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“L’Unione europea ha portato la pace”: come ci fregano con la fallacia “post hoc, ergo propter hoc”

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Post hoc ergo propter hoc significa, letteralmente, “dopo di ciò, quindi a causa di ciò”. Vuol dire accreditare un fatto di essere la causa di un altro solo perché accaduto prima.

Tale fallacia rientra nel novero di quelle informali di inconsistenza dette anche “fondamenta cedevoli”. Come rivela la parola, si tratta di argomenti basati su presupposti infidi e poco solidi, come le sabbie mobili. E tuttavia bisogna stare comunque attenti perché essi tendono ad aggirare la nostra naturale attitudine all’analisi critica e al ragionamento logico, e quindi a persuaderci.

Il sofisma in questione viene anche ricompreso all’interno dei cosiddetti non sequitur (letteralmente: non segue, non consegue) e può essere alternativamente designato come fallacia della falsa pista perché si basa su una relazione causale erronea.

Facciamo un esempio: 1) il mattino arriva sempre dopo che il gallo ha cantato; 2) quindi, il sorgere del sole è causato dal re del pollaio. Ovviamente, questo è un caso limite e fa ridere – anche i polli – per la sua assurdità. Eppure, non avete idea di quanto spesso la “scorciatoia” sia utilizzata non già inconsciamente dai bambini in età prescolare, ma consapevolmente dagli adulti con intenzioni manipolatorie.

Una variante del post hoc ergo propter hoc è il cum hoc ergo propter hoc (significa “insieme a ciò, quindi a causa di ciò”). Ad esempio: poiché è arrivato Ronaldo e la Juve non ha vinto la Coppa dei Campioni, allora la Juve non ha vinto la Coppa dei Campioni perché ha comprato Ronaldo. Sennonché, non è scritto da nessuna parte che il campione dei campioni debba vincere (o farti vincere) per forza il trofeo più ambito.

Oppure: poiché lo Stato ha aumentato il deficit quando sono andati al governo i gialloverdi, allora i gialloverdi hanno causato l’aumento del deficit. Non è detto, infatti, che il deficit dell’anno in corso sia colpa delle politiche di un nuovo governo. Spesso dipende dalle scelte del governo precedente o, addirittura, da anomalie strutturali o di sistema come quelle che affliggono l’euro e l’Unione europea.

Ma veniamo, appunto, al caso della UE e delle argomentazioni farlocche utilizzate per rinfocolare il suo “mito” presso il grande pubblico: la strategia del post hoc ergo propter hoc è stata – ed è ancor oggi – una delle più impiegate.

In particolare, la si usa con riferimento al tema della pace.

L’argomento lo abbiamo sentito così spesso da averlo interiorizzato e fatto nostro come se si trattasse di una verità rivelata e suona, più o meno, così: l’Unione europea ha assicurato il più lungo periodo di pace e di prosperità mai conosciuto dai popoli, e dalle nazioni, del vecchio continente. Post hoc ergo protper hoc: la pace è venuta dopo l’inizio del processo di unificazione europea e pertanto la pace è stata provocata dal processo di unificazione europea. Chiunque ascolti questa solfa è portato a darla per scontata, la “beve” senza filtri e infine la fa incondizionatamente sua proprio perché essa si fonda sulla leva potentissima della suggestione mentale e linguistica rappresentata dall’equazione: A viene prima di B, quindi A ha causato B. Oppure: B è venuto dopo A, quindi B è stato causato da A; che poi è la stessa cosa.

Nel caso dell’Europa però, lo stratagemma è doppiamente fallace. Non solo perché il ragionamento è viziato, in sé e per sé, alla radice (nel senso che la precedenza di un fatto rispetto a un altro non è sufficiente a garantirci in modo rigoroso e “scientifico” che il primo abbia cagionato il secondo), ma anche perché è proprio storicamente errato. È smentito sia dalla storia passata sia dalla cronaca dei giorni presenti se non addirittura, e paradossalmente, dai probabili sviluppi di quelli futuri.

