Politica
Democrazia come forma di totalitarismo
La politica non è un esercizio di pedagogia, e bisogna dubitare della sincerità delle convinzioni democratiche di politici che credono all’esistenza di una sola soluzione; magari involontariamente, essi sono i precursori del totalitarismo.
(Jacques Sapir, 1997, p.265).
La domanda è tutt’altro che scontata, soprattutto visti i risvolti attuali. I vari leader europei si mostrano molto preoccupati da quelle che vengono definite tendenze populiste e demagogiche, ma da cosa si capisce cos’è la demagogia? Ovviamente finché gli organi di informazione (qualcuno li chiamerebbe di disinformazione) saranno dalla parte delle oligarchie, nonostante le costanti critiche alla corruzione della politica non avverrà una reale delegittimazione del sistema nel suo insieme. Insomma, finché un grosso numero di persone sarà convinto che esistono mali minori e mali peggiori, elettoralmente parlando, la situazione rischia solo di deteriorarsi ulteriormente. A tal proposito rimane anche da chiedersi cosa intendano per ‘democrazia’ i politici italiani e gli eurocrati e in che cosa si sentano ‘democratici’, la questione non è affatto scontata: se si sentono ‘democratici’ alla maniera dell’Honduras, allora si possono capire tante cose. Esagerazione? Affatto, chi ha eletto Herman Van Rompuy?
Esiste in ogni paese del mondo una pericolosissima specie, ossia coloro che sono convinti dell’ esportabilità del modello democratico-liberale, ciecamente convinti del bisogno viscerale di tutti i popoli di adottare tale credo. Tra questi l’americano Fukuyama pensa che le democrazie liberali rappresentino il punto finale dell’evoluzione ideologica dell’umanità e la forma finale di governo dell’uomo, ma non solo, lo studioso americano si spinge fino ad affermare la fine delle competizioni geopolitiche e le guerre tra stati democratico-liberali (Fukuyama, 1996, p.4-18); tale visione teleologica pecca di arroganza intellettuale, è alquanto limitata e al contempo potrà mostrarsi presto terribilmente sbagliata. Già alla fine degli anni ’70 altre azzardate previsioni geopolitiche si dimostrarono inconsistenti. Secondo Yves Lacoste nel 1978 l’Europa ha riscoperto la geopolitica quando il Vietnam invase la Cambogia e la Cina invase il Vietnam: tutto ciò contribuì alla fine dell’idea secondo la quale tra stati socialisti non potessero nascere conflitti (Lacoste, 1990, p.17), idea nata dal fatto che Stalin aveva dato l’ordine di considerare la geopolitica mera espressione del pensiero politico nazista (Jean, 2003, pp.3-6). Fukuyama in Esportare la democrazia, dopo aver preso altezzosamente atto del fatto che la democrazia liberale e liberista ha rappresentato l’anello finale dell’evoluzione socio-economico mondiale analizza le modalità con le quali diffonderne tale modello per il mondo, quasi come se esso potesse rispondere alle esigenze di tutti i popoli, e come se questi ultimi fossero davvero costretti ad adattarvisi. Inoltre il concetto ambiguo degli stati canaglia a detta di taluni rappresenta una sorta di infiltrazione di mentalità fondamentalista nel modo in cui l’Occidente si pone nei confronti del resto del mondo e di chi non ne segue i criteri cardine; le misure prese per punire questi stati dissidenti sono di diverso tipo, si va dagli embarghi alle guerre, tutte misure che poi nei fatti si traducono in ritorsioni contro le popolazioni civili (Habermas, 2005, pp.169-173). Se questa è la democrazia allora alla sua base vi è un qualcosa di totalitario; oppure questa non è democrazia. Di per sé questa parola non ha assolutamente un significato negativo, ma il pericolo è quello che essa si trasformi in demagogia. L’ambiguità lessicale del termine democrazia comunque è molto alta e controversa (Mastropaolo, 2011, pp.21-45).
