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Sopravvivere a un leone nell’Età del Rame: welfare tribale e stigma sociale nella Bulgaria preistorica

Sopravvissuto a un leone 7000 anni fa: il mistero del “ragazzo spezzato” e il welfare della preistoria.

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In una necropoli situata nell’odierna Bulgaria, gli archeologi hanno portato alla luce una storia di sopravvivenza che ha dell’incredibile, se non del miracoloso. Parliamo di un racconto scritto nelle ossa di un giovane uomo, vissuto circa 7.000 anni fa, che subì l’attacco letale di un leone e riuscì a sopravvivere senza l’ausilio della medicina moderna.

Come è stato possibile? Semplice: la sua comunità si fece carico di lui. Una forma di “welfare state” preistorico, se vogliamo usare un termine caro alle nostre analisi, che però nasconde risvolti sociali ben più complessi e, forse, oscuri.

Il mistero della Tomba 59

Quando i ricercatori hanno aperto per la prima volta la tomba numero 59 luogo sepolcrale preistorico di Kozareva, situato nella Bulgaria orientale, si sono trovati di fronte a un rompicapo. Il contenuto della sepoltura era, per usare un eufemismo, anomalo ed è stato riportato in uno studio

In primo luogo, la tomba non conteneva alcun corredo funebre. Nessun oggetto, nessun monile, nulla che accompagnasse il defunto nel viaggio oltre la vita. In secondo luogo, l’individuo era stato inumato a una profondità maggiore rispetto alle sepolture circostanti, quasi a volerlo isolare ulteriormente dalla superficie.

Come è stato trovato il ragazzo

Come è stato trovato il ragazzo

Lo scheletro, adagiato sul fianco sinistro in posizione rannicchiata con le mani davanti al viso, apparteneva a un giovane di età compresa tra i 16 e i 18 anni. Un ragazzo insolitamente alto per la sua epoca, circa 175 centimetri, che portava su di sé tracce inequivocabili di una violenza brutale.

Analisi forense di un dramma preistorico

Le ferite raccontano una storia che, se proiettata in televisione oggi, farebbe inorridire gli spettatori. Una volta sospettato che un animale potesse aver inflitto tali lesioni, gli scienziati hanno incrociato i dati delle ferite con le caratteristiche dentali dei grandi carnivori dell’epoca. L’approccio forense ha rivelato un episodio di caccia finita male, o meglio, di un essere umano diventato preda.

Nadezhda Karastoyanova, archeozoologa e autrice principale dello studio, ha confermato che le dimensioni, la forma e la profondità dei difetti ossei sono compatibili con il trauma prodotto dal morso di un carnivoro di grossa taglia. E nell’Europa dell’Età del Rame (4500-3500 a.C.), questo significa quasi certamente una cosa: Panthera leo. Sì, i leoni vagavano per l’Europa orientale.

Ecco, in sintesi, la dinamica dell’attacco ricostruita dagli studiosi:

  • L’agguato: Il leone ha probabilmente attaccato da dietro o ha atterrato il ragazzo con la forza dell’impatto.

  • Il morso: Il felino ha morso la testa della vittima più volte.

  • Le lesioni craniche: L’attacco ha lasciato tre lesioni principali nel cranio, sfondando la cavità cranica e compromettendo quasi certamente le funzioni cerebrali.

  • Danni collaterali: Le ossa del polpaccio sono state schiacciate e anche la clavicola e l’omero hanno subito danni significativi, forse nel tentativo disperato di difendersi.

Un sistema sanitario primitivo ma efficace

Il dato tecnicamente più rilevante, che dovrebbe far riflettere sulla resilienza delle comunità antiche, è che queste ferite mostravano segni di guarigione. Non siamo di fronte a una morte immediata. Questo ragazzo è sopravvissuto all’attacco iniziale e ha vissuto per altri due o tre mesi.

Considerando il corpo deformato, le gambe schiacciate e i danni neurologici che ne impedivano i movimenti e probabilmente le funzioni cognitive, è evidente che non poteva provvedere a se stesso. Non poteva cacciare, non poteva coltivare, non poteva nemmeno muoversi autonomamente. Eppure, è sopravvissuto.

Questo implica l’esistenza di un supporto comunitario strutturato. Qualcuno gli ha portato cibo, acqua, ha pulito le sue ferite e si è occupato dei suoi bisogni fisiologici. Le scoperte precedenti a Kozareva Mogila indicano che gli abitanti avevano conoscenze mediche rudimentali, tentavano di curare malattie e persino di eseguire interventi chirurgici sui crani. In questo caso, hanno applicato una cura specializzata, dimostrando una compassione e una cooperazione che spesso fatichiamo a trovare nelle società moderne individualiste.

