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Un intervallo alla propaganda europeista (vol. 6): tu chiamala, se vuoi, democrazia…

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La fallacia della “composizione” (che può presentarsi anche nella sua versione speculare, e cioè della “divisione”) rientra nel novero delle fallacie non formali caratterizzate anche da giochi di parole o da “pasticci” linguistici.

Essa si verifica quando si attribuisce a una cosa complessa, costituita da tante parti, la caratteristica precipua di una sua singola parte. In molti casi, la fallacia è evidente e pacchiana nella sua “insostenibilità”. In altri, può trattarsi di una forzatura logica benché sorretta da una certa carica suggestiva e fuorviante.

Esempi divertenti: la casa è fatta di mattoni quadrati; dunque, la casa è quadrata. Oppure: quella squadra è composta dai migliori giocatori del mondo; dunque, è la squadra più forte del mondo.

La fallacia di divisione consiste nel “ragionamento” opposto. Esempio: la mia moto è metallizzata, quindi le gomme della mia moto sono metallizzate.

Nel caso dell’Unione europea, la fallacia della composizione consiste nell’attribuire alla UE le caratteristiche di un sistema democratico perché tutti i Paesi che la compongono sono democrazie rappresentative e sistemi democratici.

In questo caso, la fallacia di composizione funziona in quanto estremamente insidiosa e difficile da smentire, in apparenza. Perché mai mettere in dubbio un ragionamento così “logico”? Chi potrebbe dubitare che la UE sia l’essenza stessa della democrazia, visto che è stata “costruita” da nazioni libere, tradizionalmente annoverate tra le più solide democrazie del mondo? Pensiamo all’Italia, ma anche alla Francia, alla Germania, alla Spagna, eccetera. Alcune di esse, tra l’altro, sono diventate democratiche dopo aver sperimentato alcune delle dittature più feroci del Novecento (Spagna con il franchismo, Germania con il nazismo, Italia con il fascismo). Ergo, sono super-vaccinate contro il germe del totalitarismo. Comunque, a prescindere da ciò, nessuno dubita che tutti gli Stati europei sono retti da regimi democratici.

Eppure, trattasi di una fallacia di composizione bella e buona. Infatti, se superiamo il “trabocchetto” della “composizione” e andiamo a verificare, nei fatti, scopriamo che la democrazia non è assolutamente un “requisito-valore” di cui la UE possa menare vanto. Tutto il contrario.

A dimostrazione di ciò potrete trovare, informandovi, abbondanti ed esaustive “confessioni” da parte dei padri fondatori e di molti dei maggiori responsabili del consolidamento del progetto unionista. Essi, infatti, a differenza di diversi europeisti per partito preso (che non hanno neppure mai letto i trattati) sanno benissimo che l’Unione europea non solo non è frutto di un processo democratico, ma non poteva né doveva esserlo. E non solo non ha una struttura democratica, ma non poteva né doveva averla.

Quanto al primo aspetto (il processo storico), se davvero fosse stato di natura democratica, esso sarebbe scaturito da una esigenza e da una richiesta dei popoli europei. E invece è stato l’esito dei piani approntati da una élite. Quanto al secondo aspetto (la struttura), se fosse realmente democratica, essa non sarebbe gestita in maniera autocratica da parte di chi controlla la plancia di comando (e cioè la Commissione europea e le lobby occultate dietro il suo paravento).

Ciò è accaduto proprio giocando su una premessa all’apparenza ovvia, anzi addirittura “scontata”. Chiunque, in buona fede, ha creduto nel progetto dell’Unione, non ha mai neanche lontanamente sospettato che le origini, gli sviluppi e gli approdi di questo viaggio potessero essere nient’altro che democratici.

Era inevitabile, in base alla fallacia di cui ci stiamo occupando: se tu sommi tante democrazie, non potrai che ottenere una democrazia più grande. Ma è proprio così? Uno dei primi insegnamenti che ho ricevuto, all’inizio della pratica forense, me lo diede un giudice di pace: “Si ricordi,” – mi disse – “che come dieci conigli non fanno un cavallo, dieci indizi non fanno una prova”. E ventisette democrazie non fanno una super-democrazia, aggiungo io.

Ma, d’istinto, verrebbe da pensare l’opposto. Dopotutto – lo ribadiamo – stiamo parlando dell’Europa, di quel continente dove la democrazia è nata (in Grecia) e si è poi sviluppata, nel corso dei secoli, anche attraverso l’esperienza dell’autogoverno comunale (in Italia).