La democrazia per i greci non aveva un’accezione economico-finanziaria. Platone nella Repubblica metteva in guardia dal pericolo di assegnare cariche politiche ai mercanti. Cos’è successo quindi? Perché la rappresentazione che la democrazia fornisce di sé stessa appare oggi indissolubilmente legata a quella che viene definita economia di mercato? C’è chi parla addirittura di una futura frattura geopolitica vera e propria tra quei paesi che si piegheranno del tutto all’economia di mercato globale e quegli stati che metteranno in gioco forme più o meno forti di resistenza (Friedman, 2000, p.57). Inoltre molti paesi che hanno adottato le misure di liberismo estremo in realtà hanno peggiorato la propria situazione in maniera esponenziale. Si aggiunga che riconducendo la questione delle trasformazioni strutturali al solo problema della privatizzazione, il gergo economico assume una dimensione neologistica degna del 1984 di Orwell (Sapir, 1997, p.50); la questione peraltro non è insignificante se si pensa al significato misterioso ed esoterico che parole quali spread, bund, btp hanno avuto e continuano ad avere per una larga parte di popolazione italiana. Il liberismo da molti oramai palesemente confuso con la democrazia mostra tutte le sue tendenze autoritarie: il disegno neoliberale della società del mercato mondiale conta sulla emarginazione dello Stato e della politica. […], mentre il diritto internazionale destatalizzato si trasforma in un ordinamento privatistico su scala mondiale, che istituzionalizza il traffico del mercato globalizzato. Il dominio delle leggi che si autoeseguono non avrà più bisogno di alcuna sanzione statale, perché le funzioni di coordinamento del mercato mondiale bastano a una integrazione pre-statale della società mondiale (Habermas, 2005, pp.188-189). Domanda che sorge spontanea è: cosa c’entra tutto questo con la democrazia?
Ancora più inquietante è l’idea kantiana che propugna l’annullamento delle tendenze particolari di cui si fanno portavoce gli stati membri dell’ONU: annullarne il carattere di democrazia dal basso di cui in teoria i suoi rappresentanti si fanno portavoce, eliminando in questo modo ogni pretesa di sovranità, che se magari va sempre a discapito di qualcun’ altro, in questo modo non andrà più a vantaggio di nessuno, creando nel sistema internazionale quasi una sorta di paralisi (Habermas, 2005, pp.134-143). Per taluni l’Onu è un’istituzione corrotta alla base, che nonostante le istanze moralistiche e umanitarie di facciata, nei fatti è chiaramente complice dei potenti e delle proprie malefatte (Marcon, 2000, p.114). Alla luce di tutto quello che è successo negli ultimi decenni come si fa a non dare ragione a chi sottoscrive queste affermazioni? Evidentemente spessissimo la retorica dei ‘diritti umani’ è collusa davvero con gli interessi di attori terzi. Quindi come si può pretendere di prendere per buone le notizie a senso unico nei confronti di ipotetiche violazioni dei diritti, ad esempio in Russia o Cina, senza pensare un attimino che queste informazioni mirano proprio a delegittimarne le autorità? E si badi bene che questo non significa pensare che gli stati accusati in questione (ovviamente ve ne sono tanti altri) non abbiano effettivamente pratiche autoritarie; ma francamente è offensivo, per chi non ha il prosciutto negli occhi, sapere che i propri media abbiano da ridire solo sulle pratiche poco trasparenti di stati non proprio allineati al diktat mondialista. E inoltre la cosa che fa più pensare è proprio che tali pratiche sono tipiche delle dittature: e in una dittatura viviamo pure noi occidentali da molti punti di vista se ancora oggi nelle nostre carceri o nelle nostre questure ogni tanto qualcuno muore in circostanze poco chiare, se i nostri ‘alleati’ americani hanno ancora campi di concentramento (perché sono questo) dove ospitano i dissidenti politici -li chiamano terroristi- e se in Inghilterra (patria della disuguaglianza sociale) lo stato spenda cifre stratosferiche per il mantenimento della famiglia reale e per i funerali della Thatcher quando poi ha avviato un programma di smantellamento dello stato sociale, e dove il dissenso viene represso con le bastonate della polizia. E quindi che ci si levi una volta per tutte quell’aria di disgusto e non approvazione quando si parla di paesi non allineati, quando poi a casa nostra (l’Occidente), giorno dopo giorno si sprofonda verso il basso. Non sarà fare la guerra a qualche paese non democratico a cambiare le cose, i panni sporchi si lavano in famiglia diceva qualcuno: forse bisognerebbe ricordarselo prima di dire a qualcun altro come essere. È per questo che i paesi europei hanno bisogno di sganciarsi dall’Onu, che qualcuno potrebbe definire un’associazione finalizzata alla truffa. È importante che un ipotetico blocco europeo deamericanizzato non dia più tutta questa legittimità ad organizzazioni chiaramente pilotate dagli Usa. L’hitlerizzazione o la saddamizzazione che dir sì voglia di presunti nemici dell’Occidente sono strategie subdole di cui un’Italia che non ha bisogno di guerre deve mettere da parte, per iniziare una volta per tutte a dare soluzioni vere solamente ai propri problemi interni. Proprio per questo è necessario non appoggiare più le ‘missioni di pace’, ritirare i nostri contingenti militari sparsi per il mondo e utilizzarli solo per quello che servono: difendere la nazione in caso di aggressioni. Anche perché, gli italiani non hanno nulla da guadagnare da un sistema neocoloniale, cosa che arricchisce solo le élite.
