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Analisi e studi

Dante ha fatto la patria, ma oggi rischierebbe la censura (di P. Becchi e G. Palma su Libero)

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Articolo a firma di Paolo Becchi e Giuseppe Palma su Libero del 14 dicembre 2020:

Tra poche settimane entreremo nel 2021 e inizieranno le celebrazioni per il 700° anniversario della morte di Dante Alighieri (1321-2021). Sull’HuffingtonPost è apparso qualche giorno fa un interessante articolo di Nicola Mirenzi su “Dante, l’antitaliano”, che mette in discussione la figura tradizionale di Dante come “padre della patria”. Sarà, immaginiamo, il primo di una lunga serie. Del resto parlare oggi di patria è come parlare dei dinosauri. La nostra patria è l’Unione europea, no anzi il mondo intero… O no?

Quale patria, in effetti, se al tempo di Dante non esisteva alcuna patria? Fino alla nascita del Sommo Poeta, il 1265, in tutta la penisola regnavano gli Hohenstaufen, la corona germanica retta da Federico II di Svevia fino alla sua morte, avvenuta nel 1250, e successivamente dal figliastro Manfredi, morto nella battaglia di Benevento nel febbraio del 1266 per mano degli Angioini. Dopo la morte di Manfredi di Svevia gran parte dell’Italia meridionale diventa per oltre due secoli Angioina (ramo cadetto dei Borbone di Francia), mentre il centro-nord si divide tra la fazione imperiale dei ghibellini e quella papale dei guelfi, a loro volta bianchi e neri, per poi tornare solo formalmente sotto la corona germanica – seppur per poco tempo – con Comuni dotati di ampia autonomia. Così, nel percorso secolare che ha visto regnare sulla nostra penisola germanici, spagnoli, francesi e austriaci – tra marcate autonomie comunali ed esosi feudatari – siamo diventati nazione solo nel 1861. Tutto storicamente corretto.

Eppure c’è un punto su cui occorre riflettere. Per avere una patria non è sufficiente disporre di un territorio, di un esercito, di un’unica corona o di una legittima autorità politica: senza lingua non può esserci patria. Se ne accorse Camillo Benso conte di Cavour, che comprese più di chiunque altro l’importanza della unificazione nazionale attraverso una lingua comune, quella – appunto – di Dante. Come sosteneva Pier Paolo Pasolini, la lingua italiana non ha un’origine burocratica ma letteraria, nasce dalle composizioni poetiche, dalle novelle, dalle epistole, dalle narrazioni. E la nostra lingua, che dopo molti secoli “farà” la patria, nasce proprio da Dante. Lui e un gruppo di amici suoi – tra cui Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia e Dino Frescobaldi – dal 1283 e per circa quindici anni danno vita ad un nuovo genere poetico, la poesia d’amore scritta in volgare, cioè nella lingua parlata dal popolo di Firenze. Dante e i suoi amici “fanno” dunque la patria, non coi confini territoriali, con la spada o con una condivisa autorità regia e politica, ma con la lingua. Esemplare il sonetto “Tanto gentile e tanto onesta pare” scritto nel 1283 e contenuto nella “Vita Nova” (1292-95), dove diversi endecasillabi sembrano scritti oggi. “Ch’ogne lingua devèn, tremando, muta, / e li occhi no l’ardiscon di guardare”, esattamente come potremmo scrivere oggi quando vogliamo dire che siamo imbarazzati nel vedere una bella ragazza e facciamo fatica a spiaccicare due parole, “e par che sia una cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare”, oggi diremmo più banalmente di una donna tanto bella che sembra una stella caduta dal cielo.

Ma aggiungiamo una seconda riflessione. La lingua, nel caso di Dante, esiliato perché nemico politico della fazione vincitrice, è una lingua “politicamente scorretta”. Un sodomita peccatore tra le fiamme dell’Inferno? È la sorte che Dante riserva addirittura al suo maestro Brunetto Latini, sprofondato nel terzo girone del VII Cerchio infernale (Canto XV), perché omosessuale (“Siete voi qui, ser Brunetto?”). Nello stesso Cerchio dei sodomiti, ma nel Canto XVII dell’Inferno, i banchieri usurai posizionati nel sabbione infuocato (“ma io m’accorsi / che dal collo a ciascun pendea una tasca / ch’avea certo colore e certo segno, / e quindi par che ’l loro occhio si pasca”). Dante un pericoloso omofobo e per giunta “sovranista”, visto che attacca i banchieri considerandoli alla stregua degli usurai? Non basta, il poeta era anche un “pericoloso” maschilista, se consideriamo la figura di Francesca da Rimini, peccatrice trasportata dal vento infernale ed abbracciata al suo amante, Paolo Malatesta, nel V Canto dell’Inferno (“se fosse amico il re dell’universo, / noi pregheremmo lui de la tua pace, / poi ch’hai pietà del nostro mal perverso”). Una donna, Francesca, che considera il suo amore extraconiugale alla stregua di una perversione, sapendo che Dio non è dalla loro parte perché traditori del rapporto coniugale. E ancora nella “Vita Nova” la figura angelica di Beatrice, la donna amata ch’egli non sfiorò mai nemmeno con un dito, destinata al Paradiso (“Lo ciel, che non have altro difetto / che d’aver lei, al suo segnor la chiede”), si contrappone nelle “Rime petrose” alla dura Donna Petra, immaginata come donna da sottomettere sessualmente: “S’io avessi le belle trecce prese, / che fatte son per me scudiscio e ferza, / pigliandole anzi terza, / con esse passerei vespero e squille: / e non sarei pietoso né cortese”. E che dire, cambiando discorso, di Maometto, tornando alla “Commedia”, collocato all’Inferno (Canto XXVIII) tra i seminatori di discordia e squarciato nel petto, descritto con le seguenti “scorrettissime” parole: “Tra le gambe pendevan le minugia; / la corata pareva e ‘l tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugia”.

Non solo, dunque, non “padre della patria” ma addirittura omofobo, razzista e sessista? È questo il prossimo passo che dobbiamo attenderci in vista delle imminenti celebrazioni di Dante? Magari “raccomandando” con apposito Dpcm una versione per le scuole opportunamente censurata della “Commedia” e delle “Rime petrose”? Diversamente noi pensiamo che proprio le sue celebrazioni dovrebbero essere l’occasione per una discussione realistica su un autore che ha fatto con la sua lingua “politicamente scorretta” la nostra lingua, dunque la nostra patria. È la lingua di Dante che, come italiani, vogliamo ancora? Su questo bisognerebbe interrogarsi in occasione delle prossime celebrazioni, magari tenendo conto del fatto che sulla base delle nostre leggi vigenti oggi il “padre della patria” avrebbe rischiato la galera.

di Paolo Becchi e Giuseppe Palma su Libero del 14 dicembre 2020.

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Consigli letterari:

di Giuseppe Palma, “DANTE, DALLA LINGUA ALLA PATRIA. Nel settecentenario della morte siamo ancora Figli del Duecento“, Gds, 2020. Qui per l’acquisto ?

 


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