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Attualità

L’Italia deve “uscire dall’euro”? Quali strade possibili?

Pubblicato

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di Davide Gionco
05.05.2019

Mentre i sondaggi ci dimostrano che la fiducia degli Italiani nei confronti dell’Europa è scesa dall’85% dei primi anni 2000 all’attuale 36%, altri sondaggi ci dicono che attualmente solo il 34% degli italiani sarebbe favorevole ad un’uscita dell’Italia dall’Unione Europea. Cosa che per il momento nessuna forza politica in Parlamento propone.
Se parliamo della moneta unica, attualmente circa il 59% degli italiani ha ancora una valutazione positiva dell’euro, mentre solo il 30% (che però nel 2016 era solo il 16%) è favorevole ad un ritorno alla lira. Anche questa cosa che nessuna forza politica in Parlamento propone.
Probabilmente le attuali forze politiche in Parlamento mirano ad aumentare il proprio consenso elettorale e fanno i conti con questi sondaggi.
Non a caso, infatti, i principali partiti del paese (in termini di consenso) non parlano mai della possibilità politica di uscire dal sistema dell’euro moneta unica e della possibilità politica di uscire dall’Unione Europea. E non ce l’hanno neanche nel programma politico.
Non lo fanno in quanto puntano ad avere la maggioranza nel paese.
Se il paese, in maggioranza, non chiede di uscire, i partiti non lo propongono e non lo dicono. In questo modo chi governa l’opinione pubblica, tramite i mezzi di informazione di massa, governa anche le decisioni dei partiti.

Oppure non lo fanno in quanto si tratta di azioni politiche che, nell’attuale situazione dell’Italia, devono essere messe in atto senza preannunciarle in pubblico, per evitare dannose ripercussioni e ricatti di ogni genere durante il periodo compreso fra l’annuncio e l’attuazione della decisione.
Il tutto mandando a farsi benedire la Democrazia ovviamente.
Immaginiamo un governo che abbia in programma l’accettazione dell’uso di droghe leggere e che poi, nel concreto, vari delle leggi che ne prevedano una forte repressione. Tutto formalmente legittimo, ma democraticamente poco corretto.
Se prendiamo atto del fatto che le nostre democrazie occidentali in realtà sono delle democrazie “fino ad un certo punto”, dovendo esse sempre e comunque rendere conto prima di tutto ai poteri economici, allora si può pragmaticamente accettare il fatto che certe decisioni possano essere organizzate in tutto segreto e poi messe in atto in tempi brevi, senza preavvisare il popolo, con il vantaggio però di sottrarsi alle ritorsioni che si sarebbero subite annunciando pubblicamente, per tempo, quelle intenzioni.
Se vogliamo è un po’ come la “guerra lampo” (Blitzkrieg) di Hitler. Facendola in fretta e improvvisamente non si lascia all’avversario il tempo di reagire per difendersi.
Se siamo in guerra economica, dobbiamo agire di conseguenza.
Ma non si tratta di un processo “democratico”.

Non sappiamo dire se l’attuale governo M5S+Lega abbia preparato un piano di uscita dall’euro e dall’Unione Europea, all’oscuro degli italiani e anche di noi che seguiamo attentamente il loro operato.
Sappiamo che altri paesi, come ad esempio la Germania, da tempo hanno preparato un “Piano B” nel caso in cui per loro fosse conveniente uscire dall’euro. Personalmente ritengo che ogni governo serio dovrebbe avere sempre pronte più carte da giocare, in funzione delle mosse degli altri governi, spesso fatte non negli interessi degli italiani, ma del loro popolo o più probabilmente dei poteri economici di riferimento.

Ma veniamo all’oggetto dell’articolo: l’uscita dall’euro.
Come slogan politico è certamente semplice e ad effetto. L’euro è il simbolo di tutto ciò che non funziona e che ci arriva dall’Unione Europea. Se ne usciamo, ci tiriamo fuori da quel sistema di regole, ripristiniamo la sovranità nazionale (e magari anche popolare), dopo di che le cose andranno certamente meglio.

Se, invece, guardiamo alle questioni politiche in gioco, la situazione è molto più complessa.
Per noi che da anni studiamo le ragioni della crisi economica in Italia è chiaro che molte delle cause sono legate all’adesione dell’Italia ai trattati europei e ad altri trattati internazionali, che hanno comportato la modifica delle regole che consentivano all’economia italiana di essere florida, diciamo fino agli anni 1970-1980, per imporci regole che hanno portano alla distruzione progressiva distruzione del nostro benessere economico e dei nostri diritti sociali.