C’è addirittura chi parla di un sottile limes tra informazione e propaganda, tra i tantissimi difetti del giornalismo italiano quelli più fastidiosamente presenti sono il sensazionalismo e la spettacolarizzazione, fattori questi indicativi di un regresso generale. Inoltre solitamente manipolazioni e distorsioni della verità sono attribuite ai regimi totalitari, ma analizzando correttamente quello che è il giornalismo italiano ci si potrebbe porre qualche legittimo dubbio. Insomma, per qualcuno, il tetro termine propaganda sarebbe stato semplicemente sostituito dall’innocente parola informazione, per il resto sarebbe cambiato molto meno di quello che si pensa (Boria, 2012, pp.113-123). In questo paese teoricamente c’è libera informazione ma nei fatti chi viene ‘informato’ conosce solo quello che gli si vuole dire, si pensi ad esempio al fatto che le testate giornalistiche e le televisioni traggono le proprie informazioni da agenzie ben precise [1]. Quando vi è penuria di immagini, il trucco diventa regola e la «bufala» viene considerata un’invenzione geniale per fare audience. […] Difatti, i network forniscono rapidissime sequenze di immagini, in cui quelle successive cancellano le precedenti, senza consentire nessuna valutazione di veridicità […]; così, le smentite sono parziali e trasmesse in modo tale da non suscitare l’attenzione e le emozioni destate dalla prima notizia, anche perché tra i media non viene utilizzata la teoria del sospetto o la dietrologia sulle notizie altrui […] (Jean, 2003, p.185).
Inoltre l’atteggiamento assunto da parte dei politici, soprattutto durante i periodi di campagna elettorale, deve moltissimo ai meccanismi di marketing pubblicitario, puntando sugli impulsi più semplici degli spettatori più passivi; ma non è tutto, secondo qualcuno ancora più pessimista-realista in realtà le menti umane sarebbero modellate ad hoc, i gusti corrisponderebbero a parametri ben precisi e le idee suggerite appositamente. L’illusione di vivere in una società democratica, nell’accezione greca del termine, unita alla sensazione che tale modello sia superiore a tutti gli altri presenti sul pianeta porta con sé il rischio di prendere per buono tutto quello che i media propinano. Come non dimenticare quando, di recente, per giustificare l’intervento in Libia [2] si parlò di fosse comuni nei quali i miliziani di Gheddafi avrebbero buttato civili inermi, mai inquadrate da nessuna telecamera; o ancora più recentemente quando nella vergognosa campagna di delegittimazione nei confronti di Bashar Al Assad i nostri ‘liberi’ mezzi di informazione dissero che i carri armati del regime utilizzavano come scudi umani bambini? Le democrazie nonostante in teoria ripudino la guerra nella pratica proprio a causa del loro fondamento democratico, esse possono mobilitare il consenso solo negando la natura geopolitica del conflitto e caricandolo di un surplus di motivazioni ideologiche, fino a demonizzare l’avversario e a trasformare ogni guerra in una crociata (Jean, 2003, p.81). Viviamo dunque una perenne ed estenuante rincorsa: in ogni momento storico cogliamo i meccanismi della propaganda del periodo precedente, ma mai quelli del periodo in corso (Boria, 2012, pp.113-123). Ovviamente in Italia esiste tutta una giurisdizione che si occupa di sanzionare i falsi giornalistici (Casillo et al., 1997, pp.163-214), ma su quanto essa sia funzionante si potrebbe nutrire qualche legittimo dubbio [3]. Quali poi siano le differenze con la propaganda dei paesi sotto dittatura è un altro mistero irrisolto. In realtà, tanto più forte è la rimozione del dibattito pubblico sugli interessi nazionali, tanto più essi saranno definiti in modo oligarchico e antidemocratico (Jean, 2003, p.58): la situazione è esattamente questa. Qualcuno osserva che il dibattito sull’Ue sia abbia una funzione democratizzante, poiché la critica alle istituzioni è un elemento fondamentale della legittimazione democratica (Caiani e Della Porta, 2006, p.24); se così è allora bisogna arrivare alla conclusione che alla base delle istituzioni nazionali e sovranazionali in Europa vi è davvero un problema di trasparenza. Le modalità con le quali sono trattati tutti i gruppi ‘euroscettici’ di certo non è neutrale. Gli aggettivi affibbiati ai gruppi che si oppongono all’Ue sono sempre e solo negativi. Ne consegue che un reale dibattito sull’appartenenza a quest’Europa è del tutto assente in Italia. Non è un mistero che tutte le formazioni euroscettiche siano considerate dai media alla stregua di gruppi irresponsabili e estremisti, e come tali vengono trattati.
