Esteri
I negoziati del Trattato Transatlantico: motori al minimo. Di Giovanni Bottazzi
Una pausa di riflessione
Con la più recente tornata di trattative, che si è svolta a Miami nei cinque giorni dal 19 al 23 ottobre scorso, i negoziati relativi al TTIP segnano il passo. Per lo meno, questa è l’impressione che si ricava dalla lettura dei vari commenti di stampa e direttamente del comunicato (fact sheet) pubblicato appena concluse le riunioni, in adempimento ad una promessa formale di trasparenza strappata alla Commissione Europea. Sono due pagine piuttosto elusive circa il vero contenuto delle discussioni; tuttavia qualche cosa se ne apprende. Traspaiono molte difficoltà incontrate nell’avanzamento dei lavori, tanto che i negoziati riprenderanno nel febbraio 2016. Verosimilmente i negoziatori hanno voluto prendersi una pausa di riflessione, quanto mai opportuna anche per chi intenda nel frattempo chiarirsi le idee sull’argomento.
Sin dall’inizio la proposta iniziale del trattato Transatlantico ha fatto leva sull’incremento degli scambi internazionali sperata dalla caduta delle barriere doganali residue tra Unione Europea e Stati Uniti e dalla facilitazione degli scambi derivante dall’armonizzazione di tutta la regolamentazione che appesantisce le imprese esportatrici, con una altrettanto attesa crescita del reddito nazionale delle parti contraenti. Quanto alla misura di questo previsto incremento esistono ovviamente soltanto stime, tanto complesse quanto opinabili.
Dal punto di vista europeo, nell’ambito dell’opzione di un accordo globale su commercio e investimenti basato su ipotesi prudenti, in base al modello utilizzato il PIL dell’UE aumenterebbe dello 0,27% su base annua, a partire dal 2027, rispetto allo scenario di riferimento1. Un altro studio, quello compiuto dalla società italiana di consulenza e ricerca economica Prometeia su incarico del governo di Enrico Letta, molto attento ai temi internazionali, pur giudicando in modo positivo il Trattato, ha calcolato che il vantaggio sarebbe di una crescita del PIL europeo pari a zero in caso di liberalizzazioni limitate, mentre sarebbe pari allo 0,5% a seguito di liberalizzazioni totali, scenario giudicato <<ottimistico, ma improbabile>>2. Invece, secondo le previsioni diverse e per lo più negative di un centro di ricerche austriaco (Ofse), “l’abolizione delle barriere tariffarie farebbe perdere al budget europeo 2,6 miliardi l’anno, somma non trascurabile in un periodo di crisi come l’attuale”. Verosimile questo per il parziale dirottamento degli scambi prevedibile dalle rotte intracomunitarie a quella con gli USA. “L’occupazione non aumenterebbe affatto, mentre la disoccupazione resterebbe stabile, a seguito della profonda riorganizzazione dei mercati. A beneficiare dei maggiori scambi commerciali sarebbero soprattutto le multinazionali, a scapito delle piccole e medie imprese. Nel caso dell’Italia, delle 210 mila imprese che esportano, le prime dieci detengono il 72 per cento dell’export totale, e dunque beneficerebbero maggiormente del trattato. Inevitabile l’invasione di prodotti made in Usa”. In definitiva, l’Ofse prevede pochi benefici economici, ma molti rischi e costi potenziali.
In ogni caso, la crescita sperata sarebbe non immediata, ma posizionata al momento della piena attuazione degli accordi e, comunque, piuttosto modesta. Così, la sirena della crescita attira sempre meno e lascia il posto alla diffidenza fra un numero sempre maggiore di persone, su cui hanno maggior presa la qualità della crescita in termini di distribuzione ai beneficiari e l’immediata percezione dei problemi prevedibili dall’entrata in vigore del TTIP.
Insomma, da qualunque parte si prenda ad esaminare il bilancio costi-benefici di una concreta attuazione del Trattato Transatlantico con l’instaurazione di una grandissima zona di libero scambio per le collettività europee, tra cui quella italiana, rispunta caparbiamente il tarlo del dubbio: se valga la pena rischiare così tanto, in termini di qualità dei prodotti di normale consumo e di qualità della vita, per inseguire la speranza di un aumento del reddito non affatto prossimo ed anche modesto. Il dubbio se non sia più opportuno proporsi mete meno ambiziose e più prudenti e ritornare a considerare ambiti più limitati e specifici del commercio internazionale.
Un convitato di pietra, le multinazionali
Infatti nelle aree di reddito maggiore crescono i timori che il Trattato favorisca lo spostamento dell’occupazione a favore di aree a basso reddito e ritorna così, immancabilmente, il riferimento alle grandi corporations come ai soggetti più attrezzati e pronti ad allocare i posti di lavoro a seconda delle convenienze, anche di breve periodo; comportamento che, generando ovunque precarietà ed incertezza dei posti di lavoro, le avvantaggia ulteriormente, indebolendo le capacità contrattuali delle controparti, comprese quelle sindacali, che restano invece presenti soltanto su base nazionale. Non contrastate da una simmetrica controparte sindacale a livello sopranazionale, che non esiste, le grandi corporations accentuerebbero così la loro attuale posizione asimmetrica per forza contrattuale; anche disponendo delle maggiori possibilità di influire sulla regolamentazione “fine” degli scambi, possono intonarla ai modi a loro più favorevoli.
