Attualità
Il valore (il)legale del titolo di studio
“La generalizzazione del titolo dottorale, altra conseguenza del mito del valore legale, reca non onore, ma discredito”. Così scriveva il secondo Presidente della Repubblica italiana, Luigi Einaudi, in alcune dispense che cominciarono a circolare nel 1955 e riunite in un volume, nel 1959, con il titolo “Prediche inutili”. Il dibattito relativo al confronto tra un sistema scolastico di stampo napoleonico, come il nostro, con quello anglosassone, era stato addirittura riproposto – molto sui generis – durante il governo Monti con l’apertura di una consultazione pubblica senza che poi ci fossero ulteriori sviluppi. Un paio d’anni dopo, invece, il problema non sembra più essere “quale sia il sistema scolastico” migliore da adottare; cioè uno napoleonico in cui il titolo di studio abbia un valore legale “erga omnes”, oppure uno anglosassone dove, sempre mutuando dalle parole dell’Einaudi: “Ogni uomo ha diritto di affermare che il tale o tal altro suo scolaro ha profittato del suo insegnamento. Giudice della verità della dichiarazione è colui il quale intenda giovarsi dei servizi di un altro uomo; sia questi fornito o non di dichiarazioni più o meno autorevoli di idoneità”; bensì la quantità dei laureati e la loro (dis)occupazione. Infatti il problema sembra essere diventato quello per cui ci sarebbe un “surplus” di laureati che, proprio a causa dell’alto numero, non può essere “integrato” nella “capacità produttiva”. Come si vede, anche nel dibattito sull’istruzione, in questi anni di crisi, c’è stata una qualche “scalata verso il basso”, infatti il focus è stato spostato da un punto di vista qualitativo del tipo “quale genere di sistema scolastico”, ad uno meramente quantitativo per cui “abbiamo troppi laureati”. Sorvolando sulla discussione, molto impegnativa, su quale sistema scolastico sia migliore, anche perché tante volte non è una questione di modello ma di chi lo amministra e, senza cambiare gli amministratori, una volta che un modello abbia sanato delle storture non è detto non ne emergano delle peggiori, cerchiamo di valutare effettivamente la quantità e la qualità dei laureati italiani e la loro (dis)occupazione. Per farlo utilizziamo il rapporto dell’OCSE “Education at a glance” del 2013 e vari articoli facilmente rinvenibili in rete e che saranno di volta in volta segnalati.
Il primo grafico del rapporto OCSE che prendiamo in considerazione riguarda la “popolazione che ha conseguito una educazione terziaria (2011)”, in percentuale per due gruppi di età: 25-34 anni indicato con il triangolo e 25-64 anni indicato con il quadrato.
Grafico 1 – Popolazione che ha conseguito una educazione terziaria (2011), in percentuale per gruppi d’età
L’Italia, oltre ad essere ampiamente sotto la media OCSE, è davanti solo a Turchia e Brasile (non paese OCSE ma ricompreso nello studio); al 34° posto su 36°. Nella fascia d’età 25-34 anni, la media OCSE di laureati è del 39%, mentre quella dell’Italia del 21%. Pertanto, il dato numerico su un presunto surplus nella quantità di laureati, relativamente alla popolazione, non sembra trovare conferma. Utilizzando un grafico realizzato con i dati Eurostat – grafico 2, sotto – sempre con riguardo al numero di persone che hanno conseguito una educazione terziaria, che comprende i 28 paesi della UE più Svizzera, Norvegia ed Islanda, le cose non vanno molto meglio, anzi! Infatti se nel grafico dell’OCSE eravamo al terz’ultimo posto, restringendo il “campione” come appena detto, siamo all’ultimo posto. All’ultimo posto, ma non dovremmo disperare perché se la Turchia entrasse nell’EU potremmo guadagnare una posizione. A parte il facile sarcasmo, quello che ci preme comunque notare è che anche i “numeri” di Eurostat non sembrano confermare, per l’Italia, un numero di laureati “spropositato”.
Grafico 2 – Popolazione che ha conseguito una educazione terziaria (25-34 anni)
Una volta visto che i numeri non confermano una quantità di laureati superiore agli altri paesi ma bensì il contrario, prediamo il grafico OCSE – grafico 3 – che compara l’età dei laureati di livello 5A secondo il sistema di classificazione ISCED (International Standard Classification of Education) nei paesi presi in considerazione.
