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Euro crisis

Nomisma (Prodi): Eurocrisi causata da ciclo di Frenkel nell’area Euro. Opssss….

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Pubblichiamo lo studio del 7 febbraio 2014, di  Sergio De Nardis, Capo Economista della Nomisma dal titolo “Riequilibrio europeo“.

Nomisma e’ una societa’ di studi economici vicina a Prodi (Prodi fu tra i fondatori). L’analisi sostanzialmente conferma in pieno la visione di una “crisi dell’eurozona” figlia degli “squilibri interni” (ormai questa visione, fino a qualche tempo fa confinata a ben pochi eretici, si sta facendo strada a tutti i livelli, e perfino nella societa’ economica vicina a colui che piu’ di chiunque altro spinse per l’ingresso nell’euro). Viene sostanzialmente attribuita’ la responsabilita’ della generazione degli squilibri e della malagestione della crisi alla Germania.

La soluzione proposta e’ il ripianare gli squilibri interni e fare una politica espansiva: in pratica, si chiede ai periferici di fare politiche di compressione del CLUP, alla BCE di fare una politica espansiva, di stimolo monetario ed inflattiva, ed alla Germania di fare una politica fortemente inflattiva (al 3%), di stimolo alla domanda interna e di espansione del CLUP.

Ovviamente non si parla di risoluzione della crisi e degli squilibri attraverso il Break up dell’Euro. Quanto propone Nomisma e’ un “libro dei sogni” completamente irreale: la Germania da decenni ha una fobia per l’inflazione e non accetterebbe MAI di fare una politica inflattiva e di espansione salariale, ne’ accetterebbe di trasformare la BCE in una “tipografia” di valuta, ne’ si lancierebbe in politiche fortemente espansionistiche. I tedeschi l’hanno detto in tutti i modi possibili, per cui le proposte di Nomisma sono sostanzialmente demagogiche: “ammettono che il problema e’ l’euro, la sua gestione, e gli squilibri interni conseguenti”, ma non se la sentono di proporre un break up dell’euro stesso. E’ comunque interessante vedere che le teorie di base dell’euroscetticismo siano state sostanzialmente riconosciute, ed in parte sposate da Prodi e soci.

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I paletti della politica economica non sono solo fissati dalle esigenze di risanamento finanziario. Il riequilibrio competitivo è un vincolo altrettanto cogente. Le modalità asimmetriche con cui l’aggiustamento si sta svolgendo in Europa spingono a recuperare competitività con misure deflative e peggioramenti del mercato del lavoro. Ciò rende difficile il percorso di abbattimento dei debiti e diffonde sentimenti anti-euro. Riforme strutturali sono necessarie anche nei paesi in surplus perché potenzino i fattori di crescita interna e contribuiscano in modo più sostanziale allo sviluppo equilibrato dell’area. Tenuto conto di una nuova sensibilità su questo fronte della Commissione europea, l’Italia dovrebbe farsi parte attiva per la costruzione di una coalizione di interessi in vista del semestre di presidenza europeo.

La crisi euro viene identificata con quella dei debiti sovrani. Ciò conduce a una rappresentazione parziale dei problemi della moneta unica. Determinante fondamentale della caduta di credibilità dell’Unione monetaria è stata l’apertura di divari competitivi interni all’area che hanno portato progressivamente ad allontanare i sistemi produttivi del centro e della periferia. Questo è un fenomeno di grande criticità che  smentisce le aspettative di convergenza prevalenti all’avvio dell’unione e che, se non corretto, favorisce  spinte centrifughe e diffusione di sentimenti anti-euro. Non è dunque pensabile il superamento effettivo della crisi se non si delinea un sentiero credibile di riequilibrio intra-area. Lo si sta percorrendo?  

