Analisi e studi
I dazi di Trump spiegati facile

La strategia economico-politica intrapresa da Trump, sulla strada dei dazi, ha molto a che vedere con il mercantilismo di cui gli U.S.A. si vedono preda. Scopriamo in che modo gli ultimi sviluppi si innestano nel panorama globale odierno.
I dazi americani spiegati facile: ecco spiegato perché Trump vuole riscrivere le regole del commercio globale
Negli ultimi anni, gli Stati Uniti – in particolare durante la presidenza di Donald Trump – hanno rilanciato una strategia economica che sembrava superata: quella dei dazi doganali, cioè tasse imposte sui prodotti importati. L’obiettivo? Correggere uno squilibrio economico profondo: gli USA comprano molto più di quanto vendano, accumulando un enorme deficit commerciale.
Ma dietro questa scelta c’è molto più di una semplice manovra fiscale. È una vera e propria visione del mondo, ispirata a un’antica dottrina economica: il mercantilismo.
Cos’è il mercantilismo (e cosa c’entra con oggi)
Nella 6a edizione del libro di Economia Spiegata Facile se ne descrive un ampio quadro, ma per sintesi, ti basta sapere che il mercantilismo nasce tra il XVI e il XVIII secolo e si basa su un principio semplice: una nazione si arricchisce se esporta più di quanto importa. All’epoca si accumulava oro, oggi si punta a vendere di più, produrre di più e proteggere il valore della propria moneta. Per farlo, si mettono in atto azioni di cui una sono le barriere commerciali, come appunto i dazi (per approfondire).
Questa logica mette in secondo piano la cooperazione tra Paesi e punta tutto sulla competizione: ogni Stato cerca di difendere il proprio mercato interno e limitare la dipendenza dall’estero.
Dall’Olanda alla Cina: il mercantilismo come arma geopolitica
Il mercantilismo nasce alla fine del Seicento come risposta all’egemonia dell’Olanda, allora prima potenza commerciale ed economica mondiale. Una situazione che, in chiave moderna, ricorda molto quella di oggi tra gli Stati Uniti e la Cina: la potenza dominante cerca di difendere la propria posizione da un concorrente emergente, mentre quest’ultimo spinge per superarla.
Fu in quel contesto storico che iniziarono a svilupparsi i primi esempi di ingegneria produttiva, ossia sistemi per produrre beni a costi inferiori, in modo da contrastare il vantaggio olandese. Un vantaggio fatto di una flotta potente, una posizione geografica strategica e una rete commerciale globale. Francia, Germania e, più tardi, anche l’Inghilterra tentarono di imitare e superare l’Olanda con ogni mezzo possibile, economico e politico.
Proprio in quel periodo nacquero le prime strategie di guerra economica e finanziaria, usate come anticamera dei conflitti armati. Il concetto stesso di superpotenza moderna prende forma qui: la forza militare non basta più, serve una base economica forte per sostenerla, e questa si costruisce attraverso surplus commerciali, cioè vendendo all’estero più di quanto si compra. Il guadagno (in oro o risorse) serve poi a finanziare eserciti e guerre vere e proprie.
Anche oggi il mercantilismo continua a vivere, seppure in forme più raffinate. La Cina e la Russia, ad esempio, perseguono un’espansione economica e militare in Africa, cercando di garantirsi accesso a materie prime e nuovi mercati. Allo stesso modo, la Germania ha trasformato l’Europa in una sorta di “zona economica su misura”, dove gli altri Paesi – spesso con economie più deboli – comprano i suoi prodotti e adottano regole che la favoriscono.
Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno storicamente costruito la propria egemonia su due pilastri: il potere militare e quello monetario, grazie alla centralità del dollaro. È una forma di imperialismo, dove la forza armata si combina con il controllo delle valute e dei mercati finanziari globali. Ma oggi questa strategia non basta più.
Come accadde all’Impero Romano, anche gli Stati Uniti stanno facendo i conti con una crisi di fondo. Roma, una volta esaurito l’oro per acquistare risorse e beni da fuori, non fu più in grado di sostenere la propria macchina bellica. Allo stesso modo, oggi gli USA si trovano con un dollaro sempre meno solido, iperinflazionato e non più sorretto da un’economia realmente produttiva. Continuano a importare enormi quantità di beni e risorse, senza produrne a sufficienza.
C’è però una differenza fondamentale: oggi esiste il credito, le bilance commerciali, ecc. – un sistema che permette di comprare anche senza avere denaro contante. Questo apre a nuove scorciatoie. Donald Trump, ad esempio, ha cercato di usare i dazi commerciali per limitare le importazioni e ridare fiato alla produzione interna. È una mossa mercantilista in piena regola: proteggere le industrie nazionali, fermare l’ascesa dei concorrenti (come la Cina) e cercare di prolungare la vita dell’impero economico americano.
