Attualità
ART. 3: DIS-EGUAGLIANZA SOSTANZIALE. POLITICHE DEL LAVORO E DEFLAZIONE CULTURALE (di Sara Piersantelli)
Sara Piersantelli è vicepresidente dell Coordinamento Nazionale TFA, che tutela i diritti dei precari formati con Tirocinio Formativo Attivo cancellati da “La Buona Scuola”.
Buona Lettura !
Sono una semplice cittadina, ma ho gli occhi e le orecchie stesso per intendere come la nostra attuale situazione socio economica stia radicalmente scadendo. Per questo oggi voglio parlarvi di come le politiche del lavoro e le riforme scolastiche abbiano un obiettivo comune tutt’altro che nobile: costruire una diseguaglianza sostanziale sconvolgendo, di fatto, l’articolo 3 della Costituzione.
Lo «sviluppo integrale della persona umana», sancito dal suddetto articolo, ha trovato strumento d’elezione, grazie alla lungimiranza dei nostri padri costituenti, attraverso l’istituzione della scuola, a sottolineare come senza la scuola non possa esserci democrazia. D’altro canto, dagli anni ‘90 la scuola è stata declassificata da istituzione a servizio. Dopo la riforma Amato, infatti, e con il successivo rinnovo del contratto, il comparto scuola è stato inserito nel marasma della Pubblica Amministrazione; da lì ne è iniziato il declino fino alla “Buona Scuola”, che è la riforma più eversiva e definitiva, dal momento che cambia completamente, ed in modo radicale, la natura della scuola italiana non nei piani di studio e non solo nella strutturazione generale, ma distruggendo l’ultimo baluardo a difesa di una scuola della Repubblica: la libertà di insegnamento. E come farlo? Attaccando la figura del docente; costringendo gli insegnanti a concentrarsi su carte e scartoffie totalmente privi di utilità didattica impedendogli, di fatto, di essere portatori e trasmettitori sociali di vero sapere.
Ad ogni modo la L.107/2015 è solo il coronamento di una serie di riforme, fatte da destra e sinistra e che ripercorrono il modello originale degli U.S.A. e dell’Inghilterra, e che negli ultimi anni ha coinvolto anche la Francia: il risultato che possiamo vedere raggiunto dai Paesi citati, è quello di un imborghesimento delle scuole che godono di ottima salute e della proletarizzazione della scuola pubblica con un conseguente aumento del dislivello sociale e l’impossibilità di ottenere una vera integrazione. Come può tutto questo essere coerente con un’ottica di pieno sviluppo della persona umana? Non può. Semplicemente perché la persona umana non è più considerata utile, tanto meno può esserlo come cittadino, e non è più il centro di tutto.
Una donna iraniana, giudice e premio Nobel per la pace costretta all’esilio, Shirin Ebadi, ha affermato: «Il fatto è che la democrazia è come una pianta, va innaffiata tutti i giorni. Così rimane fresca e viva. Chi dovrebbe “innaffiarla” sono soprattutto i cittadini. I cittadini come dovere non hanno mica solo quello di andare a votare» [http://www.internazionale.it/opinione/nicola-lagioia/2016/05/20/intervista-shirin-ebadi-torino-iran].
Noi docenti tutti i giorni cerchiamo di fare proprio questo: formare dei cittadini che non solo sappiano compiere attraverso il voto un atto critico e autonomo nei confronti della realtà che li circonda ma che siano anche dei cittadini consapevoli del loro quotidiano.
D’altro canto, in un’ottica di superamento delle resistenze contrarie – vedremo poi quali – e di una salvaguardia di una economia di mercato, senza cultura, senza lavoro, in uno stato di precarizzazione generalizzata e stabilizzata, l’uomo non può che perdere il suo status di essere umano e cittadino e divenire mero esecutore, uno schiavo nelle mani del potere economico. Se infatti la scuola è garanzia di democrazia, è proprio distruggendola che si persegue la distruzione della democrazia stessa.
In questo senso appare indispensabile anche l’insistenza europea sul successo scolastico. Senza cadute lo studente-cittadino non impara a rialzarsi da solo. Non si vogliono dare gli strumenti per gestire la propria identità e salvaguardarla da rifiuti e cadute. Come si potrebbe, altrimenti, abbattere la volontà interiore?! Pensiamo anche solo ai laureati, con più o meno bei voti, impiegati nei call center: grandi prospettive deluse, eppure l’Europa continua a chiedere un maggiore numero di laureati, senza capire bene cosa dovrebbero poi andare a fare. Si dovrebbe, invece, crescere il cittadino con la consapevolezza che non è il titolo a dargli più o meno diritti, e che il suo primo pensiero deve essere trovare cosa lo rende se stesso, pienamente.
