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DETROIT: IL FALLIMENTO DI UN MODELLO DI CITTÀ E ALCUNI ESEMPI ITALIANI.

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FI LA

In questi giorni ha fatto notizia l’annuncio di fallimento di Detroit, nota città industriale e patria dell’industria automobilistica americana. Un evento di tale portata, il fallimento di una città intera, dovrebbe farci riflettere sulle cause. Nel 2010 la popolazione di Detroit città era composta per l’ 82.7 da neri, mentre la popolazione bianca aveva preferito ritirarsi nei sobborghi adiacenti. Queste statistiche sono valide ancora di più oggi e ci si riferisce a questo fenomeno con il termine di White Flight, la migrazione della popolazione bianca da zone urbane tradizionalmente eterogenee a zone suburbane più omogenee per etnia. Molti fanno risalire queste fughe verso aree più tranquille alle rivolte dei neri del 1967, con il risultato che  in città restò soprattutto la minoranza di colore, meno abbiente e con una base imponibile di gran lunga inferiore. Da qui l’attuale fallimento. Questo fenomeno è però la conseguenza, non la causa, del declino di Detroit.   In particolare  tutto si può ricondurre a delle politiche urbane sbagliate e al fallimento del modello della città diffusa, in inglese denominato Sprawl. Con questo termine si indica una crescita della città dall’interno verso l’esterno e  il segno caratteristico è la bassa densità abitativa. Per questo parliamo di dispersione urbana e riguarda città di medie e grandi dimensioni. Questo fenomeno è in continua crescita in tutto il mondo, Europa inclusa.

Nel caso specifico di Detroit, la città aveva una popolazione di 1.8 milioni nel 1950 mentre ad oggi è di 700.000 persone. La maggior parte della popolazione si è spostata nei sobborghi e di fatto la città, intesa come area metropolitana, si è espansa. Infatti tra il 1970 e il 2000, la popolazione  risultava scesa del 2% mentre la sua superficie è aumentata del 45%. Quello che è successo è stato letteralmente uno svuotamento della Detroit propriamente detta, del suo centro (il downtown), a favore dei sobborghi.  L’affermarsi dell’uso massificato dell’automobile e delle autostrade (le famose freeways americane), unito al desiderio delle classi medie e alte della classica casa unifamiliare con giardino e garage, ha portato a quegli sterminati sobborghi di villette tutte uguali, intervallate da qualche chiesa e dai centri commerciali (gli Shopping Mall) che ben conosciamo.  Questo è perciò uno degli elementi della crisi della car city americana.  L’altro è stata la mancata diversificazione dell’economia e la fallimentare politica di riqualificazione del centro. Detroit è una sorta di “One Company Town”, una città fondata sull’industria automobilistica,comparabile per il suo forte ruolo industriale a Pittsburgh. Ma mentre Pittsburgh è riuscita a mantenere attrattivo il suo centro, proponendolo come valida alternativa alla vita suburbana, così non è stata in grado di di fare Detroit e la sua amministrazione.  Anche le politiche di New York sono da elogiare, così come quelle di Los Angeles. Quest’ultima, caratterizzata da un esteso sistema di autostrade, dai raccordi vertiginosi, e esempio per eccellenza di Urban Sprawl, è riuscita a rendere una downtown , prima desolata e vuota, un nuovo potenziale fulcro cittadino, con musei e nuove piazze.

Le città storiche italiane non sono purtroppo immuni a questi fenomeni. L’ignoranza dei nostri politici, la pochezza dei media e della classe dirigente, tutto ha contribuito a rendere estremamente fragile un sistema urbano centripeto consolidatosi nei secoli. Ad oggi la città storica italiana, con il suo centro e le sue piazze, è solo una cartolina. La città di Venezia è ormai svuotata di funzioni, se non legate al turismo e alle due Biennali, mentre l’area metropolitana veneziana, che ormai comprende le province di Venezia, Padova e di Treviso, è sempre più integrata. Siamo stati in grado di distruggere un insieme di simboli, dalla bottega , al campanile, alla piazza in cambio di autostrade, multisala e centri commerciali, con il consenso di tutti.

Prendiamo altri esempi, cominciando dal più vicino a Detroit: Torino. Torino, città Fiat, è per la sua base industriale molto simile alla città americana e vive una crisi profonda, nonostante i tentativi, a partire dagli investimenti per le Olimpiadi, di riproporla come città turistica, dei servizi e nuovo polo culturale, alternativo alla sua concorrente Milano. La realtà è molto diversa, Torino ad oggi è al vertice delle città più indebitate d’Italia, con 4 miliardi di euro di debiti e l’impossibilità di intraprendere nuovi investimenti. Questo rientra nel caso peculiare tutto italiano di ricercare soluzioni economiche palliative attraverso grandi emergenze o grandi eventi, dalle Olimpiadi Invernali di Torino  all’Expo 2015 di Milano ai Mondiali di ciclismo di Firenze. Il  risultato sono solo operazioni di chirurgia estetica senza politiche strutturali a lungo termine.

Altro caso, per me il più grave, è quello di Firenze, città analoga a Venezia, preda di un turismo di massa veloce che non porta ricchezza né alla città né a chi la visita.  A Firenze decenni di politiche urbane sconsiderate  hanno portato il centro storico a svuotarsi di funzioni, che non siano legate al turismo, agevolando la chiusura di librerie, cinema e artigianato che facevano il centro attrattivo per viverci, studiarci e lavorarci. Uno dei primi segnali è stata la scelta di decentrare la maggior parte delle facoltà universitarie, così come il Tribunale, privando il centro di alcuni simboli essenziali. Le successive politiche di pedonalizzazione senza criterio, non accompagnate da investimenti essenziali nel trasporto pubblico, hanno portato sempre più al degrado del centro storico. Forse l’Italia, con tutte le varianti del caso, potrebbe non essere immune da altri casi Detroit.

di Donato de Vivo

http://megalopolisnow.com/2013/07/27/detroit-il-fallimento-di-un-modello-di-citta-e-alcuni-esempi-italiani/


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