Crisi
Mentre l’Islanda si prepara a dire “NO” all’UE, sentiamo cos’ha da dire il presidente Grimsson
Correva l’anno 2007 e nel mondo le cose andavano avanti. L’ONU stilava la sua annuale graduatoria dell’Indice di sviluppo umano e la medaglia d’oro di questa graduatoria andava a un’isola del Mare del Nord abitata da circa 300mila abitanti, ovvero l’Islanda.
Sì, stando alle sirene onusiane, alle agenzie di rating e ai media non c’era posto migliore in cui vivere dell’Islanda. Il settore finanziario deregolamentato e liberalizzato agli albori del millennio aveva creato un benessere mai visto prima in quella terra fredda e isolata dal resto del mondo. Ma quando nel settembre del 2008 Lehman Brothers, dotata di valutazione AAA secondo le tre Parche del rating, dichiara il proprio fallimento, il sogno islandese finisce bruscamente. Di colpo infatti l’Islanda scopre di essere seduta su un vulcano ben più pericoloso ed esplosivo di tutti i suoi celebri geyser messi insieme. Le tre banche, che con politiche finanziarie allegre e credito facile avevano aiutato il boom dell’isola di ghiaccio, Landisbanki, Kaupthing e Glitnir, si ritrovano al collasso e vengono nazionalizzate, mentre la libera circolazione dei capitali viene temporaneamente limitata.
L’Islanda, la perla del Nord si ritrova a chiedere un prestito al Fondo Monetario come un qualsiasi paese africano. Il sogno islandese diventa un incubo. Oggi però, a cinque anni di distanza dall’apocalisse, l’Islanda pare essere uscita dal tunnel. L’isola di ghiaccio, devastata dai disastri della cieca cupidigia di banchieri e speculatori, sembra si stia avviando verso un nuovo inizio.
L’economia islandese è ben lontana dai fasti del 2007, ma cresce del 2% l’anno e la disoccupazione, schizzata dal 3 all’8% dopo la crisi, è ora in calo intorno al 5%. Nell’indice di sviluppo umano l’Islanda, crollata dal primo al diciasettesimo posto, è ora risalita in quattordicesima posizione. Come abbiamo detto l’isola di ghiaccio è ben lontana dal tenore di vita precedente alla crisi, ma con forza ed orgoglio è riuscita a rialzarsi e ora può guardare al futuro con cauto ottimismo, consapevole che la lezione è stata appresa e che certi errori non saranno ripetuti. Ma cosa ha reso possibile per Reykjavik uscire dalla crisi economica? Perché l’Islanda ce l’ha fatta e l’Europa è invece ancora impantanata nel disastro?
Molte versioni, spesso discordanti tra loro, sono rimbalzate nella rete in questi anni riguardo l’Islanda e quanto accaduto, io credo che sia meglio sentir parlare chi è stato tra i protagonisti della risoluzione della crisi dell’isola di ghiaccio, ovvero il presidente della repubblica Olafur Grimsson, diventato celebre nella rete per aver posto il veto ai due piani di rimborso del debito del conto “Icesave”, un fondo creato da Landisbanki, verso investitori inglesi e olandesi. Questa è un’interessate intervista, rilasciata dal presidente Grimsson a febbraio al sito francese “Rue 89” (di cui qui ho trovato una traduzione in italiano) in cui quello che per molti nella blogosfera è diventato un eroe, ripercorre i passaggi e dice la sua su come l’Islanda è riuscita a oltrepassare la terribile crisi finanziaria che la attanagliava.
di Pascal Riché – Rue89.
