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L’INSOLITO SCENARIO DEGLI INTERESSI NEGATIVI di Giovanni Bottazzi

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Consideriamo un normale prestito di denaro. Supponiamo una somma di 100 euro dato a prestito oggi. Allo scadere del prestito, poniamo un anno, il creditore percepisce il “montante” di 102 euro, come dice la parola somma del capitale di rimborso e dell’interesse prodotto. Normalmente il montante è maggiore rispetto al capitale investito. Invece da qualche tempo può succedere che, a fronte dell’investimento di denaro, 100 euro, magari in titoli di Stato a breve termine, il montante sia un po’ inferiore, per esempio 99,90 euro.

E’ lo scenario del tutto insolito che il mondo finanziario ci presenta oggi, quello dei tassi d’interesse negativi, in cui ci troviamo un po’ disorientati, come in un mondo alla rovescia. Ma come è possibile che l’interesse sia negativo?

La spiegazione sta nell’andamento generale dei prezzi, dei beni e dei servizi, che siamo avvezzi a misurare mediante appositi indici, come quelli ben noti calcolati dall’Istat. Ci orientiamo facilmente in un ambiente di prezzi più o meno crescenti, o di “inflazione”, più o meno rilevante, che è quello durato a lungo, come possiamo osservare dal 1955 ad oggi. Con una sola eccezione: infatti solo una volta, nel 1959, i prezzi hanno mostrato una tendenza media annua alla diminuzione.

Perciò siamo abituati a considerare soltanto il caso dell’interesse positivo, in cui alla scadenza del prestito il creditore deve recuperare tutta la crescita dei prezzi e, in più, un certo margine di interesse “vero”, che si chiama interesse “reale”. In altre parole, possiamo scomporre l’interesse complessivo, che si chiama “nominale”, in una parte di recupero dell’“inflazione” e in un’altra parte “reale”. Grossolanamente, trascurando le sottigliezze e accontentandoci di approssimazioni accettabili per valori piccoli degli interessi come quelli attuali, nominali o reali che siano, siamo alla nota formula del Fisher

                                                                                    in = ip + ir

in cui l’inflazione ip è quella attesa, che gioca nella contrattazione di mercato dei tassi d’interesse. Tale equazione ha senso anche a posteriori, ossia a cose fatte. Ad esempio, se il tasso nominale annuo è pari a 1,5%, mentre l’inflazione è pari all’1% annuo, concludiamo facilmente che lo 0,5% è la parte di interesse reale, sempre con buona approssimazione.

Questa formula ci aiuta a capire che cosa può accadere quando qualche valore diventa negativo. Infatti si comprende bene che, quando l’inflazione ip è negativa, supponiamo lo – 0,1%, e si verifica in altre parole una certa “deflazione”, il tasso reale che risulta dall’equazione indicata come la differenza ir =  in  –  ip  può essere ancora positivo. Questo si verifica se il tasso nominale in è pure negativo, o al limite nullo, mentre la deflazione in valore assoluto è maggiore dello tesso tasso nominale. Nel caso più semplice, se il tasso nominale è nullo, il tasso reale è pari al tasso di decrescita dei prezzi, ma preso con segno cambiato, ossia positivo: nell’esempio appena fatto, lo 0,1%.

La cosa risulta meglio comprensibile in termini finanziari se consideriamo anziché l’aumento o la diminuzione dei prezzi, inflazione o deflazione, un concetto reciproco: il potere d’acquisto della moneta. Questo dato è uguale grosso modo al reciproco del tasso d’inflazione: il potere di acquisto della moneta aumenta quindi quanto più la deflazione spinge i prezzi verso il basso. Così, se il potere d’acquisto aumenta ad un tasso maggiore del tasso d’interesse nominale (tolto il suo segno negativo), residua un certo tasso reale positivo.

E’ la situazione attuale, fortunatamente inconsueta ma possibile, in cui il potere d’acquisto della moneta aumenta nel tempo per via della deflazione, e così aumenta il valore del capitale prestato a favore del creditore, ma a sfavore del debitore. Non per nulla la Banca Centrale Europea auspica una situazione di lieve inflazione, per esempio il 2% annuo, che favorirebbe gli investimenti e quindi la crescita economica, contrariamente alla deflazione, che frena gli investimenti perché penalizza l’indebitamento.

Queste brevi considerazioni contribuiscono a spiegare perché sia diventato così difficile riuscire a ridurre il pesante debito pubblico dello Stato italiano; spiegano anche come gli investitori in titoli di Stato e, comunque, i prestatori che percepiscono montanti di rimborso erosi da tassi negativi o comunque assommanti a miseri interessi nominali, non si rendano conto di essere però nascostamente beneficiari di un accresciuto potere d’acquisto.

Lo sconcerto dell’investitore, che non trova rendimenti nominali positivi (e non riesce a vedere quelli reali che pure realizza quando spende il denaro rimborsato) fa da pendant a quello della banca. Questa deve fare i conti in moneta corrente e, con i tassi nominali negativi, non registra utili monetari; non essendo poi una unità di consumo, neppure riesce ad apprezzare quelli, sia pur modesti, realizzati in termini reali, ossia in termini di accresciuto potere d’acquisto della moneta.

Giovanni Bottazzi


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