Euro crisis
Dal Piano Funk alla sesta fase del Ciclo di Frenkel. La politica economica dopo il Fiscal Compact
Da abceconomics.
Trascrizione dell’intervento del Dott. Stefano Fugazzi al convegno “Oltre l’Euro per una nuova Italia” tenutosi il 25 gennaio 2014 presso la London School of Economics and Political Science (LSE).
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Buon pomeriggio a tutti.
Prima di iniziare il mio intervento vorrei ringraziare tutti i presenti e in modo particolare chi di voi è giunto dall’Italia. Ringrazio inoltre i miei colleghi relatori e quindi tutte le persone che hanno reso possibile la realizzazione di questo evento in presenza di un parterre de Roi d’eccezione presso una sede prestigiosa quale la London School of Economics.
Passando subito all’hic et nunc, è mia intenzione annoiarvi per i prossimi 20 minuti illustrando in primis alcuni dati relativi al quadro macroeconomico corrente. Percorreremo poi un breve excursus storico-economico, illustrando come l’Italia e l’Eurozona siano improvvisamente entrate in una crisi erroneamente nota ai più come “la crisi del debito sovrano”. Allo scopo, per dissipare ogni dubbio circa la paternità di codesta crisi, illustreremo le sette fasi del ciclo di Frenkel. Infine, prima di cedere la parola ai miei colleghi, passeremo in rassegna le azioni di politica economica che il governo sarà costretto a intraprendere qualora quanto concordato con l’Europa, e più precisamente il Fiscal Compact, il fiore all’occhiello del celeberrimo “ce lo chiede l’Europa”, fosse inflessibilmente adottato.
Iniziamo con il valutare gli effetti della cura di austerità supinamente impostaci dall’Europa e il conseguente crollo del PIL. Dopo quello che era stato di 5 punti percentuali nel 2009, il Paese ha registrato altri due pesanti cali nel biennio 2012-2013, dinamiche che hanno riportato il reddito medio pro capite degli italiani al livello del 1997. Insieme al reddito sono tornati indietro nel tempo anche i consumi e quindi la domanda interna. Tutto ciò si è verificato per un motivo abbastanza intuitivo: lo Stato italiano si è privato della politica valutaria, ossia la capacità di reagire a uno shock esterno con la fluttuazione del tasso di cambio. Così facendo l’Italia, come del resto tutti i Paesi che hanno aderito alla moneta unica, ha dovuto reagire alla crisi con la svalutazione interna cioè ricuperando competitività attraverso il taglio dei salari. E se i salari calano cala anche il potere d’acquisto, diminuisce la domanda interna, si entra in disinflazione, o nella peggior dei casi in deflazione. Nel frattempo si verifica l’aumento dell’indebitamento prima privato e in seconda istanza pubblico. Vedremo come e perché di queste dinamiche quando analizzeremo in dettaglio le sette fasi del Ciclo di Frenkel.
Prima di spiegare come si è giunti alla sesta fase del Ciclo di Frenkel illustriamo molto brevemente i “danni” causati dal legarsi al vincolo esterno ossia a Paesi più forti di noi attraverso uno strumento monetario e regole fiscali di un certo tipo.
Il quadro economico italiano
Fig 1 – Fonte: ISTAT
Dalla diapositiva che ho pocanzi caricato potete osservare i dati ISTAT relativi al PIL per il periodo compreso tra il terzo trimestre 2010 e il terzo trimestre 2013.
Vediamo anche il rapporto debito/PIL che grazie alle politiche di austerità ha superato il 133%, un valore secondo solo alla Grecia. Nella parte a destra della diapositiva riportiamo l’andamento storico anno per anno, governo per governo.
Fig 2 – Fonte: Il Sole 24 Ore, Linkiesta
A incidere in maniera importante sullo stock complessivo di debito pubblico e ad aver indubbiamente determinato la sua ascesa a partire dagli anni ‘80 sono stati gli alti tassi di interesse.
Fig 3 – Fonte: Bagnai (2012)
Questo è in grande parte dovuto al cosiddetto “divorzio tra il Tesoro e Banca d’Italia” verificatosi nel corso del 1981. Come siete sicuramente al corrente, a partire dal 1981 la Banca d’Italia, per decisione di Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi, ha smesso di monetizzare il debito pubblico, una decisione che ha causato un significativo incremento del rendimento dei nostri titoli di debito.