Già all’inizio degli anni ’90 nella percezione di molti cittadini di paesi membri dell’Unione Europea si segnalava che alla base di tale istituzione vi fosse un deficit democratico (Caiani e Della Porta, 2006, p.9). Andrebbero poste alcune domande, innanzitutto l’Ue è un organismo democratico? Agisce in maniera davvero democratica? C’è chi afferma che le istituzioni ‘europee’ mancano di legittimità democratica vera e propria (Kupchan, 2003, pp.173-174). Può la democrazia diventare una nuova forma di totalitarismo? Perché l’uomo occidentale (per lo meno le sue élite intellettuali e politiche) si credono il fine ultimo della storia? Perché la visione teleologica dei marxisti ha contaminato così tanto il mondo occidentale fintanto a spingerlo ad una delirante percezione di superiorità rispetto a tutti gli altri modelli? E si badi bene che stiamo parlando del modello iperliberista di cui la Germania e i vertici di Bruxelles si fanno portavoce. Perché i teorici del pareggio di bilancio ad ogni costo credono che il loro modello sia superiore agli altri? Ma soprattutto come fanno ad essere così dogmaticamente convinti che esso sia esportabile in altri contesti? L’epiteto di Pigs come sono gentilmente soprannominati i paesi non virtuosi non è mai stato letto in maniera critica, anzi accettato dall’opinione comune come un modo per fare di più, per assomigliare ai paesi nordici (intento cui acriticamente mirano le formazioni europeiste di centro sinistra e di centro destra), ma il modello teutonico è davvero così virtuoso? Sicuramente è più solido di tanti altri ora come ora, ma Berlino ha davvero messo da parte le istanze sovraniste in nome di un Europa comune o sta solo perseguendo finalità di natura imperiale come del resto ha tentato di fare in due conflitti mondiali? A maggio 2013 è stato rilevato che l’unico paese dell’Ue che ha registrato miglioramenti economici è stata proprio la Germania, anche a discapito della Francia.
Nel frattempo sembra che le tesi dell’estremismo americano sul cosiddetto scontro di civiltà (Huntington, 1996) si siano in qualche modo imposte pure nel Mediterraneo (Cadullo, 2011, pp.207-229) -visto come area di confine tra presunta civiltà Occidentale e presunta civiltà islamica- e nel sistema europeo in generale, in maniera velata ma insistente; l’ossessione nordica e l’arroganza sempre più ripetitiva secondo la quale l’Europa del nord sia virtuosa e quella del sud lassista e parassitaria è diventato un ritornello nelle élite europee, questo sicuramente non lo si può dire apertamente perché se no il cosiddetto antieuropeismo crescerebbe ancora di più al sud, ma è palese e sotto gli occhi di tutti. Da quando i paesi dell’Europa dei Piigs hanno abbracciato il rigorismo europeo e la sua moneta unica perdendo la propria sovranità monetaria effettivamente il tracollo economico è diventato reale, ma paradossalmente esso è arrivato dopo avere adottato l’euro. La crisi è finanziaria o economica? La colpa dei paesi mediterranei è reale e atavicamente insita nelle proprie cattive usanze o c’è qualcosa in più da dire? L’Italia senza entrare in Europa si sarebbe davvero impoverita? Per anni ogni critica della nuova moneta europea è stata considerata un affronto e un vero e proprio tabù; adesso guarda caso che la situazione è peggiorata sempre più gente ha smesso di prendere per buone le motivazioni ‘europee’ ed ha iniziato ad interessarsi di economia in maniera meno dogmatica. Ma la domanda principale è: perché agli italiani non è stato chiesto se volevano adottare l’euro?
