Finanza
Tassazione Rendite Finanziarie: l’aumento di Renzi è un male
Ricapitoliamo tutte le tasse sul risparmio
- TASSAZIONE RENDITE FINANZIARIE AL 26% (interessi, cedole, dividendi, capital gain…), esclusi i titoli di Stato, che resteranno al 12,5%
- IMPOSTA DI BOLLO sulle comunicazioni inviate dalle banche su depositi bancari e postali e altri prodotti finanziari allo 0,20%
- TOBIN TAX SULLE TRANSAZIONI DELLO 0,10%. L’applicazione della tassa avviene solo in fase acquisto. Sono escluse (almeno per il momento) dall’applicazione della Tobin Tax: tutte le operazioni su mercati esteri (ad eccezione del mercato francese), le operazioni su Fondi, sicav, Obbligazioni, ETF, ETC e Valute (Forex), le transazioni relative a prodotti o servizi etici e le forme pensionistiche obbligatorie e complementari
- COMMISSIONI BANCARIE e conti titoli
La Tassazione reale sulle Rendite, comprendendo tutte le voci di cui sopra, varia tra il 20% ed il 50% delle Rendite. Calcolandola solo sulle quote eccedenti l’inflazione (fino a cui non e’ guadagno ma semplice ricostituzione del capitale) la tassazione e’ dell’ordine del 30% fino spesso ad oltre il 100%. La tassazione e’ INVERSAMENTE proporzionale alla ricchezza finanziaria, de facto.
Un caso pratico e’ banale: una persona con un investimento prudente obbligazionario di 10.000 euro e rendita 2% (200 euro di rendita; che pero’, considerando un inflazione all’1%, porta a solo 100 euro la reale rendita). La Tassazione sulle rendite sara’ 52 euro, il bollo 20 euro. Totale 72 euro, il 36% (calcolandola sulla sola rendita reale siamo al 72% di aliqiota). Sommando poi Tobin Tax e Commissioni Bancarie varie, alla fine l’intera rendita e’ pappata dallo Stato e dalle Banche
Da: Investire Oggi
La tassazione delle rendite finanziarie è inefficiente, ingiusta e forse anche inutile per la riduzione delle tasse sul lavoro.
La tassazione delle rendite finanziarie salirà dal 20% al 26%, con l’obiettivo di incassare 2,6 miliardi da destinare all’abbattimento del 10% dell’Irap. Lo ha annunciato il governo Renzi, che intende anche diminuire le imposte sui redditi da lavoro di 10 miliardi.
Se è senz’altro meritorio che un’imposta considerata iniqua e disincentivante per le assunzioni, come l’Irap, venga ridotta, di tutt’altro segno andrebbe interpretata la direzione che i vari governi hanno seguito sulle rendite finanziarie.
Sindacati, ma anche parte degli imprenditori e dei politici sostengono che aumentare le tasse sulle rendite sia equo, in quanto colpirebbe l’economia improduttiva, favorendo così il lavoro e la produzione. Si tratta di una visione demagogica e alquanto parziale dei fatti, perché se da un lato non si riesce mai a comprendere bene cosa siano le cosiddette rendite “pure”, dall’altro si finge di non capire che esse siano frutto di risparmi, a loro volta derivanti dai redditi da lavoro o delle imprese, al netto dei consumi. I primi sono soggetti al pagamento dell’Irpef o Ires (più Irap), i secondi all’IVA. Tassare le rendite finanziarie, quindi, significa in sé colpire lo stesso reddito per la terza volta.
Perché la stangata è un male
Aldilà delle ragioni più propriamente etiche, il risparmio è anche tutelato dall’art 47 della Costituzione, in quanto svolge un ruolo economicamente e socialmente importantissimo. Un’economia senza risparmio non ha risorse per gli investimenti, per cui non potrebbe crescere, tranne che non importi i capitali dall’estero, ma esponendosi agli umori degli investitori internazionali; un pò come accade da molti anni per gli USA. Il risparmio, quindi, andrebbe incentivato e non disincentivato.
Le famiglie italiane hanno potuto evitare gli effetti più deleteri di ben 5 anni e mezzo di crisi economica senza precedenti, grazie ai risparmi accumulati da una vita o forse anche da più generazioni, che hanno attutito il loro fabbisogno e le hanno sostentate spesso per i lunghi periodi di assenza di un reddito. In altri termini, il risparmio è il più grande ammortizzatore sociale di un paese, che assicura tutela e dignità a un individuo o a una famiglia.
L’aumento della tassazione, poi, accentua la disparità di trattamento tra piccoli e grandi investitori, con questi ultimi (vedi banche), che sottopongono le rendite finanziarie a un altro trattamento fiscale.
