Difesa
Difesa per l’Europa: la prima linea è nell’industria, non nei carri armati
La politica della difesa nella UE parte male: avere cento carri armati in più non serve, ma è utile avere un’industria che li possa produrre rapidamente se necessario, e lo stesso vale per munizioni e droni e tutto quello che è necessario in una guerra d’attrito
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Nel Vecchio Continente, il dibattito sulla difesa si fa sempre più acceso. La Commissione Europea, spinta dagli eventi in Ucraina, valuta persino la possibilità di fare debito per gli investimenti nella difesa, di escluderli dal Patto di Stabilità o, Dio non voglia, di usare il MES per finanziarli.
Un apparente atto di buon senso, una risposta logica a un conflitto che ci tocca da vicino e alla totale impreparazione industriale dell’Europa, che ora si trova schiacciata fra gli USA che vogliono spostare l’interesse sul Pacifico e la Russia che desidera ritornare a un’area d’influenza più simile a quella dell’ex URSS.
Eppure, dietro questa facciata di pragmatismo, si cela un errore di fondo, una pericolosa illusione.
La guerra in Ucraina, con la sua tragica contabilità di distruzioni e perdite, ci offre una lezione brutale ma inequivocabile: nell’era del conflitto di attrito, la vera forza non risiede nell’accumulo sterile di armamenti, bensì nella capacità industriale di produrli e sostituirli rapidamente. Illudersi di risolvere la questione della difesa con incentivi fiscali che permettano di comprare un po’ di carri armati e di costosissimi caccia è come pensare di poter sopravvivere ad una guerra nucleare in un appartamento perchè ci sono una ventina di scatolette di fagioli e carne nell dispensa.
I numeri indicano l’errore strategico
Guardiamo i numeri, impietosi e illuminanti. Dall’inizio del conflitto nel febbraio 2022, le perdite di mezzi corazzati sono state spaventose. Secondo stime verificate visivamente da Oryx, la Russia ha perso oltre 3.000 carri armati, di cui quasi 2.000 distrutti. L’Ucraina, dal canto suo, ha subito la distruzione, il danneggiamento o la cattura di oltre 1.000 carri armati [Oryx]. Questi dati, parziali e certamente inferiori alla realtà, dipingono un quadro chiaro: il campo di battaglia divora i carri armati a un ritmo impressionante.
Non meno eloquente è il consumo di artiglieria. L’Ucraina, per difendere le posizioni riconquistate, spara quotidianamente circa 6.000 proiettili da 155 mm. Le necessità mensili, stimate dal Ministro della Difesa Reznikov, raggiungono cifre astronomiche: 356.400 proiettili al mese, quasi 12.000 al giorno. E l’Occidente, pur aumentando la produzione, nel 2024 arriverà a produrre “solo” 1,3 milioni di pezzi, circa 3.600 al giorno : un’enorme voragine rispetto al fabbisogno.
La Russia, dal canto suo, nonostante un tasso di fuoco variabile, ha mantenuto una media di 10.000 colpi di artiglieria da 152 mm al giorno . E la sua industria bellica, a differenza di quella europea, ha saputo reagire, incrementando la produzione da 400.000 a 2 milioni di proiettili all’anno . Alcune stime parlano addirittura di 3 milioni . Il risultato è un vantaggio di fuoco russo stimato in sette a uno rispetto all’Ucraina .
A questo scenario di guerra di attrito, si aggiunge la crescente importanza dei droni. La Russia ha intensificato massicciamente l’uso di droni, passando da circa 400 attacchi nel maggio 2024 a oltre 2.400 nel novembre dello stesso anno, con altri 1.700 a dicembre Un recente picco, nel febbraio 2025, ha visto l’impiego di ben 932 droni in una sola settimana . Anche l’Ucraina risponde, con crescenti attacchi di droni a lungo raggio sul territorio russo , e punta a produrre un milione di droni nel 2024.