Per tale ragione, se provi a manifestare il tuo convinto euroscetticismo o, peggio, a mettere in dubbio l’anima “libertaria” (per definizione e per necessità storica) della UE, ti guardano storto. E ti rispondono che è assurdo dubitare dell’essenza democratica della UE, quando la UE è una sommatoria di tante democrazie.

Questo “meccanismo” inquina il pensiero di tanti sinceri europeisti i quali sono tratti in inganno dall’implicito, e subdolo, sofisma. E così non possono neppure stare ad ascoltare chi li mette in guardia sul pericolo mortale e paradossale, per la democrazia, rappresentato dall’incombente progetto degli Stati Uniti d’Europa.

L’apparente “logica” di questa fallacia, insomma, è straordinariamente potente. Per questo fa presa. E, sempre per questo, è fondamentale smontarla. Come? Ci sono diversi modi efficaci.

Scaldiamo i motori, ricordando le opinioni di alcuni importanti studiosi della materia. Per Philippe C. Schmitter, autore del saggio Come democratizzare l’Unione europea e perché, il sistema di governo dell’Unione non è una democrazia, né potrà esserlo senza radicali riforme. Nel suo testo trovate una battuta fantastica sulla fallacia “democratica”: l’Unione europea non potrebbe chiedere l’adesione alla UE perché, a sua volta, essa (per paradosso) non rispetta i criteri di democraticità imposti ai suoi Stati membri.

Per il prof. Joseph Weiler (autore dei testi Comunità europea e L’Italia in Europa, profili istituzionali e costituzionali), la UE sarà democratica solo quando i suoi cittadini potranno “mandare a casa” i loro governanti dopo un’elezione.

Ecco, invece, come il Professor Paolo Ponzano, docente di governance europea al Collegio europeo di Parma, ha pregevolmente fotografato la situazione: «Se si dovesse riassumere la recente governance dell’Unione economica e monetaria, si potrebbe affermare che la crisi del 2008 ha prodotto la nascita di un governo informale della zona Euro al di fuori di un processo democratico. Un direttorio informale che associa la Commissione europea, la BCE, i governi e le amministrazioni nazionali del Tesoro interviene nel cuore delle politiche economiche e sociali degli Stati membri, vale a dire nella definizione dei bilanci nazionali, della fiscalità e persino nelle politiche sociali sotto il segno dell’austerità senza tuttavia promuovere una reale crescita economica a livello europeo. Tutto questo avviene senza un reale controllo democratico, né in seno al Parlamento europeo né a livello dei Parlamenti nazionali».

Per orientarci, quando parliamo di democrazia, rammentiamo una delle caratteristiche fondamentali di un moderno organismo “democratico” come “codificata” nella celebre separazione dei poteri di Montesquieu (De l’esprit des lois, 1748): potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Ebbene, significativamente, il Vice-Presidente della Convenzione europea Giuliano Amato in un suo intervento del 28 febbraio 2002 disse: «Montesquieu non ha mai visitato Bruxelles».

La Commissione, per esempio (organo verticistico e rappresentativo per eccellenza della UE), è dotata di competenze rilevanti in tutti e tre gli ambiti (legislativo, giudiziario ed esecutivo) di cui parlava Montesquieu. È una sorta di mostro a tre teste. Infatti:

1) partecipa all’esercizio del potere legislativo, tramite il suo diritto esclusivo di iniziativa legislativa (tutte le leggi europee devono partire da una proposta della Commissione);

2) si spartisce con il Consiglio europeo il potere esecutivo attraverso la adozione di atti e decisioni politiche;

3) infine, condivide anche il potere giudiziario: può multare chi viola il sacro principio della “concorrenza”, vietando gli aiuti nazionali alle imprese o le concentrazioni di imprese. Se, contro questi deliberati, non viene proposto un appello alla Corte di Giustizia, i “verdetti” della Commissione si impongono.

La Commissione, oltre a proporre le leggi, gestisce il bilancio (ha le redini della cassa), rappresenta l’Unione e gode della massima indipendenza dai singoli Stati.

Di italiani, nella commissione, ce n’è solo uno (attualmente, Paolo Gentiloni) perché essa è costituita da ventisette membri, uno per ciascun Paese. Pensate alla “bizzarria” di un organo così importante composto da meno di una trentina di delegati per rappresentare, gestire, guidare centinaia di milioni di persone. I quali soggetti, poi, non sono eletti dal popolo, ma scelti dai rispettivi governi per non meglio precisati meriti. Così recita, in proposito, l’art. 17, par. 3 del TUE: «I membri della commissione sono scelti in base alla loro competenza generale e al loro impegno europeo tra personalità che offrono tutte le garanzie di indipendenza».