In sintesi, la storia sembra ripetersi. Il mercantilismo non è mai morto: è solo cambiato forma. Da secoli è l’arma economica preferita per difendere o conquistare il potere globale.
Perché gli USA tornano ai dazi
Dando per scontato che tutti sappiamo cosa siano i dazi (per chi volesse rinfrescarsi la memoria suggeriamo la lettura della prima parte di questo articolo) Negli Stati Uniti, il problema è chiaro: da decenni, molte aziende hanno delocalizzato la produzione in Paesi dove il lavoro costa meno. Computer, scarpe, telefoni: tutto arriva dall’estero, spesso da fabbriche che un tempo erano americane ed oggi si trovano in estremo oriente, dove il lavoro costa pochissimo e i diritti dei lavoratori sono pressoché azzerati. Questo ha impoverito il tessuto produttivo nazionale, aumentato il disavanzo commerciale e fatto perdere milioni di posti di lavoro.
I dazi servono allora a rendere più costosi i prodotti stranieri, spingendo i cittadini a comprare quelli fabbricati in patria. In teoria, si difendono le imprese locali e si rilancia l’occupazione. Ma in pratica, si rischia di aprire una guerra commerciale, perché gli altri Paesi reagiscono con dazi a loro volta.
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Quando il commercio diventa conflitto
Un esempio è la Cina, accusata da anni di pratiche scorrette: sussidia le proprie aziende per vendere a prezzi stracciati, colonizzando i mercati esteri e facendo chiudere le imprese concorrenti (approfondisci). Gli Stati Uniti, per difendersi, impongono dazi. Ma la Cina reagisce, e il conflitto si estende a catena, coinvolgendo tutto il mondo.
Un altro caso è quello della Germania, che dentro l’eurozona ha costruito un modello export-oriented: compra materie prime da Paesi più deboli, le trasforma in prodotti ad alto valore e le rivende in Europa e nel mondo. Così ha accumulato grandi surplus, senza però redistribuirli come previsto dalle regole europee, a cominciare dal patto di stabilità europeo. Il risultato? Squilibri interni all’Unione, con Paesi come Grecia o Italia che si trovano a competere con un’economia iper-performante, senza gli strumenti per difendersi. Il primo tra tutti la svalutazione dei prezzi, resa impossibile dal cambio fisso con l’euro.
Il costo della competitività
In Italia e in altri Paesi del Sud Europa, per anni si è parlato di “diventare più competitivi”. Tradotto: tagliare i salari per abbassare il costo dei prodotti. Ma questa corsa al ribasso ha un prezzo: se i lavoratori guadagnano poco, consumano meno. E se non puoi vendere all’estero per colpa dei dazi, né vendere in casa perché la gente non ha soldi, l’economia si inceppa. Esattamente come rischia di accadere in Italia che dopo la lettera Draghi-Trichet e il governo Monti si ritrova con la domanda interna distrutta (utilizzando le parole di Mario Monti) e quindi impossibilitata ad assorbire le merci che dovessero rimanere invendute a causa dei dazi.
Trump, i dazi e il ritorno all’industria
Trump ha usato i dazi non solo per proteggere l’industria americana, ma anche come strumento di pressione politica. Con Canada e Messico, per esempio, ha minacciato dazi per ottenere maggior controllo sull’immigrazione. E ancora: ha cercato di obbligare i Paesi stranieri a vendere a prezzi più bassi, in modo da non far pesare troppo gli aumenti sui consumatori americani.
Così facendo, ha provato a scaricare il costo del riequilibrio commerciale sugli altri, in particolare sui lavoratori esteri, che devono accettare salari più bassi per restare competitivi.
Ma c’è anche un’altra idea dietro queste scelte: Trump vorrebbe spostare il peso dell’economia americana dalla finanza all’industria. Ridurre il potere di Wall Street per rafforzare la produzione e creare lavoro vero. In questo senso, il suo “Make America Great Again” suona come: meno profitti per pochi, più occupazione per molti.
Una sfida ancora aperta
Oggi il dibattito sui dazi è più attuale che mai. Anche in Europa si comincia a discutere di protezionismo “intelligente”, soprattutto per difendere settori strategici. Ma il rischio è sempre lo stesso: se ogni Paese pensa solo a sé, il commercio globale si blocca, i prezzi salgono e la cooperazione si indebolisce.
Capire cosa c’è dietro i dazi americani ci aiuta a leggere meglio i conflitti economici del nostro tempo. Perché, anche se i termini possono sembrare tecnici, le conseguenze toccano la vita di tutti noi: lavoro, salari, prezzi, diritti. In un mondo sempre più interconnesso, le scelte di un governo possono avere effetti molto più lontani – e profondi – di quanto pensiamo.
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