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Perché votare la Merkel non è un buon affare per i tedeschi

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Si avvicinano le elezioni in Germania e per la riconferma del quarto mandato della cancelliera Merkel è gia sceso in campo anche il democratico uscente Barack Obama.

Se fossi tedesco voterei per la Merkel”. Non avevamo dubbi che dopo le elezioni inaspettate di Trump alla Casa Bianca l’establishment mondiale difenda con le unghie i suoi ultimi avamposti.

Angela Merkel (nome di battesimo Angela Dorothea Kasner), eletta dalla rivista Forbes la donna più potente del mondo, è a capo della potenza economica tedesca dal 2005. Secondo i sondaggi – la cui attendibilità di questi tempi è sempre più screditata – il 55% dei tedeschi sono favorevoli alla conferma della cancelliera che favorirebbe la stabilità del Paese.

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Ma è davvero tutto oro quello che brilla in Alemannia? A guardar bene, al netto dell’immagine di benessere che i media tedeschi sono così bravi a salvaguardare, coesi nel loro orgoglioso nazionalismo, non è proprio così.

Dallo scandalo Volkswagen a quello di Deutsche Bank, passando per la calciopoli tedesca al caso mai chiarito del pilota suicida sul volo Lufthansa, sono tante le ombre che oscurano un modello (auto)proclamato come efficiente e da imitare nel sistema dell’UE. Nonostante i chiari esempi di corruzione diffusa, si sa, gli stereotipi sono difficili da abbattere: così rimane (quasi) intatta nell’opinione pubblica l’immagine della virtuosa Germania, la locomotiva d’Europa.

Eppure, anche riguardo all’osannato benessere della popolazione, i dati smontano la fama internazionale di Paese del Bengodi, dove i nostri giovani emigrano fiduciosi in un futuro finalmente prospero. Secondo la ricerca pubblicata lo scorso anno dal Paritätische Gesamtverband berlinese, un’associazione leader nel welfare, la povertà in Germania è al suo livello massimo dalla riunificazione. Rientrano nella fascia di povertà ben 12,5 milioni di tedeschi, ossia più di un tedesco su 7! Tra i più colpiti gli anziani e i genitori single per cause che, secondo lo stesso Paritätische, sono da ricercarsi nella politica di tagli graduali e incessanti alle tutele del lavoro. Insomma, quel processo di precarizzazione e di impoverimento del lavoratore pubblicizzato da noi col nome anglofono “Job Acts”.

“Sempre più persone hanno un lavoro, ma sempre meno possono veramente vivere da questo lavoro“, ha detto Christian Woltering, autore dello studio. “Crediamo che ci sia una correlazione significativa con una evoluzione che noi chiamiamo l’Americanizzazione del mercato del lavoro.

Il modello di crescita tedesco è basato su una politica commerciale molto aggressiva, che sbilancia interamente l’asse di equilibrio della UE. A partire dal 2002, anno di avvio della moneta unica, il saldo tra esportazioni e importazioni di tutti i Paesi della UE ha subito un drastico calo, al contrario della Germania che ha riportato un clamoroso aumento. Nessuna ricetta magica, ma quella consueta e prevedibile: svalutare la moneta e abbassare il costo del lavoro. La prima operazione è avvenuta nel momento dell’ingresso dell’Euro, dove una lungimirante politica del tasso di cambio ha reso i prezzi dei beni di produzione tedeschi molto appetibili al mercato estero.

Sul fronte del mercato del lavoro, si è portato a compimento quel processo di livellamento verso il basso di salari e tutele di cui la Germania è paladina. Ragionando in termini unitari, l’assetto della bilancia commerciale europea, tutto a favore della Germania, non può che ricadere sulla salute degli altri paesi che, non potendo utilizzare delle politiche di cambio né investire in spesa pubblica -legati come sono ai vincoli imposti da Maastricht e alla trovata del pareggio del bilancio – per compensare non possono che ridurre consumi e risparmi privati.

D’altro canto la locomotiva teutonica va avanti, col suo esercito di lavoratori in piena occupazione ma scarsamente remunerati e tutelati. Sarà un’arma per tenerli fedeli al loro Kaput o la povertà li porterà all’ammutinamento?

Ilaria Bifarini


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