Questo significa che non è sufficiente “uscire dall’euro” per risolvere tutti i problemi, in quanto ci sono molte regole “nefaste” ai cui siamo soggetti e che non dipendono dall’appartenenza all’Eurozona. Regole che subiscono anche nazioni che non utilizzano l’euro, fra le quali il Regno Unito che ha votato per uscirne.
Proviamo a farne un elenco, certamente non esaustivo (l’intenzione non è di fare un elenco storico preciso dei trattati firmati dall’Italia):
* Adesione alla moneta unica euro, che significa avere un tasso di cambio fisso con gli altri paesi dell’Eurozona, che significa totale libertà di circolazione dei capitali nella stessa area, che significa cessione alla BCE del potere di creazione della moneta a corso legale “euro” e sulla regolamentazione del nostro sistema bancario.
* Adesione al trattato di Lisbona, con la libera circolazione delle merci, con il vincolo al 3% di deficit del bilancio dello stato e con l’obiettivo generico di ridurre il debito pubblico al 60% del PIL
* Adozione del Fiscal Compact, che ci impone di ridurre in 20 anni il debito al 60% del PIL, attuando politiche di austerità (più tasse, meno spesa pubblica, privatizzazioni, ecc.)
* Adesione al Trattato di Schengen sulla libera circolazione dei lavoratori
* Adesione al Trattato di Dublino sull’accoglienza dei migranti e dei rifugiati.
* Adesione all’Eurogruppo
* Adesione delle nostre banche ai vari accordi interbancari di  Basilea
* Adesione al WTO, l’organizzazione mondiale del commercio e ad altri trattati tipo il CETA
* Adesione alla NATO

L’adesione a questi trattati ci ha portato complessivamente degli svantaggi, ma anche alcuni vantaggi che perderemmo uscendone unilateralmente. Senza avervi aderito, infatti, correremmo il rischio di subire delle ritorsioni, di tipo o commerciale o politico, da parte di altri paesi.

Quando si parla di “adesione all’Europa” c’è in realtà tutta una serie di sfumature politiche: ci sono paesi che usano l’euro e non fanno parte dell’Unione Europea, ci sono paesi che appartengono all’Unione Europea e che non usano l’euro, ci sono paesi che fanno parte dell’Area Schengen, ma che non usano né l’euro e non fanno parte dell’Unione Europea.
Ci sono paesi come il Regno Unito che per decenni hanno fatto parte dell’Unione Europea, ma usufruendo di deroghe rispetto ad alcuni vincoli. E ci sono paesi, come la Germania e la Francia, che hanno sottoscritto tutti i trattati, ma che non si fanno problemi a violarli quando sia per loro conveniente, sicuri di non subire sanzioni da organismi che controllano politicamente.

Per questo motivo, legittimamente, fra coloro che riconoscono gli aspetti critici derivante dell’adesione dell’Italia ai vari “regolamenti europei”, ci sono alcuni che ritengono sufficiente cambiare alcune regole e non tutte, senza mandare all’aria tutto il tavolo.
Mentre ci sono altri che, altrettanto legittimamente, ritengono che tutto questo sistema di potere creato tramite i trattati europei sia sostanzialmente irriformabile, che sia meglio uscire unilateralmente da questi accordi, per riappropriarci della libertà di prendere le decisioni politiche opportune per il bene degli italiani.
Personalmente, come il compianto Luciano Gallino, ritengo che l’attuale Unione Europea sia politicamente irriformabile, in quanto richiederebbe l’unanimità di 28 paesi e in quanto il sistema di potere che lucra, a nostre spese, dall’esistenza dell’Unione Europea, è potentissimo, controlla i governi di molti paesi, controlla i giornali, controlla le università. Una modifica ordinata e consensuale finalizzata a renderla uno strumento utile al benessere dei popoli europei e del popolo italiano, se mai avvenisse, è qualcosa che richiederebbe decenni, il tempo necessario affinché una nuova cultura si affermi in Europa, in modo tale di cambiare unanimemente l’opinione di tutti i governi europei. O è fantapolitica o è un tempo che, comunque, non ci possiamo permettere, stanti i gravissimi danni già subiti dall’attuale situazione. Se dovessi pensare ad una via politica per realizzare un’alleanza di pacifica collaborazione fra nazioni europee per lo sviluppo economico, ritengo che il modo sarebbe più semplice sarebbe porre fine all’Unione Europea e stipulare uno o più trattati ex novo fra le nazioni uscite dalla UE.

Il discorso è evidentemente estremamente complesso.
Per il momento concentriamoci sulle questioni legate alla moneta unica euro. Risolta la questione della moneta, gli altri problemi saranno di più facile soluzione.