Spieghiamoci meglio. Far coincidere l’Unione europea con l’origine della pace in Europa è un clamoroso falso storico consistente nell’invertire la causa con l’effetto. Infatti, è venuta prima la pace e poi la UE. Anzi, per dir meglio ancora, sono venuti prima due conflitti devastanti come la Grande Guerra e la seconda guerra mondiale – in occasione dei quali milioni di europei si sono scannati dentro le trincee, o sono morti durante i bombardamenti o gli assalti all’arma bianca – e poi un periodo straordinario di ricostruzione prima, crescita e convivenza pacifica poi, che dura tutt’oggi; sia pure con criticità sul piano economico, acutizzatesi, guarda caso, dopo la nascita della UE.

I famosi anni del boom – che per taluni vanno annoverati (secondo noi, a ragione) tra i migliori del nostro recente passato – sono stati il frutto del bisogno delle nazioni europee di ripartire daccapo e di tornare alla vita dopo gli incubi di morte e distruzione dei decenni precedenti. E in quel magico ventennio gli Stati del continente, pur conservando ciascuno la propria sovranità, hanno vissuto in pace e in armonia. E lo hanno fatto anche grazie a Costituzioni socialmente molto avanzate e all’adozione di un modello economico, quello keynesiano, che è l’antitesi del format neoliberista dei trattati di Maastricht e di Lisbona.

Vero è che, in tale contesto (ma dopo di esso, non prima di esso), hanno cominciato a consolidarsi i primi conati, sul piano giuridico, di un “avvicinamento” e di una collaborazione interstatuale. Da qui hanno preso il via iniziative come la CECA, nata col Trattato di Parigi del 18 aprile 1951, e la CEE e l’Euratom istituite col Trattato di Roma del 25 marzo 1957. Quando queste organizzazioni si sono concretizzate con la firma dei relativi trattati, si badi bene, non c’era alcuna Unione europea. C’era semmai una forma di partenariato su specifiche e ristrette materie e relativo ad ambiti molto settoriali (il carbone e l’acciaio, appunto, ovvero l’energia nucleare e la circolazione delle merci) tra pochissimi Stati.

La UE sarebbe sorta solo trentacinque anni dopo, e precisamente con la firma del Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992. Ciononostante, in Europa gli Stati andavano già d’amore e d’accordo. Le merci circolavano tra un confine e l’altro, sia pure moderatamente “intralciate” dalle barriere doganali, e le persone potevano andare dall’Italia all’Austria o dall’Italia alla Francia – o da ogni Stato a qualsiasi altro del continente – senza essere recluse in un campo di concentramento o rispedite al confine con il foglio di via.

Permettetemi, permettetevi, di scherzarci sopra. A volte, infatti, per vendervi la magnificenza del progetto comunitario, i piazzisti dell’euro usano pesantemente la fallacia del post hoc ergo propter hoc spingendola fino al punto da far credere a noi, e soprattutto ai più giovani tra noi, che la circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali sia arrivata dopo, e grazie, all’Unione europea.

In realtà, già prima si poteva viaggiare da un Paese all’altro dell’Europa senza alcun problema che non fosse un controllo in dogana e magari un visto sul passaporto. Sai che dramma! Sai che complicazione! Pensate che gli studenti italiani potevano andare a visitare il Louvre e quelli francesi la Cappella Sistina! E senza l’Erasmus… Quanti di noi tornerebbero volentieri a quei tempi se sapessero – se avessero saputo per tempo – che il prezzo da pagare per le risibili agevolazioni introdotte dalla convenzione di Schengen sarebbe stato la abdicazione alla sovranità legislativa, monetaria, e quindi politica, della nostra Repubblica? Un bel po’, sospettiamo.

