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Analisi e studi

Di nuovi Augusto nemmeno l’ombra, ma attenti al «taglio dei senatori» (di Giuseppe PALMA)

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«Senatorum affluentem numerum deformi et incondita turba – erant enim super mille, et quidam indignissimi et post necem Caesaris per gratiam et praemium adlecti, quos orcinos vulgus vocabat.».

«Il numero dei senatori era costituito da una folla infame e rozza (erano infatti più di mille e alcuni completamente indegni, che fossero entrati, grazie a favori e alla corruzione, dopo la morte di Cesare e che il popolo definiva «del regno dei morti»).»
(Svetonio, “Augustus).

Il primo imperatore di Roma, Ottaviano Augusto, che dopo la morte di Giulio Cesare (44 a.C.) e una lunga guerra civile aveva gradualmente trasformato la Repubblica in Principato (23 o 27 a.C.), ridusse l’Istituzione più importante di Roma – il Senato – a mero organo di ratifica delle decisioni del Princeps. Formalmente il Senato conservava alcune delle sue prerogative tradizionali, ma nella sostanza non poteva fare altro che sottostare alle decisioni dell’imperatore, monarca assoluto.

Tra le prime riforme di Augusto vi fu guardacaso proprio la riduzione del numero dei senatori, che da 900 passarono a 600.

Talvolta i numeri e le coincidenze della storia sono sorprendenti e del tutto non casuali. Sono i “corsi e ricorsi storici” di cui parlava Giambattista Vico? Può darsi, fatto sta che è proprio nella storia che si trova la chiave di lettura per il presente e il futuro.

La Repubblica resse dal 509 a.C. al 27-23 a.C. e, quando giunse alla fine, Roma era ancora grande e con un grande futuro davanti a sé. Duecento anni prima aveva sconfitto Cartagine e non aveva più rivali che ne potessero compromettere il dominio.
La Roma imperiale, invece, nonostante avesse raggiunto una espansione territoriale mai conosciuta in passato, cadde definitivamente nel 476 d.C.
Mille anni di continuità che nella storia del mondo occidentale non si ripeteranno mai più.

Eppure la Roma repubblicana, col suo Senato e i suoi consoli, resistette valorosamente agli attacchi di Annibale; la Roma imperiale, coi suoi imperatori dispotici e un Senato oligarchico, cedette ai barbari.

Augusto ridusse il numero dei senatori e, al tempo stesso, concentrò su di sé alcuni dei poteri senatoriali, trasformando la forma di stato da repubblicana in imperiale e quella di governo da senatoriale in principato. Oggi, con la riduzione del numero dei parlamentari, non v’è stato in parallelo alcun bilanciamento costituzionale: sarebbe stata infatti opportuna l’elezione diretta del Capo dello Stato (al quale occorreva assegnare quantomeno la facoltà dell’iniziativa legislativa), e invece si è creato un Parlamento oligarchico, un’assemblea che risponderà sempre più alle segreterie di partito e sempre meno al popolo.

Per carità, tirare per la giacca la storia è sempre sbagliato, ma queste similitudini non possono non aprire un dibattito, una riflessione. I Parlamenti, tanto nell’Era antica che in quella moderna, nacquero non per dare efficienza o per migliorare la qualità delle decisioni, bensì per rallentare il processo decisionale, per meditare le decisioni nell’interesse generale. Se volete rapidità, un’assemblea oligarchica è l’ideale, ma non chiamatelo Parlamento. Non chiamatela più democrazia rappresentativa.

Giuseppe PALMA

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Consigli letterari sull’argomento:

– di Paolo Becchi e Giuseppe Palma, “Una riforma sbagliata. Dodici motivi per dire NO al taglio dei parlamentari“, Gds, febbraio 2020. Qui per l’acquisto ?: https://www.amazon.it/Una-riforma-sbagliata-Dodici-parlamentari/dp/8867829920/ref=mp_s_a_1_1?dchild=1&keywords=una+riforma+sbagliata&qid=1597305132&sr=8-1

 

 


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