Euro crisis
Un Paese malato: l’euro fa male anche alla Germania!
La Germania, la cosiddetta “locomotiva d’Europa” (una locomotiva che invece di tirare i vagoni li spingeva indietro, ma vabbè…) sta tornado ad essere “the sick man of the euro”, come titolava l’Economist nel 1999 e la colpa questa volta è dell’euro. Ma come, si dirà, ma se la Germania ha le migliori performances dell’eurozona, se è l’unico Paese che accumula enormi surplus commerciali, tanto da sforare verso l’alto i limiti di deficit/surplus previsti dal Trattato europeo, come fa ad essere malata? La risposta ha radici lontane.
Intanto vediamo perché si può considerare malata: la povertà in Germania è al livello più alto da 25 anni a questa parte: su 80 milioni circa di abitanti, secondo un report del Paritätische Gesamtverband, la più importante associazione di assistenza, sono attualmente classificati come poveri 12,5 milioni; secondo l’Ufficio Federale di Statistica, più di 3 milioni di lavoratori attivi sono attualmente scesi sotto la soglia di povertà; secondo il recentissimo report di Eurostat di aprile, ben il 27,5% dei lavoratori risulta sotto-impiegato od impiegato parzialmente (solo l’Austria ha una percentuale maggiore con il 27,7%); secondo uno studio dell’Istituto di Politica Macroeconomica di Düsseldorf, dal 1991 al 2010 l’indice Gini, misuratore della disuguaglianza nella distribuzione del reddito, è salito di quasi il 13%; a marzo poi l’indice della produzione industriale tedesco ha segnato un – 0,5%, contro un aspettativa di un + 0,4%. Se a ciò uniamo che gli investimenti pubblici nelle infrastrutture sono praticamente fermi da anni (nel 2013 secondo Eurostat erano al 1,7% del PIL, contro una media del 2,3% nel resto dell’eurozona) e, a fronte di una richiesta degli Enti locali di spendere almeno 118 miliardi per strade ed edifici, lo Stato ha promesso dal 2016 investimenti per appena 10 miliardi, si capisce che parlare di malattia non è poi così sbagliato.
Le cause sono quelle che un economista attento come Bagnai ha da anni evidenziato e racchiuso nell’efficace termine “segare il ramo dove si è seduti”: le riforme Hartz e soprattutto la Hartz IV che ha istituito i “minijobs”. Su di essi molto si è scritto e rimando ad esempio a questo articolo del blog Voci dalla Germania per un esame nel merito. Quello che qui interessa evidenziare è che un modello di sviluppo basato sulla compressione dei redditi dei lavoratori a beneficio di un abbassamento del CLUP (costo del lavoro per unità di prodotto) e quindi dell’esportazione piuttosto che del consumo interno è insostenibile nel medio termine, crea degli squilibri nella distribuzione del reddito, con la ricchezza che si concentra in poche mani di grandi industriali, e costringe lo Stato ad intervenire a sostegno per garantire almeno la sopravvivenza del lavoratore, distogliendo risorse dalla spesa per sviluppo e manutenzione delle infrastrutture pubbliche. Ecco due grafici esplicativi:
La Germania è l’unico grande Paese che persegue da sempre queste politiche, che ciclicamente la mettono in crisi, e la UEM germano-centrica sta imponendo questo folle modello di sviluppo anche agli altri Stati dell’eurozona, i quali, impossibilitati di agire sulla leva monetaria per difendersi dalla competitività di prezzo attuata dalla Germania con svalutazioni difensive, non possono far altro che a loro volta comprimere i salari (od aumentare artificialmente la produttività, diminuendo il numero di lavoratori per produrre la stessa quantità di prodotto) con il risultato di provocare una corsa al ribasso dei costi e quindi dei redditi a colpa di deflazioni reali, distruggendo quindi ciascuno la propria domanda interna.
Questa folle corsa dove nessuno vince alla fine è il sistema economico che ci viene imposto e, finora, indicando la Germania come modello da seguire: ora che anche questa ne è vittima avranno il coraggio in Europa di prenderne atto e cambiare strada?
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