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Globalizzazione o Protezionismo? di Paolo Savona

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Ritorna con insistenza la tesi, che questo quotidiano ha fatto propria, che il processo di globalizzazione vada invertendo la sua tendenza. Lo si è detto a seguito della Brexit e ha trovato conferma in entrambe le Convention elettorali americane, nel corso delle quali sono emersi dubbi sulla creazione delle due aree di libero scambio propiziate dall’amministrazione Obama, quelle nell’Atlantico (TTIP) e nel Pacifico (TPP), quest’ultima peraltro già approvata a livello negoziale ma da ancora ratificare. L’inversione è probabilmente causata dal cattivo funzionamento della cooperazione internazionale, incapace di risolvere i problemi aperti in materia di libero scambio, dal dominio della finanza alla concorrenza sleale, e spinge gli Stati verso il protezionismo (ma forse il termine più adatto è nazionalismo). In un mondo ancora colmo di violenza, questo sbocco non può se non preoccupare. Si dà la colpa all’ignoranza dell’elettorato, mentre deve essere attribuita all’incapacità dei gruppi dirigenti di trovare una strada allo sviluppo, ossia alla crescita reale e civile, percorribile da tutti in santa pace. L’esempio dell’Europa è una valida testimonianza di questa carenza, con l’aggravante che per essa il consenso non doveva essere costituito come per altre aree, perché lo aveva e lo ha sprecato.
Parte del problema dipende dalla scarsa coscienza della natura dei problemi da affrontare. La globalizzazione prese concreto avvio nell’area occidentale con l’Accordo di Bretton Woods del 1944, ottenendo lusinghieri successi; ha patito un arresto nel 1971 a seguito della rinuncia unilaterale a questo accordo da parte degli Stati Uniti, ma ha registrato nel 1995 un’accelerazione dopo la fine del comunismo sovietico e la nascita del WTO, l’organizzazione di libero scambio mondiale. Il primo accordo fu guidato razionalmente da Keynes, ma fin da allora gli americani non vollero riconoscere che un mercato unico, aperto alla concorrenza, richiede una moneta unica, quella che ancora oggi manca; ciò sarebbe stato necessario per evitare che le parità monetarie riflettessero la politica monetaria e fiscale del paese creatore di moneta per usi internazionali, alterando le ragioni di scambio reali che si sarebbero dovute determinare attraverso la concorrenza tra imprese e non nella competizione tra politiche degli Stati aderenti. Oggi la presenza pubblica nell’economia domina la concorrenza globale e, dove accade l’opposto, significa che il grande capitale si è alleato o influenza le scelte degli Stati.
A Betton Woods fu deciso che il dollaro fosse sottoposto al vincolo della sua conversione in oro a prezzi fissi, meccanismo che non poteva funzionare, come in effetti accadde; da quel momento gli Stati Uniti commisero una serie di errori nel plasmare l’assetto istituzionale degli scambi mondiali, minando il processo di globalizzazione, sia nelle sue componenti monetarie e finanziarie, sia nella sua accettabilità sociale. Il risultato è stato la grave crisi finanziaria del 2008 e la perdita di consenso in atto del processo di globalizzazione. La categoria degli economisti americani, pluridecorati con i Nobel, hanno accreditato questi errori, mentre quelli europei, che hanno giustamente appoggiato la razionalità del mercato unico a moneta unica, ne hanno commesso altri, non opponendosi alla “zoppia” delle istituzioni create; tra queste svettano l’assenza di un’unione politica, la mancata esplicitazione di una politica nei confronti del dollaro e l’aver ignorato la necessità di una politica per rimuovere o compensare i divari di produttività dell’euroarea. E’ questo stato di cose prevalente nelle due sponde dell’Atlantico che spinge gli elettorati verso il nazionalismo, pur desiderando continuare a vivere di scambi internazionali, come sembra volere il Regno Unito dopo la Brexit.
Per recuperare il consenso alla globalizzazione, occorre decidere di migliorare il funzionamento degli scambi globali con un accordo che preveda una moneta unica di riferimento per tutti (come i diritti speciali di prelievo del Fondo Monetario Internazionale, sia pure riformati); un regime di cambio comune per coloro che partecipano agli scambi globali nell’ambito del WTO; una gestione centralizzate delle riserve ufficiali se la scelta del cambio si indirizza verso quelli fissi, ma aggiustabili; la proibizione dei liberi movimenti monetari e il controllo dei movimenti finanziari secondo le linee aggiornate dell’Accordo di Bretton Woods; la fissazione di standard minimi di rete di protezione sociale o, in alternativa, l’imposizione di un dazio protettivo per le merci dei paesi che non li rispettano; e, infine, la trasformazione della Banca Mondiale in Banca Globale, facendo confluire la miriade di istituzioni vecchie e nuove che si muovono in aree ristrette senza una visione di crescita per tutti. In Europa, un buon funzionamento degli scambi interni richiede una politica ad hoc non basata sui vincoli come finora fatto, oppure il ritorno ai cambi flessibili e la rinuncia all’euro, se resta come è stato strutturato; un buon funzionamento degli scambi esteri richiede che la BCE possa intervenire sul rapporto di cambio dell’euro e che la gestione delle trasformazioni dei dollari in euro (e, ovviamente, viceversa) non avvenga sul mercato come attualmente accade, distorcendo le parità monetarie europee rispetto alle ragioni di scambio. E’ ciò che è accaduto quando il rapporto tra dollaro ed euro ha sfiorato l’1,60 per via delle conversioni di riserve ufficiali cinesi e di altri paesi timorosi del futuro della moneta americana.
Coloro i quali si ritengono più saggi o più pratici di quelli che propongono questo Grande Negoziato, perché lo ritengono impossibile, guardano solo un lato della loro medaglia, quella dove è effigiato lo status quo, e non quello dove è inciso il protezionismo e il degrado delle società, oltre che delle economie, se si lasciano le cose così come stanno. Lo stesso vale per coloro che ritengono la stessa cosa per gli accordi europei. In questo momento sono questi immobilisti di professione che prevalgono, ma finché qualcuno oppone ragionamenti efficaci, come fece Keynes in preparazione dell’Accordo di Bretton Woods in un momento drammatico per la storia dell’umanità, la speranza che si possa realizzare un grande negoziato non viene meno. E’ questo che il mondo si attende. E’ questo che gli inglesi hanno chiesto. Lo capiranno i grandi della Terra?

Paolo Savona, Il Foglio, 2 agosto 2016


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