La previsione più diffusa è che gli incrementi del reddito derivanti da quello degli scambi andranno a profitto principalmente del sistema delle società multinazionali che, secondo una stima l’UNCTAD (2013) riportata dal Centro Studi Confindustria in uno studio del novembre 2015, già ora realizzano l’80% del commercio mondiale (un terzo del totale è costituito da scambi intra-firm) e prevedibilmente continuerebbero a fare la parte del leone anche nel nuovo scenario.
Già ora numerose collettività nazionali del mondo, anche in Europa e negli USA, soffrono gli effetti negativi della concentrazione dei redditi, una tendenza ormai ben rilevabile da lunghi anni. I profitti continuano a concentrarsi su un numero ristretto di soggetti economici e, in particolare, nel sistema delle società multinazionali, a scapito delle società di medie e piccole dimensioni. Questa tendenza ovviamente peggiora i redditi disponibili e le condizioni di vita di larghe fasce di famiglie. Capaci di fare arbitraggio tra gli Stati non solo in materia fiscale, ma anche sociale, i grandi gruppi in tal modo spingono verso il basso il livello di protezione sociale e impongono ai governi di ballare alla loro musica, suonando su più tastiere. Come se non bastasse, se davvero fosse introdotto dal Trattato l’annesso arbitrato internazionale a favore dell’investitore estero, questo meccanismo sottoporrebbe uno Stato alla minaccia di gravi sanzioni pecuniarie nel caso di una regolamentazione giudicata pregiudiziale per l’investimento e ne frenerebbe la capacità di regolamentazione. Insomma, un meccanismo studiato apposta per creare le condizioni più favorevoli ad un liberalismo selvaggio, le peggiori per un sistema di governo democratico.
Sono ormai numerose queste novelle “Compagnie delle Indie” che, ormai, possono permettersi di non essere fedeli ad alcuna regina e, anche ove rispettino le singole leggi nazionali, rappresentano una seria concorrenza in termini di potere per i governi nazionali.
Denunziata da numerosi segnali, come le manifestazioni di piazza, riemerge sempre sotto diversi aspetti il consueto contrasto asimmetrico tra il fronte di opposizione al Trattato, che può contare su una prevalenza numerica schiacciante di soggetti singolarmente deboli, e quello dei soggetti favorevoli, che invece conta adesioni numericamente molto minori ma dotate di una soverchiante prevalenza per forza economica e contrattuale. Questo contrasto è solo una manifestazione della consueta contrapposizione di interessi: da un lato la parte minoritaria e più ricca della popolazione che tende a perpetuare la situazione presente, dall’altra l’insopportabile condizione dei più. Proprio come risulta da uno studio condotto dal World Institute for Development Economics Research delle Nazioni Unite (UNU-WIDER) che ha sede a Helsinki: nella distribuzione dei redditi a livello globale il 2% della popolazione adulta possiede oltre la metà di tutta la ricchezza mondiale. Va da sé che ben il 98% della popolazione restante deve poi accontentarsi di spartirsi l’altra metà della ricchezza.
A questo punto, invece di limitarci ad “abbaiare alla luna”, come finora siamo costretti a fare noi commentatori, sarebbe ora che affermassimo decisamente la necessità di definire uno “statuto” specifico per queste entità economiche, così grandi da travalicare i confini dei singoli Paesi.
E’ tempo di buona politica
Una contrapposizione sociale così preoccupante chiama in causa la politica che, peraltro, con poche eccezioni finora sul tema specifico del TTIP sembra avere lasciato il pallino in mano ai tecnici, per rimanere ai margini della discussione nel modo più discreto e silenzioso possibile e non “disturbare i manovratori”.
Finora la manifestazione più importante della volontà democratica è stata la delibera del Parlamento Europeo dell’8 luglio 2015, che ha fissato precisi paletti per l’ambiato delle trattative. Più di recente, il giorno 26 novembre 2915, il Parlamento italiano ha ascoltato la Commissaria UE incaricata delle trattative del TTIP, la quale ha svolto il suo ruolo formale in modo ancora poco soddisfacente circa le vere richieste di informativa.
A questo punto, occorre un’affermazione più decisa della politica di fronte ai veri poteri forti, che si rivelano inequivocabilmente nelle trattative. In una vicenda di decisioni troppo importanti per essere lasciate ai livelli operativi, spetta ancora alla politica assumersi il carico di una presenza attenta di fronte all’opinione pubblica, almeno per quella parte che, nonostante la sordina imposta dal sistema, risulta in qualche misura informata, sebbene ancora largamente minoritaria. Ed ora questa riflessione sembra diffondersi anche sul fronte americano, dove pure cresce lo scetticismo circa la possibilità che il Trattato vada in porto entro il mandato della presidenza Obama.
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