Björk non era la sola star islandese in tournée in Francia, questa settimana. Il presidente del paeseÓlafur Ragnar Grímsson, 69 anni, era in visita ufficiale, con l’aureola dei successi islandesi contro la crisi, nonché del ruolo che ha giocato in questa correzione di rotta spettacolare con cui ha deciso, in due riprese, di consultare il popolo via referendum. Ha incontrato per 35 minuti François Hollande. Si dice che abbiano parlato di tre questioni: «La ripresa economica in Islanda e le lezioni da trarne; la cooperazione economica nell’Artico e l’esperienza islandese in materia di geotermia – che assicura il 90% del riscaldamento degli abitanti – e come potrebbe essere sviluppata in Francia». Il presidente islandese, attualmente al suo quinto mandato, cammina sopra una piccola nuvola. Quattro anni dopo l’esplosione delle banche islandesi, il suo Paese è ripartito più forte della maggior parte degli altri in Europa, e ha appena vinto una battaglia davanti alla giustizia europea. Lo Stato islandese – ha giudicato la corte dell’Associazione europea di libero scambio (EFTA) a fine gennaio, era nel suo diritto quando si è rifiutato di rimborsare i risparmiatori stranieri che avevano piazzato i propri soldi presso le sue banche private.
Rue89: Ha richiamato assieme a François Hollande le lezioni da trarre dalla correzione di rotta islandese. Quali sono?
Ólafur Ragnar Grímsson: Se fate un paragone con quanto è successo in altri paesi dell’Europa, la riuscita esperienza islandese si è avverata in modo diverso su due aspetti fondamentali.
Il primo, consiste nel fatto che noi non abbiamo seguito le politiche ortodosse che da trent’anni in qua si sono imposte in Europa e nel mondo occidentale. Noi abbiamo lasciato che le banche fallissero, non le abbiamo salvate, le abbiamo trattate come le altre imprese. Abbiamo instaurato dei controlli sui cambi. Abbiamo cercato di proteggere lo stato previdenziale, rifiutandoci di applicare l’austerità in modo brutale.
Seconda grande differenza: abbiamo subito preso coscienza del fatto che questa crisi non era solamente economica e finanziaria. Era anche una profonda crisi politica, democratica e perfino giudiziaria. Ci siamo quindi impegnati in riforme politiche, riforme democratiche, e anche riforme giudiziarie [un procuratore speciale, dotato di una squadra, è stato incaricato di investigare sulle responsabilità della crisi, ndr]. Questo ha permesso alla nazione di affrontare la sfida, in modo più ampio e più globale rispetto alla semplice attuazione di politiche finanziarie o di bilancio.
L’Islanda ha 320mila abitanti. Queste politiche sono esportabili in paesi più grandi, come la Francia?
Innanzitutto, esito sempre nel dare raccomandazioni concrete ad altri paesi, perché ho sentito una caterva di pessime raccomandazioni propinate al mio!
Quel che posso fare, è semplicemente descrivere ciò che l’Islanda ha fatto, così ognuno può trarne le sue proprie lezioni. Ma è chiaro che molte delle scelte che noi abbiamo fatto potrebbero essere fatte in altri paesi. Per esempio, guardarsi bene da un’austerità troppo rigida.
Quindi avete perseguito una politica di austerità rigidissima…
Senz’altro. Ma uno degli assi delle politiche ortodosse sta nel tagliare aggressivamente le spese sociali. Non è quel che abbiamo fatto. Abbiamo invece protetto i redditi più modesti.
L’ approccio ampio alla crisi – politico e giudiziario – può essere seguito anche in altri paesi oltre all’Islanda. La misura che è impossibile applicare in Francia, così come in altri paesi della zona euro, è evidentemente la svalutazione monetaria.
Per quanto riguarda il non aver salvato le banche, l’Islanda aveva davvero scelta? Sarebbe possibile lasciar affondare le grandi banche europee?
Le nostre banche erano importanti. Pesavano dieci volte la taglia della nostra economia. Io non dico che la dimensione non conti, ma se la si mette in termini di dimensioni, allora chiedetevi: il Portogallo è un paese grande o piccolo? La Grecia è un paese grande o piccolo?