Inoltre negli ultimi anni hanno preso sempre più piede stereotipi ‘mediterraneisti’, ossia legati all’idea di una presunta omogeneità di tutte le aree che si affacciano su questo mare, caratterizzate da ipotetiche culture che necessitano sempre dell’intervento esterno dell’Occidente per potersi evolvere (Cadullo, 2011, pp.207-229); in tutto questo il ruolo dell’Unione Europea sicuramente è stato complice della crescita di queste idee razziste nei confronti degli abitanti dell’Europa meridionale.
La precarietà lavorativa storicamente è connaturata alla cultura nordica, soprattutto a quella anglosassone, infatti maggiore indipendenza individuale significava anche maggiori rischi. Al contrario le culture mediterranee tendenzialmente hanno sempre avuto la tendenza a proteggere maggiormente i membri della famiglia, fino ad arrivare al cosiddetto ‘familismo amorale’ del quale si è parlato e ipotizzato parecchio (Galland e Yannick, 2007, pp.57-69) con spirito disgustato e critico. Quello che mi preme dire a prescindere dalle analisi storiche ed etnografiche, che comunque sono necessarie, è quanto l’Unione Europea abbia la tendenza a mutare in maniera tacita ma al contempo violenta usanze storiche consolidate. Mai quanto oggi non si può non parlare delle analisi weberiane, che già all’epoca enfatizzarono quanto determinati aspetti del capitalismo fossero ascrivibili all’etica protestante. Forse quella del sociologo fu per certi versi un’estremizzazione, ma troppi aspetti della sua analisi hanno punti di vista interessanti da tenere in considerazione, che per certi versi possano essere riconsiderati attuali.
Il trattato di Maastricht è diventato il simbolo del fatto che ha vinto il rigore sulla solidarietà, e che lo stato sociale è stato sacrificato in nome del neoliberismo (Caiani e Della Porta, 2006, p.10).Alcune analisi hanno dimostrato che di Europa si parla poco e se ne sa ancora meno; è stato inoltre anche dimostrato che il Parlamento europeo tende a lavorare in maniera riservata (Caiani e Della Porta, 2006, p.27). L’illusione dell’unità europea ha portato ad una cieca e dogmatica incapacità di vedere quanto i paesi dell’attuale Ue fossero differenti per cultura, politica e storia. Quando ci si è accorti che c’erano dei problemi si è cercato di risolverli aumentando i vincoli europei, senza mai realmente chiedersi se essi al contrario non fossero invece i mali che affliggono il vecchio continente. Ma il problema non è solo europeo: schiere di analisti, studiosi e politici sono convinti del bisogno di diffondere il modello democratico-neoliberista, paradossalmente anche quando la domanda stessa di democrazia, o per lo meno quello che intendono con tale termine questi luminari, in molti paesi è inesistente o quasi (Fukuyama, 2005, pp.49-58). Ma ricordiamoci sempre che stiamo parlando di economisti che sostengono la necessità della privatizzazione di tutti quei settori controllati dallo stato. Gli unici effetti cui abbiamo assistito finora, come in Argentina, sono stati l’aumento generale del costo della vita, l’esproprio di risorse che erano nazionalizzate e la creazione di stati in odore di mafia. Negli ultimi tempi le nostre tv sono state infestate da ciarlatani che hanno detto che le uniche soluzioni erano le liberalizzazioni in economia e l’aumento della competitività, vale a dire il ritorno a forme di schiavitù legalizzate. Questo lavaggio del cervello fin ora è solo servito ad aumentare la disoccupazione. Staremo a vedere quali saranno i risultati dei prossimi vent’anni di austerità economica, perché questo sacrificio impone la ‘Grande Germania’ per poter creare la nuova Europa; che poi vi vada di mezzo tutta una generazione sono dettagli per qualcuno, per altri meno, ma ci si ricordi una cosa: sull’altare della storia spesso sono state sacrificate le masse, pensare che ciò non possa più accadere è sintomatico di ottusità. L’esperimento è già stato provato in ex Jugoslavia, e ha prodotto esiti disastrosi. Pensare che l’Italia non sarà offerta in sacrificio potrebbe rivelarsi sbagliato. È per questo che il diritto alla ribellione è vitale, e si deve iniziare a pensare che un domani esso dovrà essere seriamente preso in considerazione, non più solo a parole.