Vogliamo parlare dei costi di transazione delle merci? Credete vi sia stato un risparmio così importante per effetto dell’unificazione europea? Andate a rileggervi uno studio finanziato dalla Commissione nel 1990 richiamato nel libro del professor Bagnai, Il tramonto dell’euro. La stima era di appena lo 0,4 per cento del PIL europeo.

E alla fine di tutti questi “regali”, cosa è restato sul piatto? L’Unione europea, appunto, che è un fatto storico successivo, e non già una causa della pace.

Anzi, volendo essere pignoli, andrebbe notato come la guerra sul suolo europeo sia tornata – quasi un segno del destino! – proprio nell’anno 1992, quello della firma del Trattato di Maastricht. Ci riferiamo, ovviamente, alle guerra in Jugoslavia già ricordata in precedenza. Ma c’è anche un altro tipo di “guerra”, questa sì indubitabilmente causata dalla filosofia sottesa a tutta l’impalcatura della UE: una guerra che ha generato lutti non meno gravi di quelli provocati da un conflitto militare classico. Parliamo degli effetti della competizione permanente fra Stati, codificata addirittura nell’articolo 3 del Trattato sull’Unione europea dove si legge di una economia “fortemente competitiva”. Tale competizione– insieme alla austerity applicata con ottusa maniacalità dal 2010 in poi – ha visto dei vincitori (la Germania e i Paesi del centro Europa) e degli sconfitti (la Grecia, l’Italia e molte altre nazioni periferiche). Indimenticabile, a tal proposito, è la “scoperta” dei 700 bambini greci morti a causa dell’austerity poi pudicamente censurata da Federico Fubini, prima firma del «Corriere della Sera».

Ma c’è di più. Possiamo a buon diritto sostenere che l’Unione europea non solo non ha causato la pace, ma potrebbe causare la guerra in Europa. E non lo diciamo noi. L’allarme l’ha lanciato l’ultraeuropeista, nonché en passant presidente francese Emmanuel Macron, nell’aprile 2018: «Sta emergendo una sorta di guerra civile europea». Poi, avvalendosi della variante del non sequitur di cui abbiamo parlato in apertura (e cioè il cum hoc, ergo propter hoc) Macron ha portato a termine la sua opera di mistificazione concludendo più o meno così: poiché il rischio di guerra civile in Europa di cui parlo è contemporaneo alla ripresa delle istanze nazionalistiche, allora è colpa degli egoismi nazionali se c’è un rischio di guerra civile in Europa. E ti pareva. Chapeau.

Infine, non dimentichiamo le sfumature giuridiche, spesso in grado di fare la differenza quando parliamo di guerra e pace. La Costituzione italiana “ripudia” addirittura la guerra (art. 11) sia come “mezzo di offesa” alla libertà altrui che come “strumento di risoluzione” delle controversie internazionali: come dire che la guerra – ai nostri padri costituenti – faceva talmente schifo da non prenderla in considerazione mai, e per nessuna ragione. L’articolo 42 del Trattato sull’Unione europea, non è mica così tranchant, sapete: «L’Unione può avvalersi di tali mezzi [civili e militari, N.d.R.] in missioni al suo esterno per garantire il mantenimento della pace, la prevenzione dei conflitti e il rafforzamento della sicurezza internazionale, conformemente ai principi della Carta delle Nazioni Unite. L’esecuzione di tali compiti si basa sulle capacità fornite dagli Stati membri».

Alla faccia del ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali…

Adesso, però, ricapitoliamo; lo svolgimento è stato questo:

dolore per i lutti della guerra
↓
piacere di ripartire pacificamente
↓
desiderio di trovare nuove forme di convivenza.

