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Gli errori della UE nel commercio e nella tutela degli investimenti esteri (di Marco Minossi)

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Negli ultimi giorni abbiamo osservato due evidenze lampanti sulla inadeguatezza dell’ Unione Europea nel gestire in forma capace, autorevole e quindi credibile importanti aspetti che vadano oltre quelle che sono oramai le uniche “specialità della casa”.

Quest’ultime sono rappresentate – come noto – dal rispetto ossessivo dei paramentri di Maastricht, dalle politiche di austerity dei bilanci degli stati membri, e dalla difesa dell’ unico comune denominatore creato per diciannove dei ventisette paesi facenti parte dell’aera UE, cioè l’Euro.

Ci soffermiamo in questo articolo su fattispecie concrete di grande importanza, la prima delle quali di carattere commerciale ( commerciale su scala mondiale, naturalmente, suscettibile cioè di turbare l’equilibrio degli scambi e della competitività di player-aziende di aree geografiche diverse); la seconda, invece, si è configurata come una tipologia di intervento difficile da etichettare nel suo carattere; diciamo che siamo in un limbo che si colloca tra la materia fiscale, quella della tutela degli investimenti stranieri, con forti possibili ripercussioni sulla co-operazione internazionale.

Prima di fare ordinato riferimento alle vicende specifiche, ci sembra corretto anticipare la fotografia emersa dal comportamento dell’ UE attraverso i suoi organismi: l’annullamento della certezza del diritto e di quella delle regole; oppure, se preferite, la conferma di ogni totale assenza di esse nell’ àmbito giuridico europeo.

Cominciamo dalla prima anomalia.

Sulla base di un pronunciamento avvenuto a novembre da parte del W.T.O., l’Organizzazione Mondiale del Commercio, l’ area UE rimasta a ventisette stati membri si trova a dover revocare i dazi doganali imposti sull’ import di minuteria metallica dalla Cina, quel flusso cioè di viti e bulloni che potrebbero sembrare robetta nel commercio mondiale, ma che valgono qualcosa come 72 miliardi di dollari, di cui 5,5 esportati dalla potenza asiatica nel mondo, con una quota di 1 miliardo venduta all’ Europa, fino all’avvento dei dazi “antidumping” del 2009.

Dio solo sa quanto chi scrive sia liberista, ma proprio per questo riluttante a scandalizzarsi quando la “ mano invisibile “ di smithiana memoria non viene ad essere quella del libero mercato, ma del legislatore garante della correttezza. Se il bullone prodotto, ad esempio, in un distretto storicamente specializzato come la Brianza, incorpora all’ interno del proprio prezzo di vendita una contribuzione fiscale e della previdenza di standard occidentale, nonchè il rispetto dell’ impatto ambientale da parte del processo produttivo e l’attenzione alla salute dei lavoratori, è evidente che non è accettabile considerare come concorrente un’ impresa cinese che tali gravami li ha in misura molto inferiore, o non li ha affatto.

Era quindi giusta e doverosa la correzione doganale dei meccanismi, proprio per poter continuare a parlare di “mercato”, e non di “bagarre”, o di “giungla barbarica degli scambi”. L’export cinese aveva di conseguenza assunto una dimensione più naturale e più umana di incidenza negli acquisiti delle aziende europee, quelle produttrici di Automotive su tutte, assestandosi al livello di 80 milioni di dollari nel 2014. Milioni, non più miliardi.

Ora, invece, per molti produttori europei arriverà la morte del business, dal momento che quel 84% di aliquota di tassa all’ import non graverà più su quanto fornito dal Pacifico.

La turbolenza nel settore si commenta da sola, le conseguenze anche, e sempre nel perfetto stile europeo di andare a discapito soprattutto di tipicità italiane, che non è detto debbano essere per forza maccheroni o abiti; del resto ( e poi si dice che uno pensa male ), in quale nazione è concentrata la quota nettamente più ampia della produzione europea nell’ Automotive? Quale stato padrone di fatto di questa Unione Europea, come conseguenza di un gran pastrocchio, andrà ad ottenere un premio anziché una penalizzazione? Deutschland , natürlich!

