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“Su i vili, su i traditori e su i vili traditori.” di Raffaele SALOMONE-MEGNA

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La storia dell’Italia, così come quella del mondo, è piena di tanti episodi i cui esiti finali, purtroppo, sono stati determinati da soggetti che possono essere annoverati tra una di queste tre categorie; quella dei vili, quella dei traditori e quella dei vili traditori.

Personaggi questi che hanno arrecato danno alla propria patria, facendo scelte di campo pericolose, determinate da meschino interesse personale oppure da mancanza di coraggio, se non addirittura da un naturale “animus dolendi”, proprio dei traditori.

Esempi emblematici di vili e traditori sono riportati dalla storia e dalla letteratura.

Credo che un campione di viltà sia stato il greco Efialte, il pastore di Trachis, che indicò agli Immortali di Serse il sentiero di montagna che aggirava le Termopoli, consentendo così di prendere gli Spartani alle spalle e di annientarli.

La sua azione fu dettata dal soddisfacimento di bassi interessi, anche se poi le cose gli andarono molto male e non potè mai incassare dai Persiani la ricompensa pattuita.

Un “fulgido” esempio di traditore, per intimo convincimento, è un altro personaggio storico, poco conosciuto ai più, che però ha avuto un ruolo importante su come si è evoluta poi la storia europea.

Si tratta del prefetto romano Arminio, per l’esattezza di Gaius Iulius Arminius.

Arminio, di origine cherusca, era stato latinizzato assieme al fratello Flavo ed era diventato un prefetto di coorte. In realtà, la sua influenza nell’esercito romano andava ben oltre il suo grado, godendo egli della fiducia incondizionata di Publio Quintilio Varo, parente dell’imperatore Augusto e governatore della Germania.

Arminio, che conosceva benissimo i metodi di combattimento dei latini, strinse un patto con i Cherusci, tribù germanica delle terre del nord, per organizzare un agguato alle legioni di Varo.

Pertanto, convinse Varo che fosse un percorso più agevole per i romani attraversare la foresta di Teutoburgo per recarsi a svernare più a sud.

Arminio , assieme alle sue truppe ausiliarie, si mise alla testa di tre legioni, la XVII, la XVIII e la XIX, per condurle gli inizi di settembre dell’anno 9 d.C. sul luogo dell’agguato, il centro della foresta di Teutoburgo.

In spazi stretti i legionari non poterono operare come erano soliti fare in campo aperto. Fu un massacro che durò dal giorno 8 al giorno 11 di settembre presso Kalkriese in bassa Sassonia.

Fu una delle più gravi sconfitte romane di tutti i tempi. Furono annientate tre legioni con innumerevoli truppe alleate e Varo si suicidò, per non farsi prendere prigioniero dal nemico.

Da allora cominciò di fatto il disinteresse di Roma per la Germania del nord. Se non ci fosse stato il tradimento di Arminio, mentre il fratello Flavo rimase sempre fedele a Roma, avremmo avuto forse una Prussia molto simile alla Francia, con tutto quello che avrebbe comportato tale affinità nella storia europea.

Un altro esempio di forte suggestione letteraria, immortalato dalla Chanson de Roland, è Gano di Maganza, che causò la distruzione della retroguardia dell’esercito di Carlo Magno e la morte eroica del suo comandante, il paladino Orlando, del quale era pure patrigno.

Infatti, a Roncisvalle avvenne l’ assalto a tradimento da parte dei Mori proprio per la delazione di Gano. E Orlando, straordinario modello di eccelse virtù cavalleresche, tra le quali lealtà e coraggio, prima di esalare l’ultimo respiro, suonò l’olifante per avvisare re Carlo del grave pericolo e salvarne l’esercito.

Ma veniamo a tempi a noi molto più vicini , gli anni della caduta del Regno delle Due Sicilie, per trovare testimonianze eclatanti di vili traditori.

Infatti, dopo l’apologetica visione dell’impresa compiuta dai Mille al comando di Giuseppe Garibaldi, tanto cara al neonato stato unitario italiano, gli storici più avveduti si sono posti delle interessanti domande, alle quali sino ad allora non erano state date delle risposte e precisamente: perché uno degli eserciti più forti d’Europa si sfaldò davanti a poche migliaia di garibaldini?

Perché la terza flotta più forte al mondo, quella borbonica appunto, non seguì il 7 settembre Francesco II nella ridotta di Gaeta?

