i
tempi e in grado di definire criteri generali e direttive sulla gestione e sulla eventuale “dismissione” dei beni in eccesso delle funzioni pubbliche, e soprattutto sulla possibilità che tali “dismissioni” (ed eventuali operazioni di “vendita e riaffitto” dei beni) fossero realizzate nell’interesse generale della collettività facendo salvo un orizzonte di medio e di lungo periodo”.

Basta pensare che il fine del disegno è quello della ”costruzione di un conto patrimoniale delle amministrazioni pubbliche basato sui criteri della contabilità internazionale”; che nel passo citato i concetti sono quelli della “privatizzazione” di alcuni gruppi di cespiti pubblici; che la parola “dismissioni” è usata due volte; e che si parla di “operazioni di vendita e riaffitto” (considerato che l’Amministrazione ha l’abitudine di vendere gli immobili pubblici, per poi riaffittarli a cifre stratosferiche), per rendersi conto quanto è errato il convincimento secondo il quale questo
disegno di legge serve a realizzare la migliore fruizione dei “beni comuni” e quanto sia sbagliato ripresentare al Parlamento questo schema di legge, conferendogli la veste di una proposta di legge di iniziativa popolare.

Che si tratti di una finalità contabilistica e burocratica e non di sistemazione giuridica volta alla migliore gestione e fruizione dei “beni pubblici”, emerge poi dalle singole disposizioni, le quali appaiono in palese contrasto con quanto dispongono la nostra Costituzione e i principi generali del nostro ordinamento giuridico.
Un esame particolareggiato delle singole norme, al fine di dimostrarne la illegittimità e la incostituzionalità, non è possibile, poiché sono tali e tante le contraddizioni e gli errori, da renderne estremamente delicata e farraginosa la loro confutazione. Ci limiteremo, pertanto a segnalare soltanto alcuni errori macroscopici, i quali sottendono l’intero tessuto normativo, e rendono chiaro, di primo acchito, che si tratta di un testo che non ha nulla a che vedere con la
tutela e la corretta gestione dei “beni comuni”.

Il primo, fondamentale errore è quello di considerare lo Stato come una “Persona giuridica pubblica” e non come una “Comunità politica”, e cioè una “Repubblica democratica fondata sul lavoro”, nella quale la “sovranità” spetta al Popolo. Ne consegue che la ostentata “abolizione” del “Demanio pubblico” venga presentata nel testo, come la soppressione di un organo della Pubblica Amministrazione e non di un organo dello Stato comunità, oscurando nella mente del lettore l’idea che si tratta di beni appartenenti al Popolo sovrano, per la cui “privatizzazione” e “svendita”  si vogliono porre i presupposti giuridici necessari per attuare procedimenti contabili più agevoli e
più semplici.

Un secondo errore è da ravvisare nella mancata citazione dell’art. 42, primo comma, della Costituzione, il quale afferma che “La proprietà è pubblica e privata”, sottintendendosi, come rilevò subito il Giannini, che “proprietà pubblica” significa “proprietà collettiva demaniale”, una “proprietà” cioè che appartiene al Popolo a titolo di sovranità. L’errore è foriero di molti altri errori, che sarebbe troppo lungo enumerare. Ci limitiamo pertanto all’esempio, che ci sembra più agevolmente comprensibile, della promozione di un ricorso giurisdizionale. A questo proposito si
legge nel testo che “all’esercizio (dell’azione di risarcimento) dei danni arrecati al bene comune è legittimato in via esclusiva lo Stato”, aggiungendo che, per quanto riguarda i beni cosiddetti di “appartenenza pubblica necessaria”, possono agire con “l’azione inibitoria e con l’azione di risarcimento del danno soltanto lo Stato e le (altre) persone giuridiche pubbliche”. Il fatto è estremamente grave: tutto quello che sinora si è detto sull’intervento spontaneo dei cittadini a proposito della tutela, anche giurisdizionale, dei “beni comuni”, in questo schema di disegno di
legge, svanisce inesorabilmente.

Il terzo errore che vogliamo ricordare (ma tanti se ne possono ancora rintracciare) è quello di aver tolto ogni forma di “partecipazione” popolare alla “gestione” dei beni comuni. Su questo punto molto si è scritto. E il premio Nobel conferito alla Ostrom riguardava proprio questa materia: la gestione dei beni comuni da parte delle collettività. Ma su questo importante tema, il disegno di legge tace.

Ci sarebbe, come è ovvio, ancora molto da dire, ma quanto scritto sinora porta ad una inconfutabile conclusione: tolto di mezzo il “Popolo sovrano” e la “proprietà collettiva demaniale”, nonché la “partecipazione” dei cittadini alla gestione dei beni comuni, il legislatore diventa pienamente libero di stabilire (prescindendo dal tema dell’appartenenza al Popolo) il regime giuridico dei beni comuni e dei beni pubblici necessari, riservati alla Collettività. L’obiettivo che si voleva raggiungere, è stato raggiunto: infatti, tutto diviene più facilmente perseguibile da parte dei
burocrati che intendono costruire una “contabilità pubblica”, di carattere internazionale, e cioè un tipo di contabilità che facilita le “privatizzazioni” e le “svendite” tanto care alla ideologia neoliberista.

