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Pagare per la Produttività

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Da Voci dall’estero

 

Su Project Syndicate, Laura Tyson* collega la crescente disuguaglianza nella distribuzione dei redditi negli USA a partire dagli anni ’70 alla crisi di domanda aggregata che ha reso molto debole l’ultima ripresa a stelle e strisce. Se la distribuzione dei redditi tra capitale e lavoro (e all’interno del lavoro) non diverrà più equa, e il costo del lavoro non sarà agganciato alla produttività, le aziende USA si troveranno ad operare con una forza lavoro sempre meno preparata, una popolazione di consumatori impoveriti e blocchi elettorali sempre più avversi alle esigenze del mondo del business.

di Laura Tyson, 26 Settembre 2014
Una delle tendenze economiche significative – e scoraggianti – degli Stati Uniti negli ultimi 40 anni è stata la stagnazione dei salari reali per la maggior parte dei lavoratori. Secondo un recente rapporto del US Census,  il lavoratore medio di sesso maschile a tempo pieno nel 2013 guadagnava $ 50.033, cifra appena distinguibile dai $ 49.678 del 1973, al netto dell’inflazione. 

Poiché la maggior parte delle famiglie guadagna la gran parte del proprio reddito dal lavoro, l’assenza di crescita reale dei salari è un fattore importante dietro la stagnazione dei redditi familiari. Il reddito familiare medio dell’ultimo 90% delle famiglie è piatto all’incirca dal 1980. Il reddito reale della famiglia media nel 2013 era dell’8% sotto il livello del 2007 e quasi del 9% al di sotto del picco raggiunto nel 1999. 
La stagnazione dei salari della classe media e dei redditi familiari sono un fattore importante dietro la lenta ripresa dell’economia statunitense dalla recessione 2007-2009, e rappresentano una grave minaccia per la crescita a lungo termine e la competitività. Il consumo delle famiglie conta per più di due terzi della domanda aggregata e la crescita dei consumi dipende dalla crescita del reddito per la parte inferiore del 90%. 
Il periodo di massimo splendore della crescita economica statunitense nei due decenni successivi alla seconda guerra mondiale fu anche un periodo d’oro per la classe media. Il lungo boom degli anni ’90, quando gli Stati Uniti godevano di una piena occupazione sostenuta, è stato uno dei pochi periodi negli ultimi 40 anni in cui i redditi sono saliti per ogni quintile della distribuzione del reddito.
Molti economisti influenti sono ora preoccupati che gli Stati Uniti stiano fronteggiando una crescita anemica e una “stagnazione secolare”, a causa di un persistente divario tra la domanda aggregata e la piena occupazione. I redditi stagnanti della classe media implicano una debole domanda aggregata, che a sua volta significa un mercato del lavoro fiacco e salari stagnanti per la maggior parte dei lavoratori. In assenza di politiche monetarie e fiscali aggressive per sostenere la domanda aggregata a livello di piena occupazione, il risultato è un circolo vizioso di crescita lenta. 
Due guru della competitività, Michael Porter e Jan Rivkin della Harvard Business School, hanno recentemente avvertito che i redditi stagnanti della classe media indeboliscono le aziende statunitensi in diversi modi. “Le imprese non possono prosperare a lungo, mentre le loro comunità languono”, hanno ammonito. A meno che le aziende non si rimbocchino le maniche, “le imprese americane soffriranno di una forza lavoro inadeguata, di una popolazione di consumatori impoveriti, e di grandi blocchi di elettori anti-business”.
Porter e Rivkin non chiedono alle imprese semplicemente di pagare di più i loro lavoratori. Invece, stanno spingendo le imprese ad impegnarsi in uno sforzo “collaborativo e strategico”  per migliorare l’istruzione e la formazione al fine di aumentare i livelli di competenza dei loro lavoratori.
Questo è un obiettivo lodevole. Ma, come Porter e Rivkin confermano nel loro sondaggio sui dirigenti d’azienda, le aziende spesso scoraggiano gli investimenti nella formazione per la loro riluttanza ad assumere lavoratori a tempo pieno. Quasi la metà degli intervistati ha indicato che, quando possibile, preferisce investire in tecnologia o in outsourcing a terzi e assumere lavoratori part-time, nessuno dei quali riceve molta formazione supplementare o partecipa al successo a lungo termine della propria azienda. 
C’è anche un risvolto inquietante nell’indagine di Porter e Rivkin, quello per cui sono gli stessi lavoratori, insieme alle scuole americane, che vanno biasimati per la stagnazione dei salari: se solo i lavoratori non fossero così mediocri in matematica e scienze, così mal equipaggiati per il mondo moderno, e così improduttivi, guadagnerebbero dei redditi più alti. 