Se avessimo potuto fare altra cosa piuttosto che lasciare che le nostre banche fallissero, questo è un dibattito ancora aperto. In ogni caso tutto ciò corrispondeva a una scelta. Quelle banche erano private: perché mai delle imprese nel settore bancario dovrebbero essere trattate in modo diverso da altre aziende private di altri settori come le tecnologie informatiche, internet, le compagnie aeree? Queste imprese sono indispensabili alle nostre società, eppure lasciamo che falliscano. Anche le compagnie aeree. Perché mai le banche sono trattate come dei luoghi santi?
La risposta tradizionale è che il loro fallimento possa trascinarne altri e mettere in ginocchio il sistema finanziario: c’è un rischio “sistemico”.
Sì, questa è l’argomentazione che viene avanzata; eppure badate a cosa è successo in Islanda con il caso Icesave. Il governo britannico e quello dei Paesi Bassi, sostenuti dall’Unione Europea, pretendevano che i contribuenti islandesi rimborsassero i debiti di questa banca privata, anziché lasciare che il liquidatore fosse il responsabile di tali debiti. A quel punto ho fatto fronte a una scelta: era il caso di sottoporre la questione a referendum? Un esercito di esperti e di autorità finanziarie mi dicevano: se voi autorizzate la gente ad esprimersi, isolerete finanziariamente l’Islanda per decenni. Uno scenario catastrofico senza fine… Ero davanti a una scelta fondamentale: da una parte gli interessi della finanza, dall’altra la volontà democratica del popolo. E io mi son detto: la parte più importante della nostra società – e l’ho detto anche ai nostri amici europei – non sono mica i mercati finanziari. È la democrazia, sono i diritti umani, lo Stato di diritto.
Quando siamo di fronte a una profonda crisi, sia quella islandese sia quella europea, perché non ci dovremmo lasciar guidare sulla via da seguire dall’ elemento più importante della nostra società? Ed è quel che ho fatto. Dunque abbiamo indetto due referendum. Nel primo trimestre dopo il referendum, l’economia è ripartita. E in seguito la ripresa è continuata. Ora abbiamo un tasso di crescita annuale del 3%, uno dei più elevati in Europa. Abbiamo un tasso di disoccupazione del 5%, uno dei tassi più bassi. Tutti gli scenari dell’epoca, di un fallimento del sistema, si sono rivelati fasulli. Il mese scorso c’è stato l’epilogo: l’EFTA ci ha dato ragione. Non solo la nostra decisione era giusta, era democratica, ma era anche giuridicamente fondata. I miei amici europei dovrebbero riflettere su tutto questo con uno spirito aperto: come mai erano loro in errore politicamente, economicamente e giuridicamente? L’interesse di porsi questa questione è più importante per loro che non per noi, perché continuano, loro, a lottare contro la crisi applicando a se stessi certi principi e certi argomenti che usavano contro di noi.
Il servizio che può rendere l’Islanda è dunque quello di essere una sorta di laboratorio, che aiuta i Paesi a rivedere le politiche ortodosse fin qui da essi seguite. Io non vado certo a dire alla Francia, la Grecia, la Spagna, il Portogallo o l’Italia: fate così, fate cosà. Ma la lezione dataci dall’esperienza da questi quattro anni in Islanda è che gli scenari allarmisti, delineati come delle certezze assolute, erano fuori bersaglio.
L’Islanda è diventata un modello, una fonte di speranza per una parte dell’opinione pubblica, specie la sinistra anticapitalista. La cosa le fa piacere?
Sarebbe un errore interpretare la nostra esperienza attraverso una vecchia chiave di lettura politica. In Islanda i partiti di destra e di sinistra sono stati unanimi sulla necessità di proteggere il sistema sociale. Nessuno, né a destra né al centro, ha difeso quelle che voi definireste come “politiche di destra”.
È la via nordica...
Sì, è la via nordica. E se osservate cosa è accaduto nei Paesi nordici in questi ultimi 25 anni, hanno tutti conosciuto delle crisi bancarie: Norvegia, Finlandia, Svezia, Danimarca e infine Islanda, dove sempre abbiamo un momento di ritardo. La cosa interessante è che tutti i nostri paesi si sono ripigliati relativamente presto.