Il costo sociale della sopravvivenza

Tuttavia, non è tutto oro quel che luccica. Se da un lato c’è stata l’assistenza, dall’altro l’analisi archeologica suggerisce un cambiamento drastico nello status sociale del giovane.

Il fatto che un attacco di leone fosse un evento raro nella regione potrebbe aver conferito all’accaduto un’aura soprannaturale o nefasta.

Di seguito una tabella riassuntiva che mette a confronto la condizione fisica del soggetto con il trattamento riservatogli dopo la morte:

Condizione in VitaTrattamento Post-MortemInterpretazione Sociale
Disabilità GraveNessun corredo funebrePerdita di capacità produttiva ed economica
Sopravvivenza assistitaSepoltura molto profondaTimore reverenziale o stigma
Cambiamento esteticoPosizione isolata nel cimiteroEmarginazione dovuta a deformità o superstizione

Il posizionamento nella tomba potrebbe riflettere proprio questo declassamento o, peggio, una paura collettiva. Gli archeologi suggeriscono che la tragedia abbia lasciato un segno permanente non solo sul suo corpo, ma sulla sua identità sociale.

Le cicatrici profonde, l’aspetto alterato e i possibili danni neurologici (che potevano tradursi in comportamenti imprevedibili) potrebbero averlo reso, agli occhi dei suoi contemporanei, un “morto vivente” o una persona toccata da spiriti maligni.

La profondità anomala della fossa suggerisce la necessità di “tenere giù” qualcosa che si temeva.

Quindi, abbiamo un paradosso tipicamente umano: la comunità si estende economicamente ed emotivamente per salvare un suo membro, garantendogli la sopravvivenza fisica, ma contestualmente lo isola socialmente o ritualmente al momento della morte.

In conclusione, questo ritrovamento ci offre uno spaccato tecnico e umano straordinario. Ci parla di un’epoca in cui i leoni erano i re dei Balcani e l’uomo era ancora una preda, ma una preda capace di solidarietà. Ci mostra che il concetto di “cura” è antico quanto l’uomo stesso, così come lo è, purtroppo, la tendenza a stigmatizzare il “diverso” o colui che è stato segnato da un destino troppo crudele per essere compreso. Un leone gli ha tolto la salute, la comunità gli ha dato la vita, ma la superstizione potrebbe avergli tolto la dignità finale.


Domande e risposte

Erano comuni i leoni in Europa durante l’Età del Rame?

Contrariamente a quanto si pensa comunemente, sì. Durante l’Età del Rame (4500-3500 a.C.), i leoni (Panthera leo) popolavano ancora diverse aree dell’Europa orientale, inclusi i Balcani e le coste del Mar Nero. Il loro areale si è progressivamente ridotto a causa dei cambiamenti climatici e della pressione antropica, fino alla loro completa scomparsa dal continente europeo. Reperti ossei con segni di macellazione suggeriscono che non solo i leoni cacciavano gli uomini, ma occasionalmente gli uomini cacciavano (e mangiavano) i leoni.

Come facevano a curare ferite così gravi senza antibiotici?

Le comunità preistoriche possedevano una conoscenza empirica sorprendente. A Kozareva Mogila sono state trovate prove di tentativi di chirurgia cranica e trattamenti di malattie. Per il giovane aggredito, la cura probabilmente includeva la pulizia costante delle ferite (magari con acqua o erbe dalle proprietà antisettiche note per esperienza), l’immobilizzazione degli arti fratturati e il nutrimento assistito. La sopravvivenza di alcuni mesi indica che sono riusciti a prevenire l’infezione letale immediata, un successo notevole per l’epoca.

Perché è stato sepolto più in profondità e senza oggetti?

L’assenza di corredo e la profondità anomala suggeriscono uno stigma o una paura superstiziosa. Nelle culture antiche, una morte violenta o una deformità grave (causata dall’attacco e dai danni cerebrali) potevano essere interpretate come segni di maledizione o possessione. La sepoltura profonda è spesso associata al desiderio di impedire al defunto di “tornare” o di proteggere la comunità dalla sfortuna che lo aveva colpito. Era curato in vita per compassione, ma temuto nella morte per superstizione.

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