Lo sforzo di aggiustamento è stato finora demandato esclusivamente ai paesi periferici, affetti da deficit nelle partite correnti. Esso si è tradotto in forti contrazioni delle domande interne di tali economie, deterioramenti dei mercati del lavoro, peggioramento delle condizioni sociali. Un simile approccio ha trascurato le interdipendenze tra deficit e surplus, per cui ogni disavanzo esterno esiste e si amplia nel tempo perché viene finanziato dall’avanzo di qualche altra economia. Ciò è stato vero nel primo decennio di vita dell’euro, quando ai passivi crescenti dei paesi periferici si è associato il rigonfiamento del surplus della Germania, con il corrispondente deflusso di capitali tedeschi verso le economie deficitarie. L’attenzione unilaterale dell’Europa sugli squilibri di segno negativo è derivata dalla tendenza a interpretare gli avanzi commerciali come univocamente rivelatori di condizioni virtuose, in contrapposizione alle dinamiche viziose sottostanti alle formazioni dei deficit. Non sempre è così. Surplus cronicamente elevati possono riflettere distorsioni nell’allocazione delle risorse e squilibri tra settori all’interno delle economie. Inoltre, nei rapporti tra creditore e debitore il primo è tanto responsabile quanto il secondo nell’alimentare situazioni insostenibili: nella crisi americana dei subprime le banche, non le famiglie, ne sono stati ritenute la causa principale. Poiché distorsioni ed eccessi sono rilevabili su entrambi i lati della bilancia, procedere avendo come unico obiettivo il lato negativo degli squilibri produce effetti sfavorevoli, lasciando peraltro intatte le cause di malfunzionamento delle relazioni tra paesi.

Verifichiamo, dunque, lo stato del processo di riequilibrio europeo. La figura 1 evidenzia il netto miglioramento delle bilance delle partite correnti, in rapporto al PIL, delle economie periferiche (Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Grecia), i cui saldi sono passati, tra il 2007 e il 2013, da ampi deficit a condizioni di pareggio o di lieve surplus (nel caso dell’Irlanda, l’attivo è divenuto molto elevato). All’opposto, l’avanzo della Germania non ha mostrato alcuna tendenza alla diminuzione: esso era pari al 7% del PIL nel 2007 ed è più o meno rimasto su quel valore negli anni successivi. Come termine di raffronto si può osservare che nello stesso periodo (2007-2013) l’attivo delle partite correnti della Cina è sceso dal 10 al 2,5%.

Fig. 1 – Saldo delle partite correnti in % del PIL

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Fonte: elaborazioni Nomisma su dati Eurostat, per il 2013 stima Nomisma

L’invarianza del surplus della Germania ne ha sotteso una sostanziale ricomposizione geografica. Il  saldo nei confronti della zona euro si è ridotto, tra il 2009 e il 2013, dal 70 al 25% dell’attivo complessivo. Questo spostamento dell’avanzo tedesco verso il resto del mondo non significa il superamento dei problemi di squilibrio all’interno dell’Unione. Esso è la mera conseguenza della compressione dell’assorbimento delle economie periferiche che ha portato a esportare all’esterno dell’area l’eccesso di risparmio tedesco che prima trovava sbocco in Europa. Il risultato è un attivo senza precedenti della bilancia delle partite correnti della zona della moneta unica: circa 200 miliardi di euro, un valore superiore a quello della Cina. La palese contraddizione tra il segnale di un’area euro iper-competitiva, derivante dal suo grande surplus commerciale, e la realtà dei diversi paesi membri in forte difficoltà è indicativa dell’anomalia che ha contraddistinto finora il meccanismo di riequilibrio europeo.

Peraltro, il recente passaggio in territorio positivo delle partite correnti dei paesi periferici non è in grado di incidere in modo apprezzabile sullo stock di debito estero che essi hanno accumulato negli anni. Da questo punto di vista la correzione dello squilibrio è ancora in gran parte da realizzare per quasi tutte le economie. In Spagna, Portogallo Irlanda e Grecia, il debito esterno netto supera ampiamente il 90% del PIL (fig. 2). Fa eccezione tra i paesi periferici l’Italia, la cui posizione passiva sull’estero, inferiore al 30%, appare  entro margini accettabili di sostenibilità, collocando il nostro Paese in una condizione migliore, sotto questo profilo, rispetto alle altre economie. In modo simmetrico ai periferici, la posizione creditoria della Germania è rimasta su  un trend in costante crescita, superando negli ultimi anni il 40% del PIL.