Un’altra diapositiva che voglio sottoporre alla vostra attenzione è relativa a quello che io ho ribattezzato come “lo spread industriale” ossia il differenziale della produzione industriale tra Italia e Germania dall’entrata in vigore della moneta unica. Per chi non riuscisse a cogliere bene il valore del “differenziale” riportato nella fotografia che ho scattato lo scorso settembre alla presentazione di Europa Kaputt del qui presente Prof. Antonio Maria Rinaldi, sappiate che lo spread industriale tra Italia e Germania, pari al 38%, è stato interamente accumulato negli anni successivi all’irrigidimento del tasso cambio.
Fig. 4 – Rinaldi, 12 settembre 2013. Foto: Stefano Fugazzi
Excursus storico-economico
Percorriamo ora un breve excursus storico. Come credo voi tutti sappiate, l’idea di legarsi a una valuta forte nella convinzione di favorire la crescita e lo sviluppo economico di una Nazione non è affatto nuova. Come ha tra l’altro ha ricordato il Professor Bagnai lo scorso dicembre al seminario “Morire per l’Euro?” Tenutosi a Bruxelles – è sempre con questa idea che nel 1786 Charles Gravier de Vergennes, l’allora primo ministro di Luigi XVI di Francia, abolì il dazio sull’importazione di prodotti industriali dall’Inghilterra mettendo così in difficoltà l’industria francese. L’idea che questa mossa avrebbe rafforzato l’economia transalpina nel lungo periodo si rivelò sbagliata e ben presto, tre anni più tardi, fu seguita dalla Rivoluzione Francese e da lì a poco tempo il Re e l’aristocrazia, la classe dirigente di allora, non fecero propriamente una bella fine.
La Storia moderna del Vecchio Continente, senza dover necessariamente scomodare l’Antica Grecia e tralasciando anche il Gold Standard e Bretton Woods, è costellata di falliti tentativi di unioni politiche, economiche e monetarie. Allo scopo vi invito a leggere un interessante documento di Fulvio Mastrangelo intitolato “Tentativi di unione monetaria in Europa dall’antichità al secolo XIX”.
Per quanto riguarda lo sviluppo di progetti economici e monetari più articolati, come correttamente riporta il Professor Rinaldi nel suo saggio Europa Kaputt, la sorte vuole che l’assetto europeo vigente abbia iniziato a mettere le proprie radici proprio in Germania quando nel 1904 venne creata a Berlino l’Associazione Centro Europea con lo scopo di integrare le economie tedesche e austro-ungariche e di successivamente aprirsi a Svizzera, Belgio e Lussemburgo.
Ma il progetto di un’Europa economicamente unita prenderà forma solamente con l’ascesa al potere dei nazisti e soprattutto grazie al pensiero di Walther Funk, braccio destro di Adolf Hitler ed ex ministro per gli affari economici nonché governatore della progenitrice di Bundesbank. A lui è attribuita la paternità del cosiddetto Piano Funk enunciato il 25 luglio 1940 nel discorso “La riorganizzazione economica dell’Europa”. Il piano prevedeva essenzialmente di rendere economicamente autonoma l’Europa prendendo come modello di riferimento la politica nazionalsocialista, adottando su scala continentale il modello tedesco.
Secondo il piano Funk, l’economia della nuova grande area europea avrebbe dovuto comportare la subordinazione dell’apparato produttivo del Vecchio Continente in funzione della supremazia della Germania, con il conseguente trasferimento di strutture e risorse dai Paesi della cosiddetta “periferia” al “centro” dominatore, ossia Berlino. Sempre secondo l’ex braccio destro di Hitler, per consolidare il predominio tedesco si sarebbe resa necessaria la creazione di una nuova moneta filo-germanica, la “moneta generale”, e il graduale livellamento delle normative infra-nazionali mediante la realizzazione di una sorta di “mercato unico”.
Come ben sappiamo la caduta di Hitler mise la parola fine al Piano Funk ma non ai progetti di cooperazione su scala continentale. La successiva edizione – in chiave chiaramente più democratica e pacifica – del Piano Funk porta inizialmente le firme di diversi personaggi di spicco tra cui quelle di tre economisti francesi: Jean Monnet, François Perroux e Robert Schuman. Jean Monnet per diversi anni è stato consigliere di Charles de Gaulle e ministro delle finanze. Nel 1943, quando il Reich nazista è ormai prossimo alla caduta, Monnet è il primo ad auspicare la creazione di un soggetto politico paneuropeo. Significative sono le parole usate in occasione dell’inaugurazione del Comitato Francese di Liberazione Nazionale: «Non ci sarà mai pace in Europa se gli Stati si ricostituiranno su una base di sovranità nazionale. Ciò presuppone – aggiunge sempre Monnet – che gli Stati d’Europa formino una federazione o un’entità europea».