Un’altra questione che per certi versi potrebbe sembrare paradossale è quella inerente gli effetti nefasti, per taluni, che la democrazia potrebbe arrivare a produrre. Il concetto è ambiguo e preoccupante. Secondo analisti come Fukuyama le masse, proprio esercitando il loro diritto di voto potrebbero portare al potere elementi deleteri o macchiarsi di crimini orribili. Si tratta di una vera e propria contraddizione in termini a cui gli apologeti della democrazia liberale vanno incontro spesso, ossia, il fatto che proprio le masse votando democraticamente hanno portato al potere capi come Hitler e Milosevic. Per Fukuyama l’intervento internazionale è necessario quando ci si trova in situazioni come queste. E’ un ragionamento pericoloso a mio avviso, perché mentre da un lato mina il significato stesso di democrazia, o comunque elimina totale legittimità al modo in cui viene intesa la parola democrazia da parte delle élite dominanti del mondo, dall’altro giustifica le ingerenze e le guerre preventive dai pericoli cui i popoli non ‘illuminati’ potrebbero andare incontro votando democraticamente (Fukuyama, 2005, pp.150-155). Allora ci si perdoni, ma un dubbio pervade la mente di chi sta scrivendo queste righe: a cosa serve la democrazia se proprio questa può portare a diventare non democratica? Ma soprattutto, come si fa a giustificare democraticamente un’ingerenza preventiva causata dall’uso stesso della volontà democratica di un popolo? Da questo non ne consegue che la democrazia, come viene intesa nella sua accezione liberale-liberista in realtà in fondo non sia assolutamente democratica? Si pensi in fondo al fatto che la ‘democrazia’ per eccellenza, ossia gli Usa rispettano molto più sul piano internazionale stati come quelli della penisola araba che quelli ‘canaglia’ come l’Iran; e intanto i primi sono molto più tirannici, diseguali e integralisti, rispetto allo stato persiano che mostra molto più interesse pure per i bisogni del suo popolo e in cui il petrolio è nazionalizzato. Allora francamente una cosa va detta: la democrazia all’americana è una bufala, e per questo non va più rispettata.
C’è addirittura chi distingue all’interno del variegato insieme di quello che si intende per ‘democrazia’ determinati livelli diversi l’uno dall’altro, particolarmente interessante è il concetto di democrablanda, ossia un sistema nel quale tutte le forme democratiche sono conservate, ma l’esecutivo ha un peso preponderante con forme di adulterazione economica e politica mantenute sconosciute alla popolazione e dove non manca malfunzionamento e imprevedibilità della durata dei processi (Politi, 2011, pp. 27-34). Direi in tutta sincerità che l’Italia si trova in questa categoria, per quanto gli apologeti a priori della nostra forma di governo non riusciranno mai ad accettarlo. In Norvegia per due volte è stato chiesto se si voleva adottare l’euro con un referendum e per due volte si è risposto di no. In Italia la politica ha illuminatamente fatto il favore agli italiani di pensare e scegliere al posto loro. Evidentemente la nostra democrazia funziona così bene da riuscire a capire cos’è meglio per un popolo, risparmiandogli la fatica di dover pure scervellarsi per capire cosa è preferibile e cosa non lo è.