Per comprendere ancora meglio, è necessario parlare un po’ di didattica, partendo da alcune nozioni di base, utili a comprendere l’evoluzione dei sistemi come richiesto dalle indicazioni europee, e in proposito è opportuno citare Gregory Bateson. L’antropologo, sociologo e psicologo britannico nei suoi scritti individua tre livelli di educazione: l’apprendimento di primo livello, il proto apprendimento, che consiste in una modificazione del comportamento e della struttura cognitiva del soggetto e corrisponde all’apprendimento di base comunemente inteso, che permette il trasferimento dell’informazione affinché sia memorizzata; l’apprendimento di secondo livello, il deutero apprendimento, che è finalizzato a padroneggiare la “cornice cognitiva” in cui l’informazione acquisita o incontrata nel futuro possa essere assorbita e incorporata, esso presuppone l’imparare ad apprendere il transfer dell’apprendimento e l’acquisizione di abiti mentali (formae mentis, stili cognitivi ecc.); infine, il terzo livello dell’educazione è l’insegnamento-apprendimento della capacità di smontare e rimontare la “cornice cognitiva” ancora esistente o sbarazzarsene del tutto, senza rimpiazzarla, e in modo celere: la cosiddetta flessibilità.
Il modello proposto negli ultimi anni, e realizzato pienamente dalla “Buona Scuola”, privilegia in particolare l’ultimo stadio, quello comunemente definito delle competenze, tralasciando del tutto la prima fase, che è comunque da intendersi evidentemente propedeutica a tutto il percorso, fino all’ultimo livello stesso.
Questo paradosso, come abbiamo detto, si riscontra a partire dall’idea di scuola proposta dalle Indicazioni europee, che potremmo così riassumere: una scuola fatta di «classi “agili”, con studenti che guardano contenuti online e ne discutono poi tra di loro. Insegnanti “leggeri”, con il ruolo di “facilitatori” delle suddette discussioni tra gli studenti. Scomparsa progressiva della lezione frontale, e quindi della preparazione della lezione da parte degli insegnanti. Rimpiazzo dello studio con una forma ludica di interazione con vari tipi di interfacce, alcune delle quali ancora umane, ma sempre di più di tipo digitale (queste ultime non hanno problemi caratteriali, non scioperano, ecc.)» [http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2016-05-14/l-abbaglio-fine-scuola-181747.shtml?uuid=ADz6m3D].
Non solo, scuole e docenti devono essere necessariamente valutati senza tenere conto di alcun contesto socio culturale e cedendo potere a chi la scuola non la conosce. Basti guardare alla Legge 107/2015, al sistema di valutazione INVALSI, al RAV, e al Comitato di Valutazione. Una scuola con docenti in concorrenza l’uno con l’altro e assolutamente ricattabili, soprattutto se si prende anche in considerazione l’ulteriore novità della chiamata diretta dei presidi. Questa cos’è se non una precarizzazione della scuola? L’inserimento dei genitori, e alla secondaria di secondo grado (le vecchie superiori) di uno studente, nel comitato di valutazione docente, comporteranno l’essere valutati da coloro che siamo chiamati a valutare. Che competenze pedagogico-didattiche hanno? Quando mai un paziente operato valuta il tipo di incisione che il chirurgo ha deciso di effettuare? Non si intende mettere in discussione l’opportunità della valutazione in sé, ma il metodo.
Molti reputano le novità inserite nel comparto scuola come delle garanzie dell’annullamento dei “privilegi” del settore pubblico trascurando un elemento fondamentale: valutare la scuola come un’azienda significa degradare lo studente a prodotto. Quel che facciamo oggi in classe non ha un risultato solo nel voto ma è decisamente più complesso. Quello che facciamo oggi si ritrova tra vent’anni e non è misurabile con indicatori di produttività al pari di una azienda. La scuola è un organismo senziente, che modifica lo studente ma che viene modificato dallo studente, per questo uno studente non può essere paragonato a un bullone.
E ancora, è notizia recente che le scuole dovranno essere sempre aperte, di domenica e d’estate, ma è già sancito dalla riforma che dovranno anche cercare finanziamenti da privati dal momento che «lo Stato non può più dare tutti i fondi necessari» [Matteo Renzi in un intervento che risale a Settembre 2014]. Scuole i cui professori sono, quindi, costretti a trasformarsi in venditori. Questo rende inevitabile che la formazione sia orientata più all’ottenimento di denaro che allo sviluppo integrale della persona. Tutto il lavoro del docente viene infatti proiettato al mantenimento della sopravvivenza della scuola e quindi del suo stipendio.
Cosa abbiamo detto che chiede il mercato, insistentemente, al lavoratore di oggi? Flessibilità. Ma bisogna prima di tutto interrogarci su cosa si voglia intendere realmente con questo termine. Sicuramente il cittadino comune può pensare alla capacità di adattamento e di imparare nuovi saperi; probabilmente per il legislatore attuale non è così. Guardando le riforme del lavoro e della scuola, è evidente che si chieda una flessibilità sul diritto di avere un lavoro soddisfacente, flessibilità sul potere d’acquisto, flessibilità alla sopportazione di lavori sottopagati e al di sotto delle proprie competenze. Flessibilità alla rinuncia, in un gioco al ribasso che non ha intenzione di finire e che provocherà solo ed esclusivamente danni al Paese.