Ritorna il mitico “valore” dell’indipendenza che contraddistingue anche le banche centrali. Chissà come, tutti gli organi più potenti (BCE e Commissione in primis) sono sempre composti da soggetti rigorosamente non eletti e rigorosamente indipendenti. Ma indipendenti da cosa? Da chi? Come fanno a essere indipendenti dall’unica fonte di legittimazione da cui qualsiasi organo dovrebbe, invece, dipendere, per definizione, in un regime democratico? E cioè il popolo. Forse sono esseri angelicati provenienti da un’altra dimensione o extraterrestri sbarcati dall’astronave di una civiltà più evoluta? Non è dato saperlo, ci basti il fatto che sono indipendenti.

Passiamo ora al Parlamento. Il parlamento, in una vera democrazia, ha un paio di caratteristiche imprescindibili: è rappresentativo degli elettori e ha l’iniziativa legislativa, cioè la possibilità di promuovere le leggi. Quest’ultima circostanza non va assolutamente sottostimata in quanto costituisce il cuore stesso di qualsiasi organismo di carattere “parlamentare”. In parlamento, i rappresentanti dei cittadini ci vanno, appunto, per “parlare”, per dibattere e, alla fine, per approvare o respingere progetti di legge che, di regola, essi stessi hanno concepito, proposto e promosso.

Dire che un parlamento non ha l’iniziativa legislativa è come dire che un tribunale non ha la possibilità di giudicare o un organo del potere esecutivo non ha la possibilità di decidere. È un vero e proprio controsenso sul piano della “grammatica” della democrazia. Ma il Parlamento europeo questa prerogativa non ce l’ha, visto che è un’esclusiva della Commissione.

Non solo: oltre a non avere il potere dirimente di iniziativa legislativa, il Parlamento europeo è vulnerato – nella sua prerogativa prima: la “rappresentatività” – anche dal fatto di essere il frutto di tante elezioni nazionali, dove i cittadini votano partiti non europei, ma nazionali. E tali movimenti si candidano sulla base di vaghe enunciazioni di principio per poi riunirsi in gruppi parlamentari omogenei con gli eletti di altri Paesi; ma solo dopo le elezioni.

Quanto al Consiglio europeo e al Consiglio dei ministri dell’Unione europea, sono organismi che rappresentano i governi nazionali e quindi, in qualche modo, costituiscono ancora un residuato novecentesco.

Il Consiglio europeo è costituito dal massimo rappresentante di ciascuno dei ventisette Stati componenti l’Unione: o il capo dello Stato (se si tratta di una repubblica semipresidenziale o presidenziale) oppure il capo del governo (se siamo in presenza di una monarchia o di una repubblica parlamentare).

Ebbene, il Consiglio europeo decide (in base all’articolo 15, comma IV del TUE) per “consenso”, salva diversa disposizione dei trattati. In pratica, i leader dei ventisette prendono le decisioni tutti insieme, di comune accordo. Oppure all’unanimità e, solo raramente, a maggioranza qualificata.

In buona sostanza, ci troviamo davanti a una modalità decisionale mai esistita in democrazia. Uno dei cardini del funzionamento di ogni consesso con aspirazioni vagamente rappresentative è quello della maggioranza. Così funzionavano le assemblee ateniesi, ai tempi dell’agorà, così i comizi tributi ai tempi di Roma, così le magistrature dei comuni nel Quattrocento, così funziona un’assemblea di condominio o il consiglio pastorale di una parrocchia. Il Consiglio europeo, invece, decide perché decide. È un minotauro, un essere mostruoso composto di altri esseri minori (nella fattispecie, i singoli Stati) ma deliberante con una propria testa, come se ne fosse realmente fornito, infuso di una coscienza superiore, investito del pensiero collettivo o di una “mente alveare” che gli consente di fare sintesi tra le esigenze e le necessità e i bisogni di ogni componente. Diciamo che gli organi decisionali dell’Unione europea, come la Commissione e il Consiglio europeo, hanno assorbito, in virtù di un processo omeostatico, le sacre qualità che il Pensiero Unico Corrente attribuisce ai Mercati.

