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Energia

Petrolio: le scoperte globali crollano ai minimi. E la transizione energetica rischia grosso.

Crollano gli investimenti per cercare petrolio: -50% dal 2013. Le scoperte sono ai minimi storici e ora si teme lo “shock” dell’offerta. Ecco dove e perché si rischia la prossima crisi energetica.

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C’è un silenzioso crollo in atto nel mondo dell’energia, lontano dai riflettori delle COP e dei dibattiti sulla CO2. È il crollo delle scoperte di idrocarburi. I dati, analizzati da Rystad Energy, sono impietosi: se all’inizio degli anni 2010 si scoprivano in media oltre 20 miliardi di barili di petrolio equivalente (bep) all’anno, nel 2024 siamo precipitati ad appena 5,5 miliardi di bep.

Questo collasso non avviene perché il petrolio è finito, ma per una scelta strategica precisa. Gli investimenti in esplorazione (il cosiddetto expex) sono stati più che dimezzati: dal picco di circa 115 miliardi di dollari nel 2013, oggi si veleggia faticosamente tra i 50 e i 60 miliardi annui.

Il risultato è un cambio di paradigma: le grandi compagnie petrolifere (le Supermajors come Exxon e Shell) e le potenti compagnie nazionali (NOC) non cercano più ovunque. Hanno smesso di disperdere capitali in aree marginali o mature.

Oggi si punta tutto su quella che viene definita “precisione strategica”, che tradotto dal gergo finanziario significa: meno rischio, meno spesa, e concentrazione solo su aree ad altissimo potenziale.

Scoperte petrolifere 2024 e anni precedenti. Fonte Rystad

I nuovi “hotspot” del petrolio

Dove finiscono, quindi, i (pochi) soldi rimasti? La mappa dell’esplorazione si è ristretta a una manciata di bacini prolifici, quasi tutti nell’Atlantico meridionale:

  • Il Bacino Orange (Namibia): Considerata la nuova frontiera più promettente di questo decennio, dove Shell, TotalEnergies e Galp hanno recentemente annunciato scoperte significative.
  • Il Pre-Salt (Brasile): Avviato dalla scoperta Tupi (ora Lula) di Petrobras nel 2006, resta un pilastro grazie alla capacità tecnologica di estrarre idrocarburi sotto spessi strati di sale.
  • La Guyana e il Suriname: Dal 2015, il consorzio guidato da ExxonMobil ha trasformato quest’area in una delle province petrolifere di maggior successo del secolo, con circa 13 miliardi di bep scoperti solo in Guyana.

Questi attori – Majors e NOC – dominano il gioco, soprattutto nell’ultra-deepwater, perché sono gli unici con la forza capitale, la tecnologia (sismica avanzata, perforazione digitale) e l’appetito per il rischio (calcolato) necessari. I player più piccoli, semplicemente, sono usciti dal mercato dell’esplorazione di frontiera.

Il paradosso della transizione

Sotto la curva discendente delle scoperte si nasconde il vero nodo della questione. L’industria è stretta tra le pressioni degli investitori (spesso fondi ESG) e le politiche climatiche, che disincentivano gli investimenti a lungo termine su asset (i giacimenti) che rischiano di diventare “incagliati” .

Il problema, come nota Palzor Shenga, Vice Presidente di Rystad Energy, è che “non possiamo gestire un calo della produzione senza fare nuove scoperte”.

Il mondo continua a consumare idrocarburi, e la domanda globale, nonostante tutto, resta robusta. Se l’offerta di nuovi giacimenti non riesce a compensare il naturale declino di quelli esistenti (e i tassi di sostituzione delle riserve sono bassissimi), la matematica è semplice: si va verso una carenza di offerta.

Senza un’esplorazione sostenuta, la futura volatilità dei prezzi e le possibili carenze di approvvigionamento non minacciano solo la “sicurezza energetica” (un concetto caro ai geopolitici), ma minacciano la stabilità della stessa transizione energetica. Un’economia globale alle prese con un petrolio a prezzi fuori controllo è un’economia che non ha risorse da investire nel green.

Come al solito, la scarsità di investimenti di oggi rischia di creare i presupposti perfetti per le prossime crisi.

Nuovo pozzo in Pennsylvania

Domande e Risposte (FAQ)

1. Perché le scoperte crollano se abbiamo trovato nuovi bacini come la Namibia?

Le nuove scoperte in Namibia o Guyana sono significative ma non bastano a compensare il crollo verticale degli investimenti globali. Negli scorsi decenni, le compagnie esploravano in molte più aree contemporaneamente (es. Africa occidentale, Artico, Golfo del Messico). Oggi, hanno tagliato i budget di oltre il 50% e concentrano le risorse solo su quei 3-4 bacini ritenuti “vincenti” e a basso costo, abbandonando l’esplorazione nel resto del mondo. Meno si cerca, meno si trova.

2. Cosa succede concretamente se smettiamo di scoprire nuovo petrolio?

I giacimenti esistenti hanno un tasso di declino naturale (producono un po’ meno ogni anno). Se non si scoprono nuovi giacimenti per rimpiazzare la produzione persa, l’offerta globale di petrolio inizierà a contrarsi. Dato che la domanda mondiale (per trasporti, plastica, industria) rimane alta, questa carenza di offerta porterà inevitabilmente a un forte aumento dei prezzi (volatilità) e, nei casi peggiori, a vere e proprie crisi di approvvigionamento, con impatti pesanti sull’inflazione e sulla crescita economica globale.

3. È la transizione energetica a causare questo calo di investimenti?

In parte sì. La pressione politica e degli investitori (ESG) per ridurre le emissioni ha reso gli investimenti a lungo termine (un nuovo giacimento richiede anche 10 anni per entrare in produzione) nel petrolio molto più rischiosi. Le banche sono meno disposte a finanziare l’esplorazione e gli investitori temono che questi asset vengano “bloccati” (stranded) da future leggi sul clima. Questo disincentivo all’investimento, però, sta avvenendo più velocemente del calo della domanda reale di petrolio, creando uno squilibrio.

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