Grafico 3 – Media dei laureati al livello 5° della classificazione ISCED e distribuzione per età (2011)
Mentre nella media OCSE il 20% dei primi laureati (contrassegnati nel grafico con il triangolo) ottiene il titolo di studio attorno ai 22 anni, per l’Italia lo stesso dato risulta in una età media di 23 anni; ma se guardiamo all’80% dei laureati (contrassegnati nel grafico con il rombo nero), la media per l’Italia è sotto i 30 anni, mentre quella dell’OCSE è al di sopra di tale età; ne risulta, pertanto, che l’età media dei laureati italiani è inferiore a quella della media dei paesi OCSE (contrassegnati nel grafico come il quadrato azzurro e/o la colonna). Quindi se i primi due grafici non confermavano una istruzione terziaria particolarmente marcata in termini quantitativi, questo conferma, invece, che l’età media dei laureati italiani è inferiore a quella dei paesi OCSE. In conclusione sembrerebbe non solo che in Italia si abbiano meno laureati che nella media dei paesi OCSE, ma anche che gli stessi si laureino prima.
Infine cerchiamo di vedere quanto è in Italia la spesa pubblica per l’istruzione in relazione alla spesa pubblica totale (grafico 4); la spesa per l’Università in percentuale del PIL (grafico 5); il rapporto studenti/docenti (grafico 6); e le tasse. Questo per farci una idea, seppur generale, di quanto l’Italia investe in istruzione e Università, di come sia il “servizio” offerto – ovvio che un numero troppo elevato di studenti per un basso numero di professori risulterà in corsi troppo affollati con la “spersonalizzazione” del rapporto tra docenti e studenti stessi che a malapena si conosceranno – e di quanto costi questo servizio, sempre rispetto alla media OCSE e degli altri paesi presi in considerazione.
Grafico 4 – Totale della spesa pubblica per l’educazione come percentuale della spesa pubblica totale (1995, 2005, 2010)
La prima cosa che si nota dal grafico è che anche all’OCSE non sono tutti “fenomeni”, infatti mentre nel titolo del grafico si riportano delle date, nella legenda il 1995 non c’è ma troviamo il 2000 (triangolo nero). La seconda cosa che si nota è che su 32 nazioni prese in considerazione l’Italia si trova all’ultimo posto per la spesa in istruzione in percentuale della spesa pubblica totale. Ergo: l’Italia è il paese che ha la minor spesa, in percentuale della spesa pubblica totale, per l’istruzione, rispetto a tutti i paesi presi in considerazione.
Grafico 5 – Spesa per istituti di istruzione per servizi essenziali, ricerca e sviluppo, servizi ausiliari come percentuale del PIL, a livello di educazione terziaria (2010)
Anche in questo caso l’Italia non primeggia, infatti sia la spesa in istruzione per i servizi essenziali (parte azzurra), per quelli ausiliari (parte nera) e per la ricerca e sviluppo (parte a linee bianche e nere), rispetto, questa volta, al PIL, è inferiore alla media OCSE e a quella di quasi tutti i paesi presi in considerazione.
Grafico 6 – Rapporto studenti/docenti nelle istituzioni dell’istruzione per livello di istruzione (2011)
Nel rapporto studenti/docenti solo cinque nazioni, su 26 prese in considerazione, fanno peggio dell’Italia: Indonesia, Repubblica Ceca, Arabia Saudita, Belgio e Slovenia. A questo è necessario aggiungere qualche considerazione in relazione alle tasse universitarie. Le nazioni che impongono tasse più alte di quelle dell’Italia sono quelle che hanno un sistema privato in cui gli studenti fanno ricorso al prestito d’onore per coprire le spesa; e sono notoriamente i paesi anglosassoni più altri paesi come Corea e Giappone, mentre per i paesi europei, solo i Paesi Bassi fanno pagare tasse maggiori che in Italia; e per i benefits, come per es. le borse di studio, siamo sotto la media OCSE.