Rimpiange di aver incoraggiato lei stesso la crescita della banca negli anni 2000? All’epoca, lei paragonava l’Islanda a una nuova Venezia o Firenze?
Fra l’ultimo decennio del XX secolo e i primi anni del XXI, si sono sviluppate imprese farmaceutiche o di ingegneria, tecnologiche, bancarie e hanno procurato ai giovani islandesi istruiti, per la prima volta nella nostra storia, la possibilità di lavorare su scala globale senza dover lasciare il proprio Paese.
Anche le banche facevano parte di questa evoluzione. Se la cavavano bene. Nel 2006 e nel 2007, abbiamo sentito le prime critiche. Io mi sono chiesto a quel punto: cosa dicono mai le agenzie di rating? Redigevano per le banche islandesi un ottimo certificato di salute. Le banche europee e americane facevano tutte affari con le nostre banche e desideravano farne sempre di più!
Le agenzie di rating, le grandi banche, tutti in generale, avevano torto. E anche io. È stata un’esperienza costosa, che il nostro Paese ha pagato pesantemente: abbiamo conosciuto una grave crisi, delle sommosse… Ce ne ricorderemo a lungo. Oggi il pubblico continua ad ascoltare le agenzie di rating. Bisognerebbe chieder loro: se vi siete sbagliate così tanto sulle banche islandesi, perché dovreste avere ragione oggi sul resto?
Quelle che lei definisce “sommosse”, non fanno forse parte del necessario “approccio politico” alla crisi, da lei descritto un instante fa?
Non la direi in questa maniera. L’Islanda è una delle democrazie più stabili e sicure al mondo, con una coesione sociale solida. E tuttavia, a seguito del fallimento finanziario, la polizia ha dovuto difendere giorno e notte il Parlamento, la Banca Centrale e gli uffici del Primo Ministro… Se una crisi finanziaria può, in un lasso di tempo brevissimo, far precipitare un tale paese in una così profonda crisi politica, sociale e democratica, quali potrebbero essere le sue conseguenze in paesi che abbiano un’esperienza più corta di stabilità democratica? Posso dirvi che durante le prime settimane del 2009, al mio risveglio, il mio cruccio non era quello di sapere se avremmo ritrovato o meno la strada per la crescita, bensì quello di sapere se non avremmo assistito al crollo della nostra comunità politica stabile, solida e democratica.
Ma noi abbiamo avuto la fortuna di poter rispondere a tutte le domande dei manifestanti: il governo è caduto, sono state organizzate delle elezioni, sono state sollevate dall’incarico le direzioni della Banca Centrale e dell’autorità di sorveglianza delle banche, abbiamo istituito una commissione speciale d’inchiesta sulle responsabilità, ecc.
C’è un’idea, diffusa nelle società occidentali, secondo cui i mercati finanziari devono rappresentare la parte sovrana della nostra economia e dovrebbero essere autorizzati a ingrandirsi senza controllo e nella direzione sbagliata, con l’unica responsabilità di fare profitti e svilupparsi… Ebbene, questa visione è pericolosissima. Quel che ha dimostrato l’Islanda è che quando un tale sistema ha un incidente, fa derivare tragiche conseguenze politiche e democratiche.
In questo approccio politico, un progetto di nuova Costituzione è stato elaborato da un’assemblea di cittadini eletti. Sembra che per il Parlamento non sia urgente votarlo prima delle elezioni del 17 aprile. Pensate che questo progetto abortirà?
La Costituzione attuale ha giocato il suo ruolo nella crisi: quello di far tenere delle elezioni e indire dei referendum… Questo non vuol dire che sia perfetta, essa può essere migliorata.
Con la crisi, il bisogno di rinnovare il nostro sistema politico ha trovato una sua espressione. Si è dunque attivato un processo di riforma costituzionale assai innovativo: è stata eletta un’assemblea di cittadini, i cittadini sono stati consultati via internet… ma, secondo me, non hanno avuto abbastanza tempo: appena quattro mesi.
Solo dei superuomini avrebbero potuto realizzare un testo perfetto in soli quattro mesi.