L’adesione alla moneta unica euro comporta dei danni per l’Italia almeno per le seguenti ragioni:
1) La BCE, banca centrale, non opera in accordo con il Tesoro italiano, per cui non abbiamo il controllo dei tassi di interesse sul debito pubblico, né sul suo sistematico rifinanziamento. In sostanza la BCE, insieme ai “mercati”, ha il potere di lasciare il governo italiano senza liquidità per i pagamenti nel giro di 1-2 mesi, semplicemente. Ed ha il potere di lasciare il governo italiano in preda alle azioni speculative delle lobbies finanziarie internazionali. Quindi ha un potere ricattatorio sulle decisioni politiche del governo democraticamente eletto.

2) La BCE ha il potere di bloccare, come l’esperienza della Grecia insegna, il sistema privato dei pagamenti bancari, che rappresentano il 90-90% della liquidità che utilizziamo. E questo rappresenta una seconda, potente, arma di ricatto nei confronti dei paesi sovrani.

3) Una stessa moneta unica per diversi paesi impedisce ai diversi paesi di adeguare il tasso di cambio fra le valute nazionali in funzione dei differenziali di inflazione. Se in Italia i prezzi aumentano mediamente del 2% e in Germania dell’1%, dopo 10 anni i prodotti italiani saranno più costosi del 10% e l’Italia, per non vedersi sommersa dai prodotti tedeschi e per non ridurre la propria produzione, è obbligata a svalutare del 10% i salari. Per chi voglia comprendere meglio, l’economista Alberto Bagnai, nel suo blog Goofynomics, si è occupato a fondo del fenomeno.

C’è chi pensa, come Varoufakis & c., che sia possibile riformare l’euro rendendolo funzionale alle esigenze delle diverse nazioni europee, unificando il debito pubblico (eurobonds) e realizzando trasferimenti fiscali importanti (almeno del 20% del PIL europeo) dalle nazioni alle nazioni più ricche alle nazioni più povere.
Tuttavia Varoufakis & c. non ci spiegano in quale modo pensano di far cambiare opinione agli squali della finanza europea, appoggiati dai governi francese e tedesco e non ci spiegano in che modo convincere il popolo tedesco, che chiama il debito pubblico “Schuld” = “Colpa”, ad accollarsi il debito pubblico degli altri stati. Pura fantapolitica.

Preso atto del fatto che l’euro è irriformabile, si tratta ora di trovare il modo per ritornare alla sovranità monetaria in Italia.

Se è chiaro che sarebbe bene trovarci dall’altra parte del fiume, il problema è attraversarlo.

Quali sono attualmente le soluzioni che sono state proposte in Italia per ritornare alla sovranità monetaria?
Elenchiamole e mettiamole al confronto, evidenziando benefici e criticità delle proposte.

  1. USCITA SECCA: PASSAGGIO DIRETTO DALL’EURO ALLA LIRA

Si tratta della soluzione “classica”. Così come siamo passati dalla lira all’euro, allo stesso modo si passa dall’euro alla lira.
Si fissa una data a partire dalla quale tutti i pagamenti sul suolo nazionale devono avvenire in lire.
Si concede un breve periodo di tempo per convertire le euro-banconote in nuove lira-banconote.
I conti correnti bancari vengono convertiti in lire.
Il debito pubblico viene convertito in lire.
I contratti stipulati secondo il diritto italiano vengono convertiti da euro in lire.
Lo Stato paga in lire e accetta solo pagamenti in lire.
I turisti stranieri in vacanza in Italia devono pagare in lire.
Eccetera, eccetera.

Facile a dirsi, ma a farsi?
Nel caso la data venisse preannunciata per tempo, vi sarebbe una inevitabile corsa agli sportelli per ritarare euro da mettere “al sicuro”, prima della temuta (a ragione o torto, non importa) svalutazione con la conversione in lire. Si dovrebbero probabilmente chiudere per un certo tempo gli sportelli bancari. Il Soros di turno farà investimenti per speculare sul cambio di valuta. Vi sarebbero certamente dei problemi di pagamenti nel settore privato, soprattutto nei confronti di fornitori esteri, con possibili fallimenti di imprese, da mettere in conto.

Intendiamoci: una volta che la lira fosse ridiventata la moneta sovrana, il governo potrebbe liberarsi dai ricatti della BCE e dei “mercati”, aumentando la spesa pubblica e riducendo il carico fiscale, ridando fiato all’economia italiana.
Tenuto conto dei vantaggi di avere la sovranità monetaria, fino a qui varrebbe certamente la pena di sopportare questi problemi di transizione.