Certamente non è questo il disegno di legge di cui ha bisogno il Popolo italiano. Infatti, è fin troppo evidente che “quanto più si privatizza”, “tanto più si sottraggono spazi ai beni comuni”. D’altro canto, il fallimento del neoliberismo, al quale il disegno della Commissione Rodotà è ispirato, è sotto gli occhi di tutti. Gli eventi hanno inconfutabilmente dimostrato che l’affermazione secondo la quale la ricchezza deve essere nelle mani di pochi, che occorre una
“forte competitività” e che lo Stato, cioè il Popolo complessivamente considerato, non deve entrare nell’economia, ha infatti creato un “sistema economico predatorio”, il quale, usando i “meccanismi” della “privatizzazione”, della “delocalizzazione” e delle “svendite” (obliterando completamente il tema delle “nazionalizzazione” di industrie strategiche) ha prodotto effetti “devastanti” per la nostra economia e ha reso l’Italia molto poco influente sul piano mondiale ed europeo. Ed è da sottolineare inoltre che ciò è avvenuto proprio perché non si è tenuto conto
delle norme imperative che la Costituzione (art. 42) detta a proposito del concetto di “proprietà pubblica e privata” e, a partire dall’assassinio di Aldo Moro in poi, i governi hanno fatto a gara nell’emettere leggi incostituzionali alla cui base c’è la nozione borghese, e ora neoliberista, della “proprietà privata”, una nozione (in pieno contrasto con la Costituzione) che esalta il potere del privato, considerando recessivo l’interesse pubblico e favorendo quel “meccanismo” di svendite e privatizzazioni cui poco sopra si è fatto riferimento. Appare allora evidente che, se davvero si vuole dare spazio alla diffusione dei beni comuni, occorre innanzitutto fare il contrario di quanto fa lo
schema di legge in questione: occorre subordinare l’interesse del privato all’interesse della Collettività, esattamente come detta la Costituzione, la quale (è necessario ricordarlo) fu emanata quando ancora non era nata l’idea balorda del neoliberismo ed era diffuso tra gli economisti l’idea, di stampo keynesiano, secondo la quale il sistema economico diventa effettivamente “produttivo” se si distribuisce la ricchezza alla base della piramide sociale e se lo Stato, e cioè il Popolo, interviene come “protagonista dell’economia”.

Considerato che dottrina e giurisprudenza sono state abbagliate dall’erronea ideologia neoliberista, senza tener in nessun conto il concetto di “proprietà privata” derivante da una lettura del codice civile eseguita alla luce delle norme costituzionali, si impone che sia trasformata in legge una “interpretazione costituzionalmente orientata” di alcune disposizioni che il codice civile detta in materia di proprietà. Così facendo, rimettendo cioè sotto le norme costituzionali queste poche norme dettate dal codice civile, sarà impossibile procedere a operazioni di “privatizzazioni”, di “delocalizzazioni” e di “svendite”, che hanno drasticamente impoverito il “patrimonio pubblico”
italiano, rendendo assai difficile la diffusione e la fruizione del “beni comuni”.
Per essere il più possibile concreti, proporremmo il seguente schema di disegno di legge, da opporre a quello scritto dalla Commissione Rodotà.
Articolo 1.
L’art. 832 del codice civile è sostituito dal seguente:
“Il proprietario ha il diritto di godere della cosa, assicurandone la funzione sociale. La mancata osservanza di questo obbligo estingue il diritto di proprietà e comporta l’acquisizione della cosa, da parte del Comune in cui la cosa si trova, per destinarla a fini sociali.

Il proprietario ha diritto di disporre del bene in modo da non contrastare l’utilità sociale, o recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. In caso di inadempimento di tale obbligo, l’atto di disposizione è nullo e il proprietario è tenuto al risarcimento del danno”.

Articolo 2.
“Il secondo comma dell’articolo 826 del codice civile è soppresso. Le materie in esso elencate rientrano nell’articolo 822 c . c . , relativo al Demanio dello Stato”.

Articolo 3.
Il secondo comma dell’articolo 948 del codice civile è sostituito dal seguente. “L’azione di rivendicazione non si prescrive, salvi gli effetti dell’acquisto della proprietà da parte di altri per usucapione, e salvi gli effetti del mancato svolgimento, nei termini previsti dai regolamenti comunali, delle attività necessarie per assicurare il perseguimento della funzione sociale del bene”.

Si tratta, come agevolmente si nota, di una “svolta” necessaria e urgente, pena la perdita dell’intero territorio e, quindi, la vanificazione della stessa idea di “beni comuni”.

Per chi desidera approfondire la questione, alleghiamo un articolo sulla

RICOSTRUZIONE DEL PATRIMONIO DEL POPOLO. LA PROPRIETÀ PUBBLICA

Il presente invio di documenti è stato approvato dal Consiglio direttivo dell’associazione “Attuare la Costituzione”, nella seduta del 4 gennaio 2019.

Professor Paolo Maddalena

Vice Presidente Emerito della Corte Costituzionale e Presidente dell’associazione “Attuare la Costituzione

 


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