A François Perroux va, invece, il merito di aver teorizzato – sempre nel 1943 – la creazione di una moneta unica e di una banca centrale in grado di governare gli equilibri economici di questa futura entità sovranazionale.
Seguirà la Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950 ma dovremo attendere fino alla seconda metà degli anni ’70 prima di vedere l’intero Progetto Europa entrare nel vivo.
Per essere più precisi, il processo di integrazione monetaria europea viene rilanciato nel dicembre 1978 quando il Consiglio europeo decide di istituire, a partire dal 13 marzo 1979, lo SME, sigla di Sistema Monetario Europeo. Fortemente voluto dalle controparti francesi e tedesche, lo SME aveva come obiettivo quello di creare in Europa una ‘zona di stabilità monetaria’ in un contesto, come quello degli anni 1970, che per una serie di motivi fu caratterizzato da elevata inflazione e instabilità dei cambi.
Il culmine dell’attivismo politico a favore dell’unificazione europea fu tuttavia raggiunto sotto la presidenza Delors, e in particolare nel fondamentale documento che tracciava in maniera vincolante il percorso verso l’unificazione, il Rapporto Delors del 1989.
Sulla base delle conclusioni di Delors e della Commissione intergovernativa da lui presieduta, il 7 febbraio 1992 venne firmato il Trattato sull’Unione Europea (TUE), meglio noto come Trattato di Maastricht.
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Prima di analizzare le azioni di politica economica che lo Stato italiano dovrà portare avanti per conseguire gli obiettivi del Fiscal Compact e quindi il limite del 60% del rapporto debito/Pil (che – come sapete – è un retaggio storico di Maastricht), cerchiamo di comprendere le dinamiche che hanno portato i Paesi periferici alla deriva economica.
Ciclo di Frenkel
Per farlo, impiegheremo come modello il ciclo di Frenkel. Si tratta di una teoria dell’economista argentino Roberto Frenkel che descrive ciò che avviene quando un Paese economicamente meno sviluppato si aggancia alla valuta di un’area più forte, in altre parole quando si viene a creare una situazione di area valutaria ottimale inefficiente, o (in taluni casi) financo non ottimale.
Il modello, inizialmente formulato con riferimento alla dollarizzazione dell’Argentina durata fino al 2001, viene ora comunemente utilizzato in ambito accademico per spiegare la crisi in corso in Europa in seguito all’adozione della moneta unica.
Il ciclo si svolge in sette fasi:
1. Ciclo di Frenkel, prima fase: liberalizzazione di capitali
All’interno di un’area valutaria vengono introdotte norme che liberalizzano la circolazione dei capitali.
2. Ciclo di Frenkel, seconda fase: inizia l’afflusso di capitali esteri verso i Paesi periferici
Una volta che i capitali sono liberalizzati inizia un afflusso di capitali dai Paesi del “centro” verso quelli della “periferia”.
3. Ciclo di Frenkel, terza fase: aumenta il Pil e diminuisce il debito nei Paesi della “periferia”
L’afflusso di prestiti alimenta la domanda di famiglie e imprese della “periferia” generando una crescita dei consumi e degli investimenti e, di conseguenza, del Pil. Allo stesso tempo migliorano i conti pubblici in quanto aumenta anche il gettito fiscale collegato all’espansione economica.
4. Ciclo di Frenkel, quarta fase: cresce l’inflazione nella “periferia”
L’economia della periferia è in espansione e quindi sale anche il livello dei prezzi, cioè l’inflazione. Ma l’espansione resta legata all’afflusso di capitali stranieri.
5. Ciclo di Frenkel, quinta fase: uno shock (interno o esterno) fa scoppiare la bolla del debito privato
A questo punto accade un evento traumatico che spinge i creditori del “centro” a chiudere i rubinetti verso la “periferia”.