Un’uscita unilaterale dall’euro, però, unitamente alla violazione unilaterale dei vincoli europei sul deficit e sull’euro, costituirebbe una sfida aperta, anche formale, nei confronti dell’establishment dell’Unione europea.
Non si tratterebbe solo di un’uscita dalla moneta unica, entrando in una posizione simile a quella di nazioni come Svezia, Danimarca, Polonia, che sono nella UE pur senza adottare l’euro. Si dovrebbe di fato recedere unilateralmente, senza accordi preliminari (e interminabili, stile Brexit) da tutti i trattati europei, con inevitabili tensioni anche rispetto ad altri trattati “occidentali”, come l’adesione al WTO e l’adesione alla NATO. Una situazione complessa e difficile da prefigurare, in quanto entrerebbero in gioco anche le altre superpotenze mondiali, come gli USA, la Russia, la Cina…

I poteri forti che da decenni lucrano sulla situazione dell’Italia avrebbero il pretesto formale, a motivo della violazione delle “regole” di attaccare l’Italia imponendo sanzioni, ma soprattutto bloccando il sistema privato dei pagamenti bancari, come già fecero con la Grecia nel 2013.
Oltre alle reazioni formali, ci sarebbero le reazioni sostanziali dei “mercati”, per nulla intenzionati a mollare la “preda Italia”. Farebbero di tutto, avendo il controllo dei mass media e di altri importanti governi europei, per mettere sotto pressione l’Italia e l’opinione pubblica degli italiani, per fare in modo che l’Ital-exit non avvenga. Colpirebbero le nostre aziende sul mercato azionario, potrebbero boicottare delle forniture: non dimentichiamoci che siamo in guerra economica, le ritorsioni, almeno temporanee, sarebbero inevitabili.

Un governo convinto della necessità di uscire dall’euro probabilmente terrebbe duro, fino a superare anche questi ostacoli. Le “penalizzazioni economiche” sarebbero certamente temporanee, in quanto i nostri paesi vicini non avrebbero alcun interesse a rompere i rapporti economici con l’Italia.
Il vero problema sarebbe, però, di ordine politico. Per attraversare i mesi di messa in atto dell’uscita dall’euro sarà necessario disporre di una robusta maggioranza politica. Non del 51%, ma almeno del 65-70%, considerando che una parte rilevante dei parlamentari cederà ai ricatti dei poteri finanziari, alla campagna di disinformazione messa in atto, alle proposte di corruzione (che certamente arriveranno) o alle minacce (non abbiamo a che fare con dei gentiluomini, ma con la mafia della finanza internazionale).
E nello stesso tempo mantenendo un largo consenso dell’opinione pubblica, che dopo 30 anni di propaganda contro la “liretta” e in favore di una moneta unica europea, subirebbe il rush finale dell’azione di propaganda: ci sarebbero imponenti manifestazioni di piazza, proteste dei sindacati (scioperi), appelli degli intellettuali…
Ora, chiediamoci quanto tempo ci vorrà a mettere insieme un’alleanza politica solida, incorruttibile, coraggiosa, capace di resistere al calo di consenso dell’opinione pubblica, capace di controllare un’ampia maggioranza del 65-70% in Parlamento, che non scenda sotto il 50% dopo tutti i fatti politici di cui sopra e fermamente decisa ad uscire dall’euro, nonostante tutto. Quanti “duri e puri” pensiamo di riuscire a mettere insieme?

Ultima considerazione: le conseguenze economiche di una uscita unitalerale dell’Italia dall’euro.
L’euro è già una costruzione estremamente fragile ed instabile, sopravvissuta negli ultimi anni solo grazie ad iniezioni di liquidità di centinaia di miliardi di euro da parte della BCE, tramite il Quantitative Easing.
L’Italia è un paese fondamentale per gli equilibri per l’euro e per la sua sostenibilità finanziaria. E politica.
In caso di uscita rapida e non coordinata con gli altri paesi (si pensi alle interminabili trattative della Brexit ed alla difficoltà di stabilire dei  nuovi accordi), i vari governi prenderebbero delle decisioni urgenti fra loro non coordinate, che porterebbero quasi certamente al tracollo finanziario dell’euro, scatenando una crisi finanziaria mondiale di proporzioni mai vista prima d’ora nella storia.
Alla fine anche l’Italia, pur essendo ritornata all’agognata sovranità monetaria, subirebbe i danni di questa crisi economica internazionale, mettendo in ancora maggiori difficoltà il coraggioso governo che fosse, nonostante tutto, riuscito a traghettare l’Italia dall’altra parte del fiume. Al di là delle temporanee sofferenze economiche per la situazione, il rischio sarebbe un ritorno al potere delle forze politiche strettamente legate al neoliberismo, che “ce lo avevano detto” che sarebbe andata a finire male.
E uscire dall’euro senza poi cambiare il paradigma economico, ci riporterebbe rapidamente nella stessa situazione di oggi.