Per cui, in conclusione, questi grafici sembrano dire che la media dei laureati italiani è inferiore a quella dei paesi OCSE e che, in Italia, anche l’età media dei laureati è inferiore; mentre lo Stato italiano spende meno in istruzione ed educazione e con un pessimo rapporto docenti/studenti, nonostante le tasse universitarie siano tra le più elevate. Cioè: pochi laureati, in buona età, con poco “aiuto” dallo Stato, ed un servizio non proprio ottimale che pagano lautamente. Alla fine di tutto questo, quello che aspetta i “fortunelli” della laurea sono, in moltissimi casi, la disoccupazione, la sotto occupazione (troppo spesso dimenticata) o la “fuga” (c.d. fuga dei cervelli). Ora, nessuno vuole dire che chi ha studiato sia più intelligente e colto di chi non lo ha fatto, sia chiaro: il discrimine intelligenza-stupidità e cultura-ignoranza non è nel titolo di studio; però, soprattutto in certe “posizioni” una valutazione “reale” delle capacità secondo un criterio meritocratico sarebbe auspicabile. Ma qui si sposta il focus dal rapporto quantitativo a quello qualitativo: quale sistema?! Uno di stile napoleonico trilatero in cui c’è un “candidato” (certificato), un ente che certifica (certificante) ed uno Stato (certificatore) che garantisce validità erga omnes; oppure un sistema di stampo anglosassone dove certificante e certificatore sono la stessa istituzione privata (“l’Università che accredita”); mentre quello che a noi interessa – nel presente articolo – sarebbe di vedere perché, l’educazione terziaria nonostante sia così poco diffusa, se ne resti anche disoccupata o sottoccupata, oppure “ripari” all’estero. Ovviamente non avendo spiegazioni e dati, al riguardo, che possano risultare “decisivi”, ma smentendo gli stessi dati un ipotetico “surplus” di laureati, la causa si potrebbe ricercare altrove; e potrebbe essere, come già spiegato, in una scarsa capacità di allocare le risorse rivelatasi, per es., in una economia come la nostra guidata dall’innovazione, in investimenti in settori con una minore produttività totale dei fattori; oppure, sempre per es., si è proceduto ad una selezione o un reclutamento secondo principi non meritocratici e senza verifica delle competenze. Facciamo qualche “casus belli”. Fino a poco tempo addietro c’era un signore che si spacciava per economista senza esserlo, eppure per anni è stato ritenuto tale. Pochi giorni dopo di lui anche un sottosegretario si sarebbe attribuito titoli senza possederli. In Italia per vendere farmaci nottetempo in farmacia devi avere una laurea in medicina, mentre per fare il Ministro della Sanità basta un diploma al liceo classico; mentre se sei amico di un Ministro la licenza media ti può aprire porte che per legge richiedono altro titolo di studio. Un signore che veniva chiamato “mille incarichi” occupava un elevato numero di poltrone (di quelle poltrone dove di solito una laurea nel CV te la chiedono) e aveva una laurea falsa. Il figlio di un famoso leader politico aveva la laurea di un istituto albanese che poi si è scoperto essere comperata. Il fratello di un ministro, recentemente assunto in una azienda “vicina” allo Stato, in una posizione manageriale ovviamente, aveva avuto problemi nella sua carriera universitaria. Se a questo aggiungiamo che ci sono condanne nella amministrazione pubblica per false dichiarazioni sui titoli di studio posseduti e che è stato scoperto un sistema per la falsificazione degli esami universitari, sembra quasi che invece di una laurea dal valore erga omnes, che garantisce solo disoccupazione, l’unica laurea che conti veramente sia quella che ha valore (il)legale! Quella “auto-certificata”! Inoltre, se a questo aggiungiamo che oltre a politici, nelle amministrazioni a tutti i livelli, sull’orlo dell’analfabetismo di ritorno ed anche oltre, altri che votano il MES senza sapere cosa sia, che pensano solo al vitalizio, che ritengono che gli F-35 siano elicotteri per spegnere gli incendi, oppure che tra Ginevra ed il Gran Sasso ci sia un tunnel dove passano i neutrini (casus belli che dimostra come non sia il titolo di studio il discrimine); abbiamo i loro parenti, gli amici, gli amici degli amici, i raccomandati, i paggi, ecc. ecc. e che, tutti, solitamente finiscono in posti di rilievo nelle amministrazioni pubbliche e nel “para-Stato”; che tale modus operandi, di selezione, valutazione e reclutamento sta diventando sempre più usuale anche nel settore privato, soprattutto di grandi dimensioni – visto che anche lì, l’unica laurea che sembra contare sempre di più è quella che non si ha o che si millanta – il perché in Italia “laureato valga disoccupato” non si può ancora certamente spiegare, ma una risposta, almeno “parziale”, al perché della (dis)occupazione “dell’istruzione terziaria”, la si potrebbe avere.
Luca Pezzotta di Economia Per I Cittadini
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