Attualità
il “De brutto italico”
Giorni fa, non per caso, mi sono trovato a rileggere a sommi capi la storia di Gaio Giulio Cesare, prima grande generale, capace in meno di un decennio di portare le legioni romane a dominare la Gallia, la Bretagna e gran parte dei territori conosciuti, e poi acclamato “Dictator” a furor di popolo.
Il suo scritto più famoso è il “De bello gallico”, narra in ben otto volumi le vicissitudini delle guerre (tra cui quella ai galli da cui prende il nome) e della politica dell’epoca, mettendo in risalto la decadenza della Repubblica derivante dalle lotte intestine e dalla corruzione generalizzata che regnava sovrana a Roma in quegli anni. La vena ironica è una costante dell’intero manoscritto e il Cesare non manca di canzonare e deridere buona parte della nobiltà e delle più alte cariche dello Stato. Egli non riteneva possibile che, nonostante fosse così inviso alla maggioranza dei senatori, non fu mai sollevato dall’incarico, lasciando che il suo potere aumentasse giorno dopo giorno, unitamente ai suoi trionfi sui campi di battaglia, sino all’apoteosi.
La sua acclamazione ad “Imperator” pose fine alla storia della Roma repubblicana e inaugurò l’epopea degli imperatori romani, donando, in circa 400 anni di dominio assoluto ed incontrastato, il massimo fulgore e splendore alla nostra penisola. La Roma dell’epoca contava quasi un milione di abitanti: ci vollero più di 14 secoli per vedere un’altra città così popolosa. L’editto di Costantino (dichiarò di Stato la religione cattolica, mettendone al bando le altre) segnò l’inizio della fine: era la prima metà del IV secolo. Poi ci furono i barbari, Costantinopoli, Carlo magno, la santa inquisizione, le crociate, Federico II, gli angioini, le repubbliche marinare, il rinascimento, i Borbone, la rivoluzione industriale, l’annessione spacciata per riunificazione da parte dei savoy, la prima guerra mondiale.
Dalla crisi e dalla tragedia derivante da quest’ultima, un brillante giornalista pensò bene di ricalcare le gesta di Gaio Giulio Cesare: il suo nome era Benito Mussolini. Anch’egli fu eletto per acclamazione ma, sventuratamente o fortunatamente a secondo dei pareri, il suo regno durò un ventennio: finì la sua vita fucilato – non si seppe mai bene da chi e perché- e poi appeso testa in giù ad un distributore di Piazzale Loreto.
Poi ci fu Yalta, posto sconosciuto sino ad allora, dove i vincitori, sorseggiando tea inglese, whisky americano e vodka russa, si spartirono l’Europa. Gli amerikani volevano assolutamente che quella “entità geografica” rispondente al nome “Italia” (Metternich così amava definirla) finisse sotto il suo diretto ed esclusivo protettorato e così fu (per fortuna o per sfortuna a secondo dei casi): da quell’abbraccio mortale non ci saremmo mai più liberati. Le elezioni del 1948 furono truccate con l’aiuto della CIA? L’attentato a Togliatti chi l’organizzò? La sommossa popolare derivante da esso da chi fu fomentata? Fu davvero la vittoria al Tour de France di Ginaccio Bartali –quello con gli occhi da italiano in gita- a riportare la calma e a placare gli animi? Poi i NAR, le BR, le stragi, la mafia, il malaffare, le opere incompiute, la mala sanità ecc. A tutte queste domande ci sono state migliaia di risposte, in altrettanti mille modi diversi, a secondo dei casi.
Ma una costante ha accompagnato questi eventi dalla metà del 1950 in poi: il sogno o l’incubo -a secondo dei casi- della “Unione Europea”: in nome di essa si firmarono -e si firmano tutt’oggi-trattati capestro e abolizioni, a partire dalla scellerata scelta di entrare nello SME e dal divorzio Tesoro/banca d’Italia del 1981, sino al Fiscal Compact, al Redemptetion Found e al TTPI, dotando infine l’Italia del mezzo di distruzione di ricchezza dei lavoratori, meglio conosciuto come €uro, cedendo man mano sovranità ed autodeterminazione di un Popolo ancora alla ricerca della propria Nazione. La mistificazione e la cattiveria pura, scortata da crassa ignoranza e innata ed umanissima ambizione di arricchimento e potere, hanno guidato le scelte politiche che ci hanno accompagnato, contraddistinguendo la nostra forma-mentis italica che raramente riesce a pensare oltre l’ego personale.
Il “De brutto italico” è in scrittura ed in continuo aggiornamento. Contribuiamo tutti alla sua stesura, chi più, chi meno, siamo tutti responsabili. Siamo al terzo governo di non eletti, sostenuto dalla auto-celebrazione di una masnada di burocrati e malfattori innamorati delle proprie poltrone -ma anche di più semplici seggiole scassate- che hanno assunto le sembianze di autarchia politica.
A testimonianza chiamo i diversamente intelligenti che hanno speso male i propri 3 denari alle primarie piddì e i nostalgici del nano: entrambe queste categorie sostengono l’operato dell’affabulatore toscano di padre inquisito, credendo ancora alle bugie che ogni giorno propina a sua insaputa.
Purtroppo all’orizzonte non si vede l’elmo di Gaio che torna vittorioso dalla guerra.
Roberto Nardella, di padre artigiano.
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