Fig. 2 – Posizione netta sull’estero in % del PIL

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Fonte: elaborazioni Nomisma su dati Eurostat, per il 2013 stima Nomisma

Il riequilibrio delle partite correnti nei paesi deficitari si è realizzato con la forte contrazione della domanda domestica. A tale politica è stato di fatto demandato il duplice compito, da un lato, di comprimere l’assorbimento nelle economie in deficit e, dall’altro, di indurvi, attraverso indebolimenti dei mercati del lavoro, cosiddette svalutazioni interne, ovvero l’abbassamento persistente delle dinamiche di prezzi e costi sotto quelle della Germania. Un tale processo si è, però, rivelato molto lungo e oneroso, anche per le rigidità al ribasso che normalmente contraddistinguono, in tutte le moderne democrazie industriali, salari e stipendi. Lo sforzo per conseguire svalutazioni interne ha implicato, in assenza di movimenti in senso opposto nell’economia tedesca, aumenti di disoccupazione senza precedenti. Recupero competitivo e peggioramento del mercato del lavoro sono venuti così a costituire due facce della stessa medaglia e i miglioramenti dei conti con l’estero dei periferici sono stati tanto più significativi quanto maggiore è stato l’ampliamento da essi sperimentato dell’area dei senza lavoro (fig. 3). Il saldo delle partite correnti della Spagna è aumentato, in rapporto al PIL, di 10 punti percentuali tra il 2007 e il 2013, sei volte di più rispetto al miglioramento della bilancia italiana; ciò si è verificato in corrispondenza di una triplicazione del tasso di disoccupazione iberico (da 8,3 a 26,5%), a fronte del “solo” raddoppio (da 6,1 a 12,1%) di quello dell’Italia.

Fig. 3 – Saldo delle partite correnti e tasso di disoccupazione nell’area euro
(variazioni in punti percentuali 2007-13)

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Fonte: elaborazioni Nomisma su dati Eurostat, per il 2013 stima Nomisma

I miglioramenti di competitività sono stati, pressoché ovunque, dovuti a labour shedding. A eccezione del caso della Grecia, il costo del lavoro per unità di prodotto (Clup) delle economie periferiche è diminuito non per riduzioni apprezzabili delle retribuzioni nominali, ma per gli aumenti di produttività conseguiti, tra il 2007 e il 2013, attraverso contrazioni dell’occupazione superiori alle pur forti flessioni della produzione (figg. 4 e 5). Da questo punto di vista, l’Italia si distacca dall’esperienza delle altre economie. Mentre la dinamica del costo del lavoro per addetto è stata in linea con quelle di Spagna e Portogallo, l’andamento  della produttività  è risultato peggiore (fig.4). Ciò ha riflesso una caduta dell’occupazione nel nostro Paese meno severa di quella registrata nelle altre economie (fig. 5). Se l’Italia avesse sperimentato in questi anni il tipo di aggiustamento della Spagna (calo dell’occupazione superiore alla flessione dell’output), risulterebbe oggi con un tasso di disoccupazione molto più elevato, nell’ordine del 20 anziché del 12 per cento.  