Una parentesi andrebbe pure fatta sul ruolo della cosiddetta ‘libertà d’opinione’. Per essere utile un dogma non deve essere necessariamente oggetto di un’adesione convinta e sincera. Deve intimidire i sudditi e diffondere la convinzione che ogni affermazione contraria sarebbe politicamente scorretta. Convinzione comune infatti è che nelle ‘democrazie’ si possa dire quello che si vuole, cosa che nelle ‘dittature’ non avviene o è mal tollerata. A mio avviso il primo postulato innanzitutto non è assolutamente vero. Nelle ‘democrazie’ infatti non si può dire quello che si vuole, anzi, ci sono tutta una serie di categorie intoccabili sulle quali non è possibile in realtà dissentire. Un esempio può essere il popolo ebraico e il suo ruolo storico, che oramai non è più analizzato in maniera obiettiva proprio perché si è creato una sorta di muro protettivo nei suoi confronti e tutta una mitologia dell’intoccabilità che non permettono di parlare in maniera critica di alcuni aspetti [4]. Insomma, piano piano si stanno venendo a creare dei tabù ideologici mascherati di umanitarismo. Ma la stessa cosa si potrebbe dire di altre ‘categorie protette’ come gli omosessuali, ma la lista sarebbe lunga. In fin dei conti pare quasi che l’ ‘evoluzione’ in corso stia portando ad una situazione nella quale le masse sono sempre più criminalizzate, e in cui solo le minoranze sono apparentemente tutelate, con un atteggiamento che ha più a che fare con le modalità con le quali ci si cura delle specie animali in via di estinzione, piuttosto che con uno spirito di reale rispetto. Nell’altare del politicamente corretto i diritti di pochi diversi si scoprono irrimediabilmente più importanti di quelli di milioni di uomini formica, il cui unico privilegio diventa solo quello di emigrare dalla propria terra. In tutto questo le minoranze si prestano al gioco perverso del potere, che le usa a suo piacimento per mantenere lo status quo. In Francia Hollande ha vinto le elezioni anche per l’appoggio dei gruppi gay, ma la sua politica si sta dimostrando sostanzialmente fallimentare e allineata al modello neoliberista. Quindi, che la libertà d’opinione nelle ‘democrazie’ sia sempre presente non è un dato di fatto. Se è per questo non si può neanche insultare il presidente della Repubblica, perché se no in teoria si può finire in carcere.
Adesso andrebbero spese alcune parole anche sul ruolo della violenza nelle società ‘democratiche’: essa è sempre condannata dalle autorità, e pure repressa; le manganellate le da la polizia iraniana ma pure quella inglese e italiana. Idea diffusa nei regimi nostrani è quella per cui ‘manifestare il dissenso è permesso, ma in forma pacifica’. Quest’idea, ripetuta da molti politici come un mantra è la dimostrazione chiara che non viviamo in una democrazia, anzi. Questo dogma necrotico ripetuto in maniera ridondante fa chiaramente capire che determinate questioni prese altrove possono solo essere messe in discussione, ma tanto andranno fatte lo stesso. Allora mi si perdoni, ma dove sta la libertà? Nell’esprimere la propria opinione? E se poi non si può cambiare il corso di scelte già prese, magari senza averlo chiesto alla maggioranza, a cosa serve dire quello che si pensa [5]? Tutto ciò è paralizzante a livello cerebrale perché da un lato fa pensare a molta gente di vivere in un posto più democratico e libero rispetto ad altre parti del mondo, dall’altro demonizza ogni tentativo di ottenere miglioramenti in maniera extralegale (miglioramenti che comunque la legge non permetterebbe di avere, proprio perché le decisioni non sono state prese mediante consultazioni). Insomma il postulato per cui si può dire quello che si vuole, ma in maniera pacifica non solo è il frutto di un pensiero unico, ma è anche ipocrita [6]. Insomma, tutte le tirannidi storicamente sono state abbattute proprio con il ricorso alla violenza. Sembra quasi che questo sia stato dimenticato. Anzi, tale pensiero è stato abbandonato proprio perché la maggior parte delle persone ha interiorizzato, dopo essere stata istruita per bene per una vita, che valga la pena fare così tanti sacrifici in nome di non si capisce più bene quali valori. Già in Grecia è l’ ‘eurogendfor’ che si occupa di ‘discutere’ con i manifestanti: al più presto pure gli italiani potranno fare conoscenza con la nuova Gendarmeria Europea.