In questi ultimi sei mesi, c’è stato un dibattito in Parlamento, con dei propositi… il Parlamento adotterà forse certe misure, o forse si accorderà su un modo di proseguire il processo, o adotterà una riforma più completa.
Nessuno lo sa.
La svalutazione ha aiutato la ripresa dell’Islanda. L’idea di raggiungere un giorno l’euro è stata scartata per sempre?
La corona è stata una parte del problema che ha portato alla crisi finanziaria, ma è stata anche una parte della soluzione: la svalutazione ha reso i settori dell’esportazione (pesca, energia, tecnologie…) più competitivi, così come il turismo, certamente.
C’è una cosa di cui non si è ancora preso bene coscienza nei paesi dell’Europa continentale : i Paesi del Nord dell’Europa – Groenlandia, Islanda, Gran Bretagna, Norvegia, Danimarca e Svezia – non hanno adottato l’euro, a parte la Finlandia. Nessuno di questi Paesi si è unito all’euro. E comparativamente, questi Paesi si sono comportati meglio, economicamente, durante gli anni successivi alla crisi del 2008, dei paesi della zona euro, eccetto la Germania.
È quindi piuttosto difficile sostenere che l’adesione all’euro sia una condizione indispensabile per il successo economico. Da parte mia, non vedo nessun nuovo argomento che possa giustificare l’adesione dell’Islanda all’euro.
Banche addio… oppure i giovani islandesi che abbiano fatto studi superiori vi troveranno un impiego?
Le banche, che siano in Islanda o all’estero, sono diventate delle imprese molto tecnologiche, che danno lavoro a numerosi ingegneri, informatici e matematici. Attraggono talenti da settori innovativi, quali le alte tecnologie o le tecnologie dell’informazione.
Dopo la caduta delle banche, questi talenti si sono ritrovati sul mercato del lavoro. In sei mesi, avevano tutti trovato lavoro … E le imprese tecnologiche o di design hanno avuto un rapidissimo sviluppo nel corso degli ultimi tre anni. Centinaia di nuove aziende sono state create. Sono ben lieto di constatare che le giovani generazioni hanno risposto alla crisi in modo molto creativo.
Morale della favola: se volete che la vostra economia sia competitiva nel settore delle tecnologie innovative, il fatto di avere un grosso settore bancario, ancorché capace di notevoli prestazioni, è una cattiva notizia.
E questo è quanto, e a parlare non è qualche complottista paranoico, ma un capo di stato democraticamente eletto. Il presidente Grimsson in questa intervista ha toccato diversi punti caldi e smentito luoghi comuni a raffica. In particolare esprime posizioni scettiche sull’Euro e sull’adesione dell’Islanda all’Unione Europea. E proprio questo argomento, l’adesione all’Unione Europea, è stato l’argomento cardine della campagna elettorale che ha portato alle elezioni di oggi. Dopo la crisi finanziaria l’Islanda sembrava in procinto di aderire all’Unione Europea ma, visto che gli islandesi se la sono cavata benissimo da soli, le pratiche sono state congelate dal governo uscente. Se i sondaggi non sbagliano, alle elezioni odierne i primi due partiti saranno il Partito Progressista e il Partito dell’Indipendenza che probabilmente formeranno una coalizione di governo. Come in Italia insomma, direte voi, beh non esattamente. Perché in Italia i partiti si sono uniti al grido di “Ce lo chiede l’Europa” dietro un oscuro figuro, che quando s’è candidato alla guida del suo partito ha preso meno voti perfino di Rosy Bindi, che nel ’97 scriveva “Morire per Maastricht”. In Islanda invece i due maggiori partiti si uniranno al grido di “Europa? No grazie, qui ce la caviamo da soli!” e come primo atto di governo getteranno in un geyser le trattative con l’idra di Bruxelles. Ah, avercelo noi un Grimsson come capo dello stato al posto di Giorgio “L’URSS ha contribuito alla pace nel mondo” Napolitano.
Johnny 88
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