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Chi comanda veramente a Bruxelles? di Antonio Maria Rinaldi*

Bruxelles a nudo: perché il Parlamento Europeo non conta nulla e la Commissione decide tutto (dati alla mano).

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Nel linguaggio ufficiale dell’Unione Europea si ripete che il Parlamento europeo sia il cuore democratico dell’integrazione. Ma è un’affermazione più simbolica che reale. Sin dalle origini, la costruzione europea si fonda su un’impostazione tecnocratica che privilegia l’efficienza decisionale rispetto alla legittimazione politica. Ne è derivato un sistema in cui il potere formale e quello effettivo divergono: il primo risiede nei Trattati, il secondo nella prassi consolidata di Commissione e Consiglio, che nel tempo hanno assunto un ruolo sempre più determinante nella definizione dell’indirizzo politico dell’Unione.

Secondo l’articolo 17 del Trattato sull’Unione, la Commissione Europea detiene il monopolio dell’iniziativa legislativa. È l’unico organo che può proporre nuove norme, fissando l’agenda politica e delimitando i confini del dibattito. Né il Parlamento né il Consiglio possono agire autonomamente: intervengono solo per emendare o approvare. Ciò conferisce alla burocrazia comunitaria, composta da funzionari non eletti, una centralità che nessun equilibrio istituzionale ha mai davvero scalfito. È una sovranità di fatto, esercitata nel nome della neutralità tecnica, ma che incide in modo profondo sulla sostanza delle decisioni politiche e sui rapporti di forza tra le istituzioni.

In teoria, il sistema dei pesi e contrappesi dovrebbe bilanciare rappresentanza popolare e interessi nazionali. In realtà, la prevalenza del Consiglio rivela la natura intergovernativa dell’Unione: è lì che gli Stati membri contrattano i propri interessi, spesso lungo linee di frattura Nord-Sud, tra rigoristi e fautori della flessibilità, tra difensori della sovranità fiscale e sostenitori dell’uniformità regolatoria. Le vere decisioni nascono in questa sede, mentre il Parlamento, pur investito della legittimità del voto a suffragio universale, si limita a recepirle con margini d’intervento ridotti. È il riflesso di un’Europa che si dice federale, ma agisce ancora come un’arena diplomatica permanente.

Ricerche interne dello stesso Parlamento mostrano che oltre l’80% delle proposte della Commissione viene approvato con modifiche minime. È il segno di un’“asimmetria istituzionale” che nel tempo ha marginalizzato il voto dei cittadini. Il Parlamento non è debole per incapacità, ma per struttura: non dispone né di iniziativa legislativa né di reali strumenti di controllo sull’esecutivo comunitario.

Questo deficit di sovranità democratica alimenta un più ampio problema di legittimazione politica, accentuato dalla distanza percepita tra Bruxelles e gli elettori europei.

Tale squilibrio trova la sua espressione più opaca nel cosiddetto trilogo, la sede informale in cui Commissione, Consiglio e Parlamento negoziano testi legislativi a porte chiuse. Non esistono verbali accessibili né tracce ufficiali del confronto. Si decide in nome dell’efficienza, ma a scapito della trasparenza e della responsabilità politica. È una procedura che risponde alla logica dell’amministrazione ordinata, non a quella della deliberazione democratica. La Commissione tutela la coerenza tecnica, il Consiglio difende gli interessi nazionali, il Parlamento ratifica un compromesso già scritto. In questo passaggio, la democrazia arretra, e con essa il principio stesso della rappresentanza.

Il fenomeno è particolarmente evidente nei dossier economico-finanziari, dove le scelte “tecniche” incidono direttamente sulla sovranità degli Stati. Le nuove regole del Patto di stabilità, l’imposta sulle multinazionali e la governance dell’Unione bancaria sono nate in Commissione e Consiglio, con un ruolo parlamentare ridotto a mera validazione. Si è così consolidata una verticalità del potere che richiama la logica dei governi tecnici: gestione efficiente, ma sottratta al giudizio politico dei cittadini e alle dinamiche del consenso.

Nel breve periodo questo modello potrà pure garantire stabilità e rassicurare i mercati, ma nel lungo termine genera un rischio diverso: la perdita di consenso e di appartenenza. Le democrazie non vivono solo di regole, ma di riconoscimento reciproco tra governanti e governati. Quando le decisioni appaiono distanti, o non è chiaro chi ne porti la responsabilità, la fiducia si erode. E senza fiducia, anche l’integrazione economica si indebolisce. È questo il punto cieco del modello europeo: più si accentra il potere decisionale, più si riduce la percezione di partecipazione collettiva.

Bisogna quindi chiedersi non tanto “chi” comandi a Bruxelles, ma “in nome di chi”. Dall’equilibrio fra governi? Dai tecnocrati? O dai cittadini? Finché la prima continuerà a prevalere e la seconda a gestire, la terza resterà solo un auspicio.

La Commissione imposta, il Consiglio decide, il Parlamento ratifica: questa alla fine è la gerarchia reale dell’Unione.

Un sistema ordinato ma non pienamente legittimato, che assicura continuità ma non consenso. Finché non si risolverà l’asimmetria tra responsabilità politica e potere decisionale, l’Europa resterà un progetto incompiuto: economicamente non integrato e politicamente privo di una sovranità condivisa. È su questo terreno – più che sul debito o sul bilancio – che si gioca il futuro della democrazia europea, e forse la credibilità stessa del progetto d’integrazione.

* membro della IX legislatura del Parlamento europeo

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