La soluzione di una “uscita secca dell’euro”, così come viene immaginata da chi la propone come slogan politico, è certamente giusta dal punto di vista teorico, se si guarda solo alla necessità di trovarsi dall’altra parte del ponte. Ma la sua fattibilità concreta è piena di ostacoli politici che a mio avviso, come spiegato sopra, vengono sottovalutati nella loro estrema difficoltà e che comportano un alto rischio di insuccesso, unito al rischio di ricadere in un neoliberismo più selvaggio di quello attuale.
Se fosse l’unica strada da percorrere, non ci resterebbe che tentare di percorrerla.
Ma se vi fossero delle alternative più semplici e rapide da mettere in atto, il non prenderle in considerazione significherebbe, nei fatti, condannare l’Italia ad una più lunga permanenza nella moneta unica, con tutto il bagaglio di sofferenze e di disperazione a carico degli italiani.

 

  1. INTRODUZIONE DI UNA MONETA PARALLELA AD USO NAZIONALE

I trattati europei non vietano all’Italia di emettere mezzi di pagamento diversi dall’euro.
Le euro-banconote riportano il marchio © del copyright: solo la BCE, con relative filiali (Banca d’Italia, Bundesbank, Banque de France, ecc.) ha il diritto giuridico di emettere euro.
Non esiste, però, un divieto formale ad emettere titoli di stato, che certamente possono essere utilizzati come mezzi di pagamento, cambiali o addirittura forme di moneta vere e proprie, come altre banconote o forme di moneta scritturale elettronica, come lo è la moneta bancaria, che attualmente costituisce il 90-95% della liquidità che utilizziamo nei nostri scambi economici.

Attualmente questo tipo di soluzione è promossa in Italia, con poche differenze sostanziali, dall’economista Nino Galloni (emissione di stato-note) e dall’associazione Moneta Positiva di Fabio Conditi (emissioni di moneta “SIRE”).

L’emissione di una moneta parallela a solo uso interno, sul territorio italiano, consentirebbe effettivamente di porre fine ai principali problemi causati dall’euro:
1) Fine dei ricatti nei confronti del governo italiano di lasciarlo senza liquidità per i pagamenti, in quanto i pagamenti sarebbero garantiti dalle stesse emissioni di “neo-lire” fatte dallo Stato stesso.
2) Fine del ricatto di bloccare il sistema dei pagamenti bancari, in quanto, per legge, le banche dovrebbero accettare anche pagamenti in “neo-lire”.
3) Fine dei problemi legati al tasso di cambio, in quanto le variazioni del tasse di cambio fra “neo-lira” e le altre valute estere potrebbero seguire il loro corso naturale di svalutazione o di rivalutazione. Ci sarebbe di conseguenza la possibilità di aumentare i salari in euro aggiungendo una quota in “neo-lire”, aumentando il potere di acquisto delle famiglie, questo senza penalizzare le nostre esportazioni.

Recuperare la sovranità monetaria non significa “convertire gli euro in lire”, ma significa la libertà per lo stato sovrano di emettere una propria moneta e di utilizzarla per i pagamenti sul territorio nazionale.
Dopo di che nulla vieta che sul territorio nazionale si possa continuare ad accettare pagamenti in euro o persino in dollari. Per lo Stato non sarebbe un problema: chi vuole paga in euro, chi vuole paga in neo-lire, sia nel settore privato, sia per quanto riguarda il pagamento delle imposte.
Lo Stato, invece, pagherebbe in neo-lire, liberandosi totalmente dalla dipendenza dalla BCE.
I pagamenti pubblici in neo-lire metterebbero in circolazione la nuova moneta sovrana nel mercato privato.
Gli incassi fiscali in euro consentiranno allo Stato di disporre di importanti riserve in euro da utilizzarsi nel modo più opportuno.
Il settore privato naturalmente accetterebbe le neo-lire, potendole certamente usare per il pagamento delle tasse (500 miliardi l’anno di “possibilità di spesa”, pari a 8’300 euro-equivalenti per ogni italiano).
Ma non solo: accettando pagamenti in neolire i commercianti avrebbero la possibilità di acquisire nuovi clienti.
Uno dei problemi dell’euro, infatti, è che ne circolano troppo pochi nell’economia reale, per cui molte persone e molte imprese non possono esprimere la loro domanda semplicemente per mancanza di denaro.
La messa in circolazione di neolire, tramite un aumento della spesa pubblica (stipendi pubblici, ma soprattutto appalti pubblici a beneficio delle imprese private), unita ad una riduzione del carico fiscale, lascerebbe nelle tasche dei soggetti privati più denaro da investire, da cui l’aumento della domanda interna e la ripresa dell’economia.
Dato che l’aumento di liquidità disponibile sarebbe in neolire, e non in euro, la spesa potrà avvenire solo verso produttori italiani, non verso operatori esteri che continuano ad usare gli euro.
Nel caso di acquisto di beni esteri, sarebbe comunque necessario convertire le neolire in euro (o altre valute). In caso di squilibri la neolira si svaluterebbe rispetto all’euro, facilitando il riequilibrio della bilancia commerciale.