A proposito di formazione e lavoro, è doveroso guardare anche a come è cambiato l’apprendistato con il Jobs Act, in particolare il fatto che “In considerazione della componente formativa del contratto di apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale, al lavoratore è riconosciuta una retribuzione che tenga conto delle ore di lavoro effettivamente prestate nonché delle ore di formazione almeno nella misura del 35 per cento del relativo monte ore complessivo” [Legge 71/2014]. La formazione viene evidentemente in secondo piano, nel momento in cui viene pagata un terzo delle ore di produzione diviene lampante che non è un obiettivo dell’apprendistato! E questa è una contraddizione evidente.
Tale volontà di sminuire l’educazione rispetto alla funzione produttiva si rispecchia, poi, nella scuola con il sempre maggiore rilievo attribuito all’alternanza scuola-lavoro che, con la “Buona Scuola”, è stata potenziata con un incremento da 200 a 400 ore negli istituti tecnici e professionali e da 0 a 200 nei licei. In un momento storico in cui le aziende chiudono ogni giorno e sul territorio sono rimaste ben poche attività imprenditoriali (senza considerare che non tutti gli artistici hanno monumenti vicino e non tutti gli IPSIA hanno accanto la FIAT, o quel che ne rimane, e non sempre è possibile fare impresa simulata) qual è il senso? Il rischio è solo di aver fatto perdere tempo agli studenti e alle aziende che, esse stesse, lamentano la quasi perenne impossibilità di utilizzo dei ragazzi in virtù della loro minore età nonché della mancanza, appunto, di tempo che, in una piccola e media impresa, è esso stesso denaro.
Alla base di tutto questo processo vi è un modello di conoscenza e di cultura che Bauman definisce « liquido-moderna [,una] cultura del disimpegno, della discontinuità e della dimenticanza [.] C’è uno spettro che indugia sui cittadini del mondo liquido-moderno e sui loro lavori e creazioni: lo spettro della superfluità. La modernità liquida è una civiltà di eccesso, sovrabbondanza, spreco e smaltimento» [ Z.B. “Conversazioni sull’educazione”]. Vogliono che diveniamo delle macchine per insegnare ai ragazzi ad imparare in fretta. Questo è molto lontano dalla formazione di una coscienza storica, dall’esercizio di una cittadinanza attiva e da una piena consapevolezza culturale. La cultura umanistica, così tanto sponsorizzata, in realtà si sta tentando di ucciderla e il risultato è che l’insegnamento dell’italiano oramai non è più considerato importante e il decadimento è sempre più evidente [http://www.lemonde.fr/societe/article/2007/02/08/orthographe-les-collegiens-de-cinquieme-sont-tombes-au-niveau-des-eleves-de-cm2-de-1987_865096_3224.html].
Molto probabilmente perché le materie umanistiche insegnano il “bello” e chi conosce il “bello”, riconosce il “bene”, e questo non lo si vuole.
Perché? Scrive Guido Carli nel 1993, a proposito del trattato sull’Unione Europea: “Si ricorse a un «vincolo esterno» per innestare nel ceppo della società italiana un insieme di ordinamenti che essa, dal suo intimo, non aveva avuto la capacità di produrre. La classe dirigente, la società stessa, non erano pronte per accogliere dall’esterno la cultura dell’economia di mercato e reagivano con forza […]. Tale progetto impone un mutamento profondo nella costituzione «materiale» del Paese, l’abbattimento dell’economia mista, l’alienazione del patrimonio mobiliare pubblico […] l’idea di uno «Stato minimo», un conflitto sociale che si snoda nel rispetto della stabilità dei prezzi, […] la flessibilità del lavoro. […] Ancora una volta, si è dovuto aggirare il Parlamento sovrano della Repubblica, costruendo altrove ciò che non si riusciva a costruire in patria.” [G.C. “Cinquant’anni di vita italiana”]
Quindi, in un’ottica di aggiramento delle reazioni contrarie e del volere del Parlamento sovrano, e di conseguenza dei cittadini, quello che abbiamo detto assume un suo senso. È così possibile affermare che stiamo assistendo alla realizzazione di una dis-eguaglianza sostanziale, in virtù delle politiche del lavoro e della deflazione culturale indotta dalle politiche d’istruzione, e a una conseguente limitazione di fatto del diritto di voto in aperto attacco all’articolo 48 della costituzione.
Se non formo persone pensanti, infatti, non devo preoccuparmi neanche del loro voto poiché molto probabilmente non voteranno e, soprattutto, non saranno in grado di produrre quei sistemi immunitari di ribellione a salvaguardia dei propri diritti.
Stiamo assistendo alla morte, di fatto, della democrazia.
Prof. Sara Piersantelli.
Ecco il video della conferenza
https://www.youtube.com/watch?v=1pt59zJVObg&feature=youtu.be&app=desktop
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