Stangare le rendite potrebbe essere inutile ai fini del gettito, non solo perché i capitali tendono a muoversi più o meno rapidamente e a sfuggire all’aumento della tassazione in un paese (vedi Tobin Tax), ma anche perché la stessa base imponibile è molto instabile e aleatoria. Ad esempio: per rendita finanziaria si intendono anche i “capital gain”, ossia il guadagno ottenuto vendendo titoli a un prezzo superiore a quello di acquisto. Ma il prezzo lo determina il mercato e nessuno è in grado di prevedere con certezza in che direzione esso si muoverà nel tempo e con quale frequenza saranno venduti i titoli precedentemente acquistati dai risparmiatori.
E ancora: il gettito derivante dalla tassazione delle rendite finanziarie è di appena 11 miliardi di euro all’anno, contro i 150 circa di quello Irpef (di cui, 90 da redditi da lavoro) e i 35 miliardi di gettito Irap. Le misure in gioco sono così diverse, che anche solo ipotizzando di calcare la mano pesantemente sulle prime non si potrebbe finanziare un serio programma di riduzione del carico fiscale su lavoro e imprese.
E perché mai investire in titoli di stato (tassati anche in futuro con l’aliquota agevolata del 12,5%) dovrebbe essere considerato più meritorio che farlo su altri titoli? Lo stato distorce così gli investimenti e si pone al di sopra del resto del mercato.
Infine, le rendite sono già oggi tartassate, tra imposta di bollo, aliquota al 20% e Tobin Tax, senza tenere conto delle commissioni bancarie, che in tempi di tassi zero contribuiscono spesso ad erodere il capitale.
Per concludere, il governo Renzi farebbe bene a tenere presenti le critiche non ideologiche di chi è contrario a un intervento sulle rendite o rischia di sbattere contro il consuntivo, dovendo tra pochi mesi reperire altrove risorse, che altrimenti rischiano di non essere incassate per questa via.
Anche perché, nel frattempo, il governo Letta aveva già aumentato l’imposta di bollo sui depositi, portandola dallo 0,15% del 2013 allo 0,20%, quando era ancora allo 0,12% nel 2012. Per non parlare del fatto che dall’1 marzo del 2013 si applica pure la cosiddetta “Tobin Tax” o tassa sulle transazioni finanziarie sui saldi giornalieri di azioni e sui derivati.
Un esempio pratico
Per capire l’effetto della stangata, facciamo un esempio: se investo 100 mila euro e ottengo un rendimento del 3%, il mio ricavo sarà di 3 mila euro. Su questo dovrò pagare il 26%, pari a 780 euro, a cui si aggiunge la “mini-patrimoniale” dello 0,2% sull’intero investimento, ossia altri 200 euro. E senza tenere conto della possibile Tobin Tax, che si applica a monte, nel momento in cui si effettuano scambi giornalieri di azioni e derivati. In totale, pagherò 980 euro su un rendimento di 3.000 euro, ossia il 32,7%, un terzo. All’aumentare del rendimento, il peso dell’intera tassazione tende a ridursi, perché l’imposta di bollo inciderà in misura inferiore. Lo stesso esempio, ma con un rendimento di 5.000 euro, ci da un aggravio complessivo del 30% tra aliquota del 26% e la “mini-patrimoniale”.
Replichiamo, adesso, la stessa simulazione, ma applicando le aliquote in vigore nel 2013 (20% sulle rendite e imposta di bollo allo 0,15%): 3.000 x 0,20 = 600 euro. Imposta 0,15% x 100.000 = 150 euro. Totale: 600 + 150 = 750 / 3.000 = 0,25 o 25%. Lo stesso investimento, in appena un anno, viene tassato dal 25% al 32,7%, una stangata di quasi otto punti percentuali.
Cosa accade all’estero
In Germania, l’imposizione sulle rendite finanziarie è del 26,3%, in Francia si applica un’imposta di base del 24% e una supplementare di “solidarietà” del 15,5%, totale: 39,5%. Negli USA e in Gran Bretagna, invece, le rendite finanziarie vengono assoggettate alle stesse aliquote sui redditi da lavoro, per cui l’aggravio dipenderà dalla situazione economica di ciascuno.
Ma in Italia poteva andare pure peggio. A gennaio, lo stesso Matteo Renzi, in qualità di segretario del PD, aveva pungolato il governo Letta, sostenendo la necessità di aumentare la tassazione sulle rendite finanziarie dal 20% al 28%. Alla fine, si è trovato, quindi, un compromesso tra quanti vociferassero di una stangata al 23% e il progetto originario del premier.
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