L’altro consiglio è detto Consiglio dei ministri dell’Unione europea o, più semplicemente, Consiglio della UE. Potremmo definirlo anche il consiglio delle porte girevoli. È un organo ibrido, o anfibio o polimorfo. Non è costituito da un consesso permanente di soggetti stabili, eletti o non eletti che siano, ma piuttosto da un gruppo di persone che entra ed esce dalla stanza dei bottoni, a seconda dei temi in trattazione. Se si affrontano questioni economiche, tocca ai ministri dell’economia dei ventisette Paesi; se invece, all’ordine del giorno, vi sono tematiche ambientali prendono posto i loro colleghi ministri competenti in materia. E così via.

Ora, abbiamo appena evidenziato come sia davvero arduo formare una decisione autenticamente “politica” (di destra o di sinistra) all’interno di adunanze non elettive, partecipate da membri di lingua ed estrazione diversa e chiamate a decidere non secondo il principio tradizionale di maggioranza, ma secondo quello “totalitario” del consenso o dell’unanimità.

Queste stesse controindicazioni sono amplificate all’ennesima potenza se l’assemblea di cui discutiamo è, per di più, formata da persone “rotanti”, come i pupi di un carillon, entranti e uscenti, a comando, dalle porte girevoli di una giostra.

E allora? Allora, la verità è che il vero cuore pulsante, il cemento del progetto europeo sono la burocrazia e la tecnocrazia. Gli Stati, in attesa di scomparire del tutto, sono dei vassalli latori di decisioni prese altrove. Come ben sa chiunque abbia fatto studi di sociologia delle organizzazioni, quando viene messa in piedi una qualsiasi struttura, si crea in breve tempo un nucleo forte, uno zoccolo duro, di funzionari che realmente decidono. Max Weber ha fatto molte ricerche in proposito. E quanto più è articolato, complesso, frammentato, oserei dire spappolato, il processo decisionale, tanto più esponenzialmente aumenta il potere dei burocrati. Dove la politica abdica, la burocrazia impera.

È del tutto chiaro e intuitivo, per qualsiasi persona di media cultura e buon senso, che il ministro di un governo nazionale transitorio (tutti gli esecutivi, fatalmente, lo sono: basta pensare al turn over italiano nella prima repubblica e, in misura inferiore, anche nella seconda) quando arriva a Bruxelles per una riunione del Consiglio, si troverà la pappa già pronta: chili di carta e di report già preparati e tradotti in tutte le lingue della babele europea che dovrà solo sfogliare e approvare.

D’altronde, è un po’ quanto prevedevano, agli inizi del secolo, gli elitisti. Mi riferisco a Gaetano Mosca, Wilfredo Pareto e Roberto Michels. Svilupparono le intuizioni di Max Weber il quale aveva individuato la stretta connessione esistente tra le caratteristiche della modernità (sotto forma di aumento della complessità delle organizzazioni sociali e della burocrazia) e la tendenza allo sviluppo di centri di potere sempre più lontani ed elitari. Michels, in proposito, scriveva: «L’organizzazione è la madre del predominio degli eletti sugli elettori, dei mandatari sui mandanti, dei delegati sui deleganti. Chi dice organizzazione dice oligarchia». Gli elitisti giunsero, addirittura, a formulare una legge ferrea delle tendenze oligarchiche. Badate bene: si tratta di sociologi degli inizi del Novecento. Da allora è trascorso un secolo e questo processo, ovviamente, si è intensificato a dismisura.

La UE costituisce un esempio perfetto, anzi perfezionato al massimo grado, di quanto essi avevano intuito. Quelle esaminate dagli elitisti, peraltro, erano pur sempre tendenze storiche, dinamiche del potere che i succitati studiosi credevano di aver individuato e “isolato”. Per poi ricavarne una sorta di legge ineluttabile di funzionamento dei meccanismi moderni di produzione, conservazione (e, infine, declino) del potere. Nel caso dell’Unione europea, invece, stiamo discutendo di un disegno organico, reale, storicamente inverato che si innesta molto bene nel solco della teoria elitista.

Da un lato, in conformità alla previsione degli elitisti, si è affermata una super casta di burocrati-tecnici che finisce per amministrare il vero potere – sovente per conto terzi (lobby varie) – sotto una sverniciata di manfrina democratica. Dall’altro lato, però, questo fenomeno, come già sottolineato, è stato lucidamente voluto. Nel senso che le istituzioni comunitarie sono progettate a tavolino per sottrarre quante più prerogative possibili alla base. Così da consegnarle ai vertici di una super casta destinata a governare – da una posizione trans-nazionale, extra-statuale e fondamentalmente a-democratica – le sorti delle nazioni un tempo sovrane e dei loro cittadini.

Francesco Carraro

www.francescocarraro.com


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