6. Ciclo di Frenkel, sesta fase: si innesta un circolo vizioso recessivo che fa peggiorare il debito pubblico
Venendo a mancare la liquidità straniera, si innesta un circolo vizioso per cui i Paesi della “periferia” entrano in recessione. Il debito pubblico aumenta e allo stesso tempo calano consumi, calano gli investimenti, si contrae il Pil e di conseguenza cresce – o in taluni casi esplode – il rapporto debito/Pil.
7. Ciclo di Frenkel, settima fase: la situazione diventa insostenibile e la “periferia” si sgancia dall’area valutaria
L’austerity e il circolo vizioso sui conti pubblici rendono la situazione insostenibile per la “periferia” che non ha alternative allo sganciarsi dall’unione valutaria.
Scenario “Status Quo”
A complicare ulteriormente la cartella clinica dei “pazienti” dell’Europa Periferica vi sono gli accordi vincolanti con l’Europa, quali il Meccanismo Europeo di Stabilità (il MES) e il Fiscal Compact. Giuseppe Paccione analizzerà questi dal punto di vista del diritto mentre il sottoscritto si limiterà a valutarne l’impatto specie per quanto riguarda le implicazioni in materia di politica economica nel caso di si volesse davvero applicare alla lettera il Fiscal Compact e quindi portare il rapporto debito/PIL al 60% in venti anni, ossia al ritmo del 5% annuo che, mal contati, corrispondono all’incirca una cinquantina di miliardi di euro all’anno.
Dovessimo inflessibilmente prendere alla lettera il Fiscal Compact, e non potendo abbattere quote importanti il debito pubblico con la crescita e l’inflazione, l’unica alternativa a noi prospettata è quella di attuare delle misure straordinarie in materia di finanza pubblica; iniziative che ho avuto modo di riassumere in maniera chiara e sintetica nel mio saggio “Idee per l’Italia”, pubblicato nel 2013 e che ho presentato alla Link Campus University di Roma insieme ai professori Antonio Maria Rinaldi e Vincenzo Scotti, all’On. Guglielmo Picchi e al membro della Commissione Bilancio del Senato Remigio Ceroni.
Queste proposte, note anche come “tagliadebito”, possono essere suddivise in quattro categorie:
1. Proposte in tema di dismissione e di valorizzazione del patrimonio pubblico in funzione di riduzione del debito.
MASERA-BIVONA / RINALDI-SAVONA-FRATIANNI / PELANDA / GUARINO / ABOLIZIONE DELLE FONDAZIONI (BANCARIE E NON) / ISTITUTO BRUNO LEONI
2. Proposte che fanno leva sulla fiscalità, investimenti/prestiti forzosi e le imposte una tantum
MONORCHIO E SALERNO ALETTA / CILLONI / FITOUSSI E GALATERI DI GENOLA / CAPALDO / CUTRUFO
3. Proposte in materia di contenimento dei costi di rifinanziamento sul debito
VEGAS / GUGLIELMI (MEDIOBANCA) / VENA & CATTANEO
4. Proposte che presentano modelli di intervento articolati su più azioni
PROPOSTA ASTRID / AMBROSETTI CLUB / FORTE / SAMORÌ / FARE PER FERMARE IL DECLINO / PENNISI
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Giusto per completare il quadro e quindi darvi un’idea dei “costi” del Fiscal Compact e del conseguente smantellamento dell’attivo dello Stato: se applicassimo alla lettera quanto ci impone l’Europa e quindi se venissero attuati alcuni dei provvedimenti “tagliadebito” accennati pocanzi e quantificati nella seguente diapositiva, la dismissione di asset mobiliari e immobiliari più una serie di altri provvedimenti produrrebbe un incasso potenziale di circa 750 miliardi di euro (e si tratta – tra l’altro – di stime “un pelino” tanto ottimiste!) e quindi alla conseguente riduzione – sempre in linea teorica – del rapporto debito /Pil all’incirca al 80-85%.
Fig. 5 – Fonte: Stefano Fugazzi
Come potete ben vedere, per poter attuare una qualsiasi operazione “tagliadebito” di questa magnitudine si richiederebbe alla classe politica di intraprendere decisioni storiche e financo impopolari. Tralasciando per questioni di tempo il capitolo della “spesa pubblica”, che meriterebbe di essere approfondito in un’altra sessione, vorrei invece concludere il mio intervento soffermandomi sulle dismissioni.