Il cinismo di molti leader europei e americani è un fattore che fra qualche anno potrebbe essere studiato nei manuali di psichiatria come una piaga storica paragonabile ai dittatori del ‘900. Il solito non pensante può dire che tale idea sia esagerata. Ma la storia insegna che sono sempre state le masse ad appoggiare -o comunque non levare dal potere- despoti e tiranni; quindi quanto valga l’opinione di chi giudica esagerate certe argomentazioni lo si può capire dal fatto che nella storia ci sono sempre state cinismo e crudeltà. Pensare che oggi gli uomini e le loro azioni possano essere migliori e più illuminate è un’idea bigotta che possiamo lasciare ai venditori di illuminismo da quattro soldi. Questo ovviamente non significa giustificare il terrorismo (eticamente nauseante e autolesionista anche perché controproducente a livello materiale), ma neanche pensare che la violenza coincida sempre con esso. Direi quindi che sarebbe necessario interiorizzare la massima cristiana (alla Tolstoij) per la quale rispondere al male con il male non solo è rivoltante moralmente ma anche sbagliato a livello tattico perché produce martiri pure tra gente piena di colpe, ma al contempo rifiutare a prescindere l’idea di poter combattere qualcosa senza ricorrere alla violenza: essa un domani potrà essere una necessità. Se quindi da un lato gli eccessi di violenza alla lunga sono controproducenti per i motivi prima elencati, anche l’etica eccessivamente pacifista lo è, proprio perché paralizzante. Si ricordi che se gli uomini non avessero fatto mai ricorso alla violenza ancora vivrebbe in condizioni aberranti. La violenza quindi non è sempre sbagliata, anzi a volte
[1] Per esempio nell’ultimo anno durante gli avvenimenti in Siria gran parte delle immagini e delle informazioni pervenute in Italia provenivano dalla parte degli insorti, mai nessuna da parte dei soldati e dei civili fedeli ad Assad; nei terribili video di guerra girati dai ‘ribelli’ una delle frasi ripetute come un mantra dai protagonisti dei combattimenti è stata Allah Akbar, e poi ci si lamenta del terrorismo islamico, dopo che lo si sovvenziona. Quasi stesso identico copione per tutte le altre (contro)rivoluzioni che hanno investito il Maghreb. Per quanto riguarda il conflitto in Libia inoltre la cosiddetta informazione occidentale ha mostrato tutta la propria mancanza di serietà e obbiettività, decidendo già prima dell’inizio del conflitto da che parte stare e quale parte screditare nonostante la mancanza di prove circa i presunti episodi di ferocia, le ipotetiche stragi di civili e le fosse comuni di cui non si è avuta alcuna traccia (Cadalanu, 2011, pp.209-214), e si badi bene, questa non è un’apologia di Gheddafi, ma sicuramente il conflitto lo hanno iniziato quelli che vennero definiti i ribelli, e i crimini di cui si sono macchiati non sono mai stati accennati da nessun grande media italiano. Se vivessimo davvero in un paese libero questa guerra non sarebbe mai stata presentata in termini così assoluti. Evidentemente la nostra stampa non è libera, bisogna prenderne atto. Certo tutte le altre informazioni discordanti circolanti su web non sono state occultate, ma tanto questo non cambia nulla dato che le operazioni (in parte giustificate in seguito all’ondata emotiva successiva ai non comprovati crimini del regime) sono avvenute lo stesso e il dittatore ha fatto la fine che conosciamo. La mancanza di bilanciamento tra realtà fattuale e modalità con le quali vengono date le notizie dipendono sicuramente dai gruppi di interesse che stanno dietro i media da un lato, ma dall’altro proprio dal meccanismo perverso che non ha il tempo di verificare quanto sia vera una notizia, problema che risale ai primi del ‘900 (Casillo et al., 1997, pp.15-23).
[2] Sul consenso e sulla possibilità di mobilitare risorse hanno sempre giocato un ruolo determinante l’informazione e la propaganda da un lato, la contropropaganda, la disinformazione e la destabilizzazione dall’altro (Jean, 2003, p.78).
[3] In teoria l’Italia è pure una repubblica fondata sul lavoro se è per questo.
[4] È scandaloso ad esempio che vi siano sempre più persone che collegano l’essere contrari all’occupazione israeliana in Palestina all’antisemitismo.
[5] Si pensi al caso per il Muos a Niscemi. Ne segue che lo stato condanni ogni atto di sabotazione dei lavori, ma di fatto quello che subisce è la conseguenza di qualcosa che ha scelto senza il consenso delle popolazioni residenti in loco.
[6] Ovviamente gli assertori della real politik possono anche ridere delle istanze morali di alcuni studi. Ma purtroppo per loro c’è chi è ancora convinto che rovinare gli altri non torni neanche troppo utile, oltre ad essere riprovevole.
Questo articolo è un estratto della tesi di laurea di Gabriele Bonfiglio, che ringraziamo.
by Fenrir
FONTE: HESCATON.COM
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