Perché in un regno di nove milioni di abitanti solo poco più di duemila uomini tra soldati e sudditi furono disposti a sacrificare la propria vita per il regno e la dinastia?

Perché i siciliani appoggiarono fin da subito la spedizione di Garibaldi e perché questi entrò in Napoli acclamato della folla, anziché essere respinto in mare?

Sicuramente, accanto all’appoggio determinante dell’Inghilterra e della marina inglese e del regno piemontese, un ruolo importante lo ebbero i vili-traditori, personaggi che in un primo tempo non combatterono per viltà e successivamente passarono dalla parte dei Savoia.

Parliamo del generale Pianell, che da ministro della guerra assunse un atteggiamento ambiguo nei confronti del re di Napoli, per poi passare al servizio del regio esercito italiano.

Altro personaggio, corrotto e traditore, è il generale Landi, che ordinò la ritirata a Calatafimi quando le truppe borboniche avevano preso agevolmente il sopravvento sui garibaldini e che morì, secondo lo storico De Sivo, di crepacuore perché andando ad incassare presso il banco di Napoli la lettera di credito a lui concessa per il suo tradimento, trovò dei 16 mila ducati promessi soltanto 14.

E cosa dire di Liborio Romano, ministro degli interni e prefetto di polizia, che convinse il giovane Francesco II ad abbandonare Napoli, per rinchiudersi nella ridotta di Gaeta, senza portare con sé il tesoro regio, perché riteneva che appartenesse al popolo napoletano?

Liborio Romano, dopo aver intrattenuto rapporti segreti con il nemico, si rivolse alla camorra di Salvatore De Crescenzo, affinché Garibaldi entrasse in Napoli senza alcun disordine.

Ovviamente da Garibaldi fu riconfermato nel suo ruolo di ministro degli interni e divenne successivamente parlamentare del regno d’Italia.

Questo rapido excursus di tristi figuri consacrati dalla tradizione leggendaria e storica non vuole assolutamente essere esaustivo, ma offrire spunti di riflessione.

Così, in questi giorni di accese discussioni, quando sento taluni politici italiani, che auspicano ed invocano per il popolo italiano punizioni che dovrebbero essere impartite dai mercati, da lobbies straniere o dalla Commissione Europea, altra congrega senza alcun mandato popolare, in modo da imparare a votare come si conviene, per loro ovviamente, mi domando se costoro siano emuli di Efialte, di Arminio o di Liborio Romano.

Bah… Vai a capirlo…

Sono sicuramente uomini squallidi, sui quali la storia darà un giudizio severissimo, così come è avvenuto sui tragici personaggi sopra menzionati. Ascoltarli dà una amarezza profonda.

Dovrebbero essere politici, ma in realtà sono squallidi politicanti che si ergono a giudici implacabili, sentenziando in nome del bene del popolo italiano, ma che in realtà si scagliano contro quanti vogliono cambiare un sistema economico che non va, operando scelte diverse.

Sono soggetti i quali, senza avvertire alcun rispetto per la propria terra, nella quale non hanno radici, hanno consentito leggi e trattati che hanno impoverito proprio quel popolo che oggi loro vorrebbero punire a fini educativi poiché ha osato alzare la testa.

Poi ci sono i giornalisti, gli opinionisti “ à la carte”, gli esperti ma anche gli auruspici, gli auguri e gli indovini, tutti rigorosamente mainstream, anche loro asserviti al potere economico, strumenti di consorterie occulte, i quali conculcano il pensiero libero attraverso un’ informazione parziale basata su terribili previsioni destituite di qualsiasi fondamento.

Sono dei patrioti questi? Di certo non lo sono. Sono solo dei ruffiani e prosseneti. Ma chi sono i veri patrioti?

Mi soccorre a tal uopo un magnifico scritto dell’inglese Thomas Babington Macaulay, intellettuale e politico vissuto nel 1800, che nella sua raccolta “Canti di Roma antica” al canto XXVII fa così parlare Orazio Coclite mentre scende in battaglia : “…. e allora come un uomo può meglio morire che affrontando impavido rischi fatali per le ceneri dei padri e per i templi degli dei immortali?

Ovviamente oggi morire, più che in senso letterale, deve intendersi in senso metaforico, vale a dire credere nei valori sacri della patria e lottare strenuamente per difenderli, .

Raffaele SALOMONE-MEGNA


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