Si avrebbero, insomma, gli stessi vantaggi della soluzione 1. “Uscita secca dall’euro”.
E non si avrebbero gli svantaggi di dover convertire tutti i contratti in essere da euro a lire. Il settore privato deciderà se mantenere i contratti in euro, se accettare anche pagamenti in neolire o se convertirli in neolire. Con una economia interna in forte ripresa l’equilibrio si stabilirà da solo.
Non ci sarebbero timori per i risparmiatori, in quanto i loro risparmi in euro resterebbero in euro. Quindi nessun rischio di fughe di capitali.
Non ci sarebbero violazioni formali delle regole europee. Certamente i falchi di Bruxelles alzerebbero la voce, ma non avrebbero appigli formali per farlo, in quanto non vi sarebbe alcuna violazione delle “regole”. Quindi non potrebbero comminare sanzioni e la campagna mediatica contro la ripresa della sovranità monetaria in Italia sarebbe evidentemente molto meno efficace.
I mercati finanziari non sono particolarmente politicizzati, ma guardano soprattutto ai propri interessi. Se i loro interessi “in euro” non venissero toccati, non essendoci alcuna “conversione in neolire” dei contratti di investimento in euro, avrebbero molti meno timori nei confronti dell’Italia. Quindi anche la loro eventuale azione aggressiva, da parte di qualcuno che lucra sulla recessione economica in Italia, ne risulterebbe complessivamente indebolita.
Anzi, la ripresa dell’economia italiana costituirebbe un segno positivo anche per i mercati, per cui eventuali tensioni sarebbero momentanee e poco durature, a differenza di quanto sarebbe accaduto nel caso di un’uscita secca dall’euro del caso 1.

Resterebbe, infine, il problema del rispetto formale delle regole dell’Unione Europea, le quali, ovviamente, fanno riferimento ai bilanci in euro e non ai bilanci in neolire.
Tuttavia il vantaggio di poter emettere moneta parallela senza generare nuovo debito porterebbe certamente vantaggi anche ai bilanci in euro, sia delle imprese, sia dello Stato.

Il fatto di disporre di una moneta parallela sovrana consentirebbe di sottrarsi ai ricatti dell’Unione Europea e dei mercati, aumentando quindi il potere contrattuale dell’Italia nei loro confronti, potendo ottenere trattamenti più benevoli (come accade oggi a Germania e Francia) in caso di sforamento dei parametri, avendo più voce in capitolo nel caso si volessero modificare i trattati europei.
E metterebbe l’Italia in una situazione ideale per uscire, se lo riterrà, in tutto o in parte, dai trattati europei, senza creare eccessive tensioni con i vicini europei, con i quali, in ogni caso, abbiamo bisogno di intrattenere dei rapporti politici e commerciali.

La messa in atto di questa soluzione sarebbe quindi indubbiamente più semplice da mettere in atto rispetto alla soluzione 1 e con molti meno rischi.
La difficoltà di questa soluzione è più che tutto a livello politico ovvero nella possibilità di mettere insieme un’alleanza politica capace di comprendere i vantaggi della reintroduzione di una moneta sovrana e parallela all’euro e fermamente intenzionata a metterla in atto, nonostante l’opinione pubblica (attualmente al 59%) sia ancora fiduciosa nei confronti dell’euro e nonostante le pressioni (inferiori a quelle che avremmo nel caso 1, ma comunque importanti) dell’Unione Europea e di una parte dei mercati finanziari.
Inoltre il fatto di emettere una moneta ufficiale verrebbe letto come un atto di rottura nei confronti dell’Unione Europea, in che ridurrebbe il numero di potenziali alleati politici per l’attuazione della misura.
Le difficoltà politiche a mettere insieme una maggioranza su questo programma sono certamente inferiori rispetto ad uno scenario “uscita secca dall’euro”, ma al momento non si intravede ancora questa possibilità.
I poteri forti che lucrano dalla permanenza dell’Italia nell’Eurozona hanno gioco facile, tramite il controllo dei mass-media, a conservare una opinione pubblica maggioritaria in favore dell’euro e a continuare a terrorizzare l’opinione pubblica sui rischi di un ritorno alla lira (citando a sproposito il Venezuela, l’Argentina, la Repubblica di Weimar, rischi di iperinflazione, ecc.). I partiti politici, purtroppo, guardano più al consenso elettorale che al bene degli italiani, per cui difficilmente sosterranno la reintroduzione di una moneta sovrana parallela, fino a che non ci sarà una opinione pubblica ampiamente favorevole.