La realtà è diversa. La produttività degli Stati Uniti è cresciuta ad un ritmo rispettabile per due decenni. Il problema è che i guadagni di produttività non si sono tradotti in corrispondenti aumenti salariali per il lavoratore tipico o nella crescita del reddito per la famiglia tipica.
Secondo la teoria economica standard, i salari reali dovrebbero monitorare la produttività. Come ha documentato Lawrence Mishel del Economic Policy Institute, è stato così dal 1948 fino a circa il 1973. Da allora, i salari reali per il lavoratore tipico sono rimasti piatti, mentre la produttività ha continuato a salire. Mishel calcola che la produttività è aumentata dell’80,4% nel periodo 1948-2011, mentre i salari reali medi sono aumentati solo del 39% – quasi nessuna crescita dei salari si è verificata nel corso degli ultimi quattro decenni. 
È vero, i lavoratori altamente qualificati, in particolare quelli con competenze tecnologiche elevate e un livello d’istruzione da ricercatore, se la sono cavata molto meglio. Ma quella prosperità ha raggiunto solo una piccola élite. 
Dal 1979 al 2012, il salario reale medio è aumentato solo del 5%. Ma i salari reali sono saliti del 154% per l’1% dei lavoratori dipendenti e del 39% per il 5% superiore, mentre i salari reali hanno ristagnato per il 20° percentile inferiore di lavoratori e sono caduti per l’ultimo decile. Infatti, la disuguaglianza nella compensazione del lavoro è stata l’elemento motore più importante della disparità di reddito, tranne che in cima alla piramide di distribuzione, dove i proventi da capitale sono stati più importanti. 
Nel frattempo, i profitti delle imprese sono saliti alle stelle. La quota PIL degli utili societari al netto delle imposte è a un livello record, considerando che la quota del lavoro è precipitata al livello più basso dal 1950.
Una forte crescita della produttività è un importante obiettivo politico. Ma non basta aumentare i salari alla maggior parte dei lavoratori o aumentare il reddito della maggior parte delle famiglie. Ricollegare gli incrementi di produttività agli aumenti salariali richiede sia azioni politiche, come ad esempio l’aumento del salario minimo attraverso una connessione alla crescita della produttività, sia cambiamenti nelle pratiche dei reparti risorse umane delle aziende, come ad esempio un più ampio ricorso a programmi di partecipazione agli utili. 
Tali programmi hanno un appeal intuitivo. I dipendenti che hanno una partecipazione diretta della redditività di un’azienda sono suscettibili di essere più motivati ​​e impegnati, e la rotazione dei dipendenti è probabile che sia più bassa. Questa intuizione è confermata dalla ricerca empirica. 
Circa 20 anni fa, Alan Blinder della Princeton University radunò un certo numero di economisti, me compresa, per esaminare gli studi esistenti sul legame tra la partecipazione agli utili e la produttività. La stragrande maggioranza degli studi ha trovato un forte effetto positivo. Shared Capitalism at Work, un recente libro curato da Douglas Kruse, Richard Freeman, e Joseph Blasi, conferma questa conclusione con prove più recenti.
Varie forme di partecipazione agli utili – compresi i contributi di opzioni e azioni vincolate, premi annuali basati sul profitto, e piani d’investimento per gli impiegati – sono in crescita come percentuale della quota del lavoro dal 1960. Ma la maggior parte dei lavoratori non sono coperti da tali piani, e i maggiori beneficiari sono stati gli amministratori delegati e i top manager, una frazione significativa la cui retribuzione è legata alla produttività, che si riflette nei profitti e nelle prestazioni azionarie. Tali sistemi di retribuzione incentivante hanno spinto gli aumenti fuori misura nella retribuzione dell’1% al vertice della distribuzione dei salari e degli stipendi. 
Gli standard di vita e la competitività economica americani nel lungo periodo non dipendono solo dalla crescita della produttività, ma anche dal modo in cui la crescita viene ripartita. Una più equa ripartizione degli utili per i lavoratori americani e le loro famiglie farebbe molto per affrontare la preoccupante stagnazione dei salari e dei redditi della classe media negli ultimi decenni. *l’autrice è stata consigliera nel Council of Economic Advisers del Presidente degli Stati Uniti e Direttrice del National Economic Council sotto l’amministrazione Clinton, ed attualmente insegna alla Haas School of Business all’Università della California, Berkeley. E’ editorialista per BusinessWeek, The New York Times e The Washington Post.

Traduzione di Saint Simon

 

 


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