Fig. 4 – Industria: variazioni del CLUP e delle relative componenti
(var. % logaritmiche 2007-13)

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Fonte: elaborazioni Nomisma su dati Eurostat, per il 2013 stima Nomisma

Fig. 5 . Industria: variazioni della produttività e delle relative componenti
(var. % logaritmiche 2007-13)

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Fonte: elaborazioni Nomisma su dati Eurostat, per il 2013 stima Nomisma

Le difficoltà di riequilibrio intra-euro sono, infine, amplificate dalla bassa dinamica dei prezzi che contraddistingue l’area. In un simile ambiente, gli obiettivi di recupero competitivo per i periferici divengono estremamente onerosi e finiscono col configgere con le esigenze di abbattimento dei debiti pubblici e privati. L’esempio spagnolo evidenzia la complessità di una simile situazione. L’inflazione media dello 0,7% nell’area euro (gennaio 2014) sottende dinamiche prossime a zero in Spagna e pari a un po’ più dell’1% in Germania. Tenuto conto delle stime del gap competitivo dell’economia iberica comprese tra il 12 e il 30%[1], con l’attuale differenziale inflazionistico occorrerebbero dai dodici ai trenta anni per conseguire un azzeramento del ritardo spagnolo. Una condizione difficile da immaginare, ancor più se l’inflazione media dell’area euro scivolasse ulteriormente verso il basso, spingendo in territorio negativo le dinamiche dei prezzi in Spagna: in condizioni di deflazione, il risanamento finanziario diviene proibitivo.

Queste considerazioni evidenziano come siano notevoli i problemi di un aggiustamento competitivo assegnato unicamente alle politiche deflative dei paesi in deficit. Si tratta di un processo lungo, rischioso e impropriamente sbilanciato. E’ necessario un framework più simmetrico per distribuire lo sforzo del riequilibrio anche sui paesi in surplus e rendere meno dolorosa l’azione di correzione dei periferici. Su questo fronte qualcosa sta lentamente cambiando in Europa. La Commissione europea ha deciso lo scorso novembre di avviare una analisi dell’avanzo tedesco, in quanto eccessivo rispetto ai parametri monitorati nella procedura degli squilibri macroeconomici e potenziale fattore di pressione per l’area. E’ un’azione tardiva, che richiederà tempo e produrrà incerti risultati. Ma è utile a spostare l’enfasi europea sui compiti dei creditori, oltre che dei debitori, per favorire un migliore funzionamento dell’Unione. Questo discorso si intreccia con l’altra grande esigenza per facilitare il riequilibrio dei paesi periferici, quello di una maggiore inflazione. Una dinamica più elevata dei prezzi europei, possibilmente per un periodo transitorio anche superiore al target del 2%, verrebbe infatti conseguita con un’inflazione più alta in tutta l’area, ma che nei paesi del centro dovrebbe portarsi per alcuni anni oltre il 3%. Questo è terreno d’azione in primo luogo della BCE che dovrebbe fare pieno uso degli strumenti a disposizione per contrastare la bassa inflazione. Ma lo stimolo monetario è da affiancare con riforme strutturali nei paesi in surplus che, simmetricamente a quelle richieste alle economie in deficit, portino a potenziarne i fattori interni della crescita economica, dando luogo a una più sostanziale spinta della loro domanda domestica e, di conseguenza, a un  contributo più significativo allo sviluppo equilibrato dell’intera area euro. L’Italia, in vista del semestre di presidenza europeo, dovrebbe cominciare a investire in questa direzione per arrivare a costruire per tempo una coalizione di interessi in grado di premere per un cambiamento nella direzione di marcia europea.

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[1] La prima cifra si basa sul differenziale di inflazione accumulato dalla Spagna rispetto alla Germania dall’avvio dell’euro, la seconda è ottenuta dalla stima dell’aggiustamento richiesto per abbassare il debito esterno netto spagnolo dal livello attuale (oltre il 100% del PIL) sotto una soglia di sostenibilità (valutata nel 35% del PIL), cfr. Yvan Guilemette e David Turner, “Policy Options to Durably Resolve Euro Area Imbalances”, OECD, Economics Department working papers n. 1035,  marzo 2013. Secondo queste stime, gli aggiustamenti per riportare sotto i livelli di guardia i debiti esteri  sarebbero nell’ordine del 30% in Portogallo e di quasi l’80% in Grecia. L’Italia si troverebbe, sulla base di questo criterio,  già sotto la soglia di sostenibilità.

 

 

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