Quelle di mettere in vendita i beni pubblici sono misure che generalmente porterebbero allo smantellamento del concetto medesimo di Stato. E si badi bene che non è affatto detto che poi smantellando lo Stato si riesca a debellare alla radice un problema che, in fondo, non è neppure un problema di debito pubblico; ma che diventa un problema di debito quando uno Stato, ormai esautorato della sue stesse funzioni vitali, si lega a un vincolo esterno, provvedendo così a “prestare” a terzi la propria sovranità monetaria e di riflesso anche il controllo su tutte le attività economiche e politiche del Paese.
Siccome quella di legarsi a un vincolo monetario non è stata affatto – soprattutto con il senno di poi – un’idea brillante, la situazione e le prospettive sono tali da suggerirci la ricerca di alternative, o se preferite “vie di fuga” da questo “economicidio”. E tra le alternative a nostra disposizione, vi è ovviamente quella di sganciarsi dal gravoso giogo della moneta unica e degli accordi europei.
Cedo ora la parola ai miei colleghi qui presenti i quali vi illustreranno come si può avviare questo processo e quindi riconquistare la sovranità perduta restituendo allo Stato anche dignità politica e sociale.
Grazie a tutti per l’attenzione.
Stefano Fugazzi (Londra, addì 25/01/2014)
Bibliografia
Bagnai, A (2012), “Il Tramonto dell’Euro”
Bagnai, A. (2013), “Audizione alla Commissione Finanze della Camera” in data 4 dicembre 2013
Bagnai, A., Borghi, C., Rinaldi, A.M. (2013), Convegno “Morire per l’Euro?” tenutosi presso l’Europarlamento in data 3 dicembre 2013
Barnard, P. (2011), “Il più grande crimine”
Fugazzi, S. (2012), “Ecco perché anticipare il default potrebbe salvare l’Eurozona”, Investire Oggi, 13/09/12
Fugazzi, S. (2012), “La moneta unica doveva fare l’Europa, l’Euro la affonderà”, Investire Oggi, 06/11/12
Fugazzi, S. (2012), “Sarà la teoria economica o la Storia a decretare la fine del Progetto Europa?”, Investire Oggi, 25/06/12
Fugazzi, S. (2012), “Stati Uniti d’Europa: un progetto lungo 70 anni”, Investire Oggi, 02/07/12
Fugazzi, S. (2013), “Idee per l’Italia”
Guarino, G. (2012), “l’Italia sappia che il Fiscal Compact viola il Trattato Ue”, Milano Finanza, 28/11/12
Lops, V. (2013), “La crisi dell’Eurozona è un problema di debito pubblico o privato? Per chi segue il ciclo di Frenkel non ci sono più dubbi”, Il Sole 24 Ore, 01/07/13
Mastrangelo, F. (2001), “Tentativi di unione monetaria in Europa dall’antichità al secolo XIX”
Rinaldi, A.M. (2013), “Europa Kaputt”
Tamborini, R. (1992), “Dal Rapporto Delors al Trattato di Maastricht e oltre. Cos’hanno da dire gli economisti?”
BIOGRAFIA
Laureatosi a Dublino in Business Studies nel 2003 e conseguito un Master in Strategic Management presso The Michael Smurfit Graduate School of Business (University College Dublin) l’anno seguente (tesi: The effects that announcements of strategic alliances have on share price of US biotechnology firms), dal 2005 lavora nell’area finance & control.
Nel 2009 insieme a Filippo Gaddo ha coordinato una serie di eventi presso la London Metropolitan University (curando la presentazione del seminario Economic downturn and society dedicato alla crisi dei mutui subprime).
Nel 2011 ha frequentato un corso intensivo in News Journalism presso The London School of Journalism.
Dal 2012 collabora con Investire Oggi, un portale dedicato all’informazione economica e finanziaria (aree di interesse: debito e crescita).
Il 29 maggio 2013 ha pubblicato il suo primo saggio di economia (Idee per l’Italia: Abbattere il debito pubblico per restituire allo Stato la sovranità in politica economica – ISBN 978-1-291-42628-1). Il 9 luglio 2013 ha presentato il proprio saggio a Roma presso la Link Campus University insieme ai Professori Antonio Maria Rinaldi e Vincenzo Scotti.
Il 25 gennaio 2014 ha co-organizzato un seminario alla London School of Economics sull’uscita dall’Euro (http://abceconomics.com/convegno-oltre-leuro-per-una-nuova-italia-alla-lse-il-25-gennaio/)
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