In altri termini, è sul “terreno” già fertile della pace che sono sbocciate le prime amichevoli forme di cooperazione sopra citate (come CECA, CEE, ecc.); e si trattava di progetti di partenariato sinergico (tra pochi Stati e in specifiche materie) totalmente diversi rispetto alla “Unione” attuale. L’Unione, per intenderci, venutasi a consolidare in base ai trattati stipulati nell’ultimo ventennio del secolo scorso e nel primo ventennio di quello attuale. Insomma, le prime embrionali modalità di cooperazione pacifica e interazione non bellicosa degli anni Cinquanta non coincidono affatto con l’Unione europea dei giorni nostri.

È ammesso anche dal più fanatico degli europeisti che l’Unione europea, come la conosciamo oggi, è ben altra cosa rispetto a quelle blande, e condivisibili, forme di collaborazione vicendevole istituite a ridosso degli anni del boom. E infatti la UE, come già detto, giunge a maturazione, nel suo attuale “accrocchio” burocratico, monetario, fiscale solo nel 2007; più precisamente, con il Trattato di Lisbona, ovvero, se proprio vogliamo retrodatare, nel 2002 con l’esordio della moneta unica.

Possiamo perciò sostenere, senza tema di smentita, che l’argomento  “post hoc ergo propter hoc” non solo è, in sé e per sé, e come tutti gli espedienti retorici analoghi, una fallacia dialettica (quindi, a tutti gli effetti, una forma di manipolazione), ma lo è mille volte di più – nel caso della UE e della sua storia – perché falso da un punto di vista cronologico.

Un mago da strapaese che cercasse di convincere lo sprovveduto di turno dell’influenza nociva delle comete, potrebbe portare una serie di esempi storici incontestabili in cui prima è stata avvistata la cometa e poi si è verificata una catastrofe. Il suo argomento sarebbe comunque viziato alla radice perché l’epifania di una cometa, a ridosso di un brutto evento, non dimostra affatto che la palla di ghiaccio vagante nel cosmo abbia causato il disastro.

Tuttavia, e se non altro, nel caso della cometa sarebbe quantomeno rispettato l’ordine cronologico: è vero, cioè, che prima avvisti la cometa e poi succede il patatrac. Vale lo stesso anche per i “segni” positivi tipici di ogni scaramanzia: prima trovo il quadrifoglio e poi mi capita un colpo di fortuna; prima Romolo vede dodici avvoltoi nel cielo della futura città eterna e poi – convinto della predilezione divina – uccide il fratello Remo.

Nel caso dell’Unione europea, invece, la fallacia “post hoc ergo propter hoc” non ha serie fondamenta né da un punto di vista logico (il che è tipico di tutte le fallacie) né da un punto di vista cronologico. Infatti, come illustrato poc’anzi, l’Unione europea non ha preceduto la pace, ma l’ha, semmai, seguita.

C’è un altro antidoto molto efficace contro il veleno mentale contenuto in questa fallacia. E cioè dimostrare al nostro interlocutore l’inconsistenza della sua tesi prediletta: quella secondo cui l’abbattimento delle barriere doganali e amministrative tra popoli (e quindi la con- fusione tra le istituzioni, le regole e gli obbiettivi di ciascuno di essi) porta alla fine dello spettro della guerra. Anche qui, come notate, ci si trova in piena applicazione del “post hoc ergo propter hoc”.

Di solito, chi usa questo stratagemma lo accoppia all’adagio tipico della cultura “liberista” secondo cui – una volta abbattuti i confini – tra uno Stato e l’altro transitano le merci e non i cannoni. Il che, però, oltre a essere tutto da dimostrare non deve significare per forza che, una volta rese più fluide le transazioni commerciali tra due o più popoli, questi ultimi debbano anche federarsi sotto la guida centralizzata di un’unica cabina di comando. Soprattutto se non c’è quel mastice insostituibile che è la volontà e il beneplacito della gente. Chiudiamola così: dopo le unificazioni ottenute senza il consenso popolare ci puoi trovare non la pace, ma la più sanguinosa delle guerre.

Francesco Carraro

www.francescocarraro.com

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