Il rischio di puntare sulla “soluzione 2” è quindi quello di ritardare la messa in circolazione di una moneta sovrana a causa delle difficoltà politiche a metterla in pratica, anche se certamente inferiori a quelle della “soluzione 1”. E questo significherebbe prolungare le sofferenze degli italiani legate alla crisi economica ed allo strapotere neoliberista.

 

  1. MESSA IN CIRCOLAZIONE DI TITOLI DI STATO “FISCALI”: LA MONETA FISCALE.

Esiste una terza soluzione proposta per ridare all’Italia la propria sovranità monetaria, quella portata avanti dal gruppo della Moneta Fiscale (Marco Cattaneo, Stefano Sylos Labini, Biagio Bossone, Massimo Costa).
Questa soluzione consiste nell’emissione di speciali titoli di stato, chiamati Certificati di Credito Fiscale (CCF). Questi titoli verrebbero messi in circolazione dallo Stato tramite della spesa pubblica aggiuntiva rispetto a quella attuale, come assegno di sostegno ai più poveri, come integrazione ai salari più bassi, come forma complementare di pagamento dei fornitori dello Stato. Si tratta di dettagli di “ottimizzazione” certamente perfezionabili, se il caso, in fase di attuazione politica.
I CCF sarebbero utilizzabili per il pagamento delle tasse al posto degli euro dopo 2 anni dalla loro emissione.
Il fatto di poter spendere i CCF per il pagamento delle tasse consentirebbe a cittadini e imprese di tenersi in tasca più euro per le altre esigenze di spesa. L’effetto sarebbe, quindi, quello di un aumento della liquidità circolante, in modo del tutto analogo alla soluzione 2 della moneta parallela, in quanto i CCF sarebbero cedibili a terzi, a differenza degli attuali crediti con il Fisco.
In sostanza i CCF circolerebbero parallelamente all’euro, senza che l’Italia esca formalmente dall’euro, ma usufruendo di tutti i benefici di avere una nostra moneta sovrana “di fatto”.
Lo sfasamento di 2 anni per poterli scontare è un artifizio per garantire il rispetto formale della regola europea del limite al 3% di bilancio. Non perché la si ritenga una regola valida questa regola (è noto che si tratti di un valore buttato lì senza alcuna valenza macroeconomica), ma per evitare un motivo aggiuntivo di difficoltà politica dell’operazione.
Se, infatti, oggi lo Stato emette 100 miliardi di CCF e poi incassa 100 miliardi di CCF per il pagamento delle tasse, incassa anche 100 miliardi in meno di euro, che costituirebbe un deficit pubblico aggiuntivo del 5,7% di PIL, il che porterebbe l’Italia a sforare i parametri europei.
Ma se l’incasso dei CCF avviene dopo 2 anni, la circolazione (circolano, perché sono cedibili a terzi) di 100 miliardi aggiuntivi di liquidità nei settori dell’economia a maggiore propensione alla spesa comporterà, per l’effetto del moltiplicatore fiscale, un aumento del PIL del paese, con relativi incassi fiscali tali da compensare l’ammanco futuro di 100 miliardi.
Per chi lo volesse, i dettagli della proposta sono disponibili su questa pagina internet.
Il problema del rispetto del limite del 3% al deficit, senza andare allo scontro con le autorità europee, si presenterebbe peraltro anche con la soluzione 2 della moneta parallela. Con la soluzione 1, invece, il problema non si porrebbe, in quanto già risolto a monte con la rottura dell’Italia degli accordi europei, con le non trascurabili difficoltà politiche di cui abbiamo parlato più sopra.

I vantaggi della soluzione “moneta fiscale” rispetto alla soluzione “moneta parallela” non stanno negli aspetti economici, sostanzialmente identici, ma stanno soprattutto nella comunicazione (rapporti con l’opinione pubblica) e nelle minori tensioni politiche con l’Unione Europea.
Se la maggiore difficoltà per l’introduzione di una moneta sovrana parallela “neolira” sta nel riuscire a mettere insieme una maggioranza politica convinta che sia utile, e non un pericolo, emettere ufficialmente una nostra moneta, mettendosi in qualche modo di traverso alla UE, questo ostacolo verrebbe superato dal fatto di emettere non ufficialmente una moneta, ma semplicemente una diversa forma di titoli di stato, una di più rispetto alle già molte forme in circolazione.
Non dimentichiamoci che il sistema di potere dell’euro è stato costruito con l’inganno, costruendo una falsa narrativa sugli effetti benefici di una moneta unica continentale e sulla “inadeguatezza della liretta”. Molti ci credono ancora oggi, in totale buona fede.
I nuovi CCF sarebbero visti come dei “crediti fiscali”, un concetto già noto ai contribuenti italiani, non come una moneta sovrana. Questa diversa immagine esteriore ridurrebbe fortemente l’opposizione di coloro ancora convinti della bontà della moneta unica.
Questo significa che non vi sarebbero resistenze da parte dell’opinione pubblica e che, anzi, lo strumento sarebbe il benvenuto, il che faciliterebbe non poco la costituzione di una maggioranza politica parlamentare a sostegno del provvedimento.
I mass-media manovrati dai poteri forti della finanza avrebbero difficoltà a spiegare ai cittadini, spaventandoli, i rischi dell’emissione di titoli fiscali, non potendoli equiparare ad una moneta sovrana.