Cosa ci dicono questi numeri? Che accumulare arsenali statici, senza la capacità di rimpiazzarli rapidamente, è una strategia fallimentare. Costruire centinaia di carri armati, ammassarli in depositi polverosi, è un esercizio sterile se poi non si è in grado di mantenerli, ripararli, e soprattutto, produrne di nuovi in tempi di guerra. Lo stesso potrebbe dirsi con le munizioni, o con i missili e i droni. Non serve avere anche 1000 missili antiaerei nei magazzini, ma è utili avere una capacità industriale che può produrli in breve tempo.
La difesa non si fa con le cifre nei bilanci e con gli incentivi fiscali, ma con la robustezza del sistema industriale.
Dalla difesa “Virtuale” alla difesa “Reale”
L’Europa deve abbandonare l’illusione di una difesa “virtuale”, basata su costosi programmi di acquisizione una tantum e su una logica di “boutique” tecnologica.
Occorre un cambio di paradigma radicale. Non servono eserciti elefantiaci e costosissimi, ma forze armate agili, modulari, basate su mezzi progettati per la produzione industriale di massa.
Mezzi “giusti”, non necessariamente i più sofisticati o costosi, ma efficaci, affidabili, e soprattutto, facilmente sostituibili.
La vera politica di difesa è una politica industriale. Significa investire nella ricerca e sviluppo di tecnologie militari industrializzabili, sostenere le industrie strategiche, semplificare le filiere produttive, garantire la disponibilità di materie prime e di manodopera qualificata.
Significa creare un ecosistema industriale resiliente, capace di rispondere rapidamente alle esigenze del campo di battaglia, di adattarsi alle nuove minacce, di innovare costantemente.
Lo stesso concetto di industria della difesa deve essere rivoluzionato. Non si deve trattare del singolo impianto che, una tantum, mi produce il carro armato, o l’aereo, con una cadenza risibile e che non può essere incrementata. La politica industriale deve essere uno studio di identificazione e mantenimento in vita di industrie civili, attive produttivamente ed economicamente, che possano essere rapidamente convertite in industrie per la produzione militare e che, magari saltuariamente, vengano convertite per questo scopo.
Ad esempio l’industria che produce apparati per il dentista, qualcosa di completamente diverso dalla difesa, ma che comunque ha impianti e conoscenze per lavorazioni elettroniche metalmeccaniche, plastiche, dovrebbe avere un “Piano b”, sostenuto dalla difesa, per convertire rapidamente la produzione in quella di droni, e magari farlo saltuariamente, per soddisfare ordini della difesa. Questa industria in caso di necessità potrà fornire la capacità produttiva necessaria a uno sforzo difensivo.
In discorso può essere allargato a una molteplicità di produzioni industriali, dalla chimica alla meccanica all’elettronica, ma la Difesa è anche, anzi soprattutto, mantenere attivo, vivo e flessibile in sistema industriale. Il Ministero della Difesa dovrebbe studiarlo, conoscerlo, conversarvi, anche testarlo, per poter reagire con rapidità in caso di bisogno, non con appalti assurdi, costosi e che, quasi sicuramente, andrebbero deserti.
La risposta non è solo nel carro armato in più, ma la possibilità di costruirne decine
Defiscalizzare gli investimenti nella difesa, escluderli dai vincoli europei? Bene, ma è solo un primo passo, e rischia di essere inefficace se non inquadrato in una visione industriale più ampia e profonda.
L’Europa deve smetterla di inseguire chimere tecnologiche e di cullarsi nell’illusione di una difesa basata su quattro megaprogetti che poi, in pratica, portano a spese enormi e nessuna capacità produttiva. L’esempio negativo è quello del A400M, un aereo enorme, incredibilmente costoso, costruito in pochi esemplari, progettato per assegnare commesse ai singoli stati. Se domani fossero necessarie grandi quantità di mezzi di trasporto aereo, secondo voi, si costruirebbero pochi A400M, o si noleggerebbero e convertirebbero sulle linee di produzioni gli A320NEO nel modo più rapido possibile?
La guerra in Ucraina ci ha ricordato, nel modo più brutale, che la prima linea di difesa è la fabbrica. E che una politica industriale lungimirante è la vera, e più efficace, politica di difesa. Senza di essa, ogni altro sforzo rischia di essere vano, e pericolosamente illusorio.
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