Ci dovrebbe ritornare in mente un’altra grande distorsione del mercato perpetrata a danno dell’ Italia, con la scusa di dover punire la Russia per l’ invasione della Crimea in Ukraina: le sanzioni economiche USA-UE ( cioè impositore e segugio passivo) contro Mosca: chi ha subìto e chi sta tutt’ora pesantemente soffrendo il conseguente blocco russo all’ import dei prodotti agroalimentari europei? E soprattutto, chi ha beneficiato della perdita per l’ Italia di questo mercato fondamentale, dai volumi e dai prezzi alti, per farsi rivedere al ribasso i listini in cambio dell’ assorbimento di quella quota di mercato evaporata per le nostre PMI dal primo agosto 2014? I due maggiori importatori di Food & Beverage italiano, Stati Uniti e Germania. Non fa una piega, nella logica di quella “capitale dell’ Europa” che inizia per B ma che non è certo Bruxelles ( di seguito la chiameremo semplicemente B).

E anche volendo sorvolare ( rimane difficile ma ci proviamo ) sulle questioni nazional-parrocchiali che tali “politiche” commerciali implicano, non possiamo fare a meno di prendere atto che il meccanismo distorsivo ed autodistruttivo dell’ Unione Europea ne comprova l’ assenza di ogni garanzia ad un quadro di regole commerciali certe.

Seconda questione, il provvedimento di recupero a tassazione della Commissione UE dalla Apple Inc. , colosso statunitense ma mondiale dell’ informatica, il cui brand ed il cui fondatore risiedono ormai nell’ immaginario collettivo planetario. Recupero quantificato in circa 12 miliardi di Euro, miliardo più, miliardo meno, dipenderà.

Non interessa in questa sede riprendere il merito della vicenda, né capire se la Repubblica d’ Irlanda, che ha attirato gli investimenti della Apple a condizioni fiscali spudoratamente privilegiate ma contrattualmente prestabilite, sia considerata da B parte lesa, oppure complice; si suppone con ragionevole certezza che chi legge un magazine come questo conosca tale querelle da diversi giorni tramite i media nazionali.

Ci ha colpito tuttavia la reazione che Radio24, nella voce del (molto) bravo Sebastiano Barisoni nel corso della trasmissione pomeridiana “ Focus Economia “ del 29 agosto scorso, ha fatto propria rispetto alla reazione ( ci scusiamo per la ripetizione) esternata dal portavoce del Ministero del Tesoro americano. Quest’ ultimo ha dichiarato che la decisione dell’ Unione Europea potrebbe minacciare gli investimenti stranieri, il clima degli affari in Europa e l’importante spirito di collaborazione economica tra USA e UE. Il conduttore ha osservato, perplesso se non scandalizzato, come non sia stato opportuno da parte del governo americano schierarsi a difesa di un’azienda privata connazionale, nell’ ingerenza rispetto ad una libera istituzione terza.

Ci rendiamo conto che sarebbe bello e comodo concordare, se non fosse che il messaggio è di ben altro tenore, lo stesso che questo articolo intende evidenziare: l’ Unione Europea non sarà forte sino a quando non sarà credibile ed al di sopra di ogni voltafaccia su lavori in corso.

Da quale autorità deriverebbe, si domanda Washington e dovremmo domandarci tutti noi, questa “ripresa a base fiscalmente imponibile”? Forse da una potestà di tipo fiscale, quando è noto che nel vecchio continente ogni stato mantiene la propria sovranità impositiva, le proprie imposte e le proprie aliquote disaggregate, in assenza di un regime di tassazione uniformato, e nonostante l’Euro?

O deriva magari – come è stato asserito – da un voler reprimere “ aiuti di stato “, quando è noto che l’ Irlanda, unico paese anglosassone rimasto all’ interno dell’ UE, è avvezzo da sempre alla cultura britannica del ruling, cioè della contrattazione individuale per interpello delle imposte che il contribuente si impegna a versare, se ed in quanto giudicate congrue dall’ amministrazione finanziaria?

In tal caso, deve configurarsi come “aiuto di stato” anche il differenziale tra il 12,5% di imposta sul reddito delle società in vigore in Irlanda ed il 27,5% di IRES prelevato in Italia, o il 15% più il 14-17% regionale della Germania?

Queste domande sono a nostro avviso self-regulatory: contengono le risposte.

Concludiamo domandandoci se questa situazione generale europea di incertezza del diritto, di volatilità delle regole di mercato e di precaria tutela degli investimenti stranieri remi o meno a favore della volontà di perseguire i problematici tentativi di conclusione del TTIP, il trattato di libero scambio tra USA ed UE che nessuno, di fatto, sembra volere.

Marco Minossi


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