Per quanto riguarda i rapporti con l’Unione Europea, è chiaro che coloro che lucrano sulla crisi economica dell’Italia tenteranno di opporre delle resistenze. Tuttavia non avranno appigli formali per farlo, non essendo l’emissione di titoli vietata e non essendoci violazioni attuali ai regolamenti europei. Di conseguenza non potranno comminare delle sanzioni a nostro carico, né minacciare sanzioni per terrorizzare l’opinione pubblica italiana.
Quando l’entrata in circolazione dei CCF dimostrerà che non ci sono problemi per la maggior parte degli investitori finanziari, ma anzi benefici per gran parte dell’economia italiana ed europea, le eventuali pressioni dei poteri finanziari si ridurranno, fino a scomparire.

Questo tipo di soluzione potrebbe trovare facilmente sostegno sia da parte di coloro che intendono rompere definitivamente con la UE, sia da parte di coloro che ritengono che l’Unione Europea da mantenere e da riformare, dando all’Italia un maggior potere contrattuale in materia.
Gli effetti benefici sull’economia del paese sarebbero rapidi ed effettivi, il che sarebbe prima di tutto un bene per l’economia reale del paese, al di là di quello che sarà dei rapporti con l’UE e di quello che ne sarà dell’euro.
Il fatto di sottrarsi ai ricatti della UE, unito alla rapida ripresa economica del paese, consentirà di dimostrare agli italiani con i fatti l’importanza fondamentale di potere emettere e gestire un proprio mezzo di pagamento nazionale, il che faciliterà, al momento opportuno, l’eventuale trasformazione dei CCF in neo-lire ed eventualmente, se la maggioranza politica (non più sottoposta a pressioni e ricatti dei poteri finanziari e della UE) lo riterrà, anche la graduale uscita dai trattati europei, in modo concordato e senza causare sconquassi all’economia europea e mondiale.

A mio avviso questa soluzione è la strada migliore da percorrere, in quanto consente ai “no-euro” di trovare degli alleati temporanei in altre forze politiche critiche verso l’Unione Europea, che vedano nei CCF un mezzo di ridare immediatamente fiato all’economia italiana (cosa che tutte le forze politiche in buona fede desiderano) e per accrescere il potere contrattuale dell’Italia nei confronti della UE.
E’ la soluzione politica concretamente realizzabile in tempi più brevi.
E l’obiettivo “intermedio” di ridare fiato all’economia italiana, grazie alla circolazione di una moneta parallela di fatto, non è un obiettivo da disprezzare.
A cosa ci servirebbe attendere 10-15 anni per mettere in atto la “soluzione 1” o 5-10 anni per mettere ini atto la “soluzione 2”, se nel frattempo milioni di italiani saranno stati ridotti alla povertà e la maggior parte dei nostri giovani sarà definitivamente emigrata all’estero?
Molto meglio attuare subito la “soluzione 3”, risolvendo i problemi economici, per poi dedicarsi alla battaglia politica dell’Unione Europea.

Una volta messa in circolazione la moneta fiscale e fatta ripartire l’economia del paese, si potrà con molta più serenità portare avanti il dibattito sull’utilità di convertire i CCF in una moneta sovrana parallela “ufficiale” (soluzione 2) e sull’utilità di rinegoziare i trattati europei o addirittura di rompere con l’Unione Europea, passando ad accordi di tipo bilaterale con le nazioni nostre vicine di casa.
Personalmente ritengo che se l’Italia mettesse in atto questa misura, dimostrando con i fatti che la sovranità monetaria è la soluzione per porre fine a gran parte dei problemi economici dei 500 milioni di cittadini europei, le altre nazioni ci imiterebbero e l’Unione Europea cesserebbe di esistere nel giro di pochi anni.
E con lei l’isteria dell’ideologia neoliberista dell’austerità e della libera circolazione delle merci e dei capitali.
Sarà l’occasione per costruire un’economia italiana ed europea, come la chiama Valerio Malvezzi, di tipo umanistico, centrata sulla persona, con il denaro ridotto ad essere strumento politico per il benessere dei cittadini e non più uno strumento di